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La fine del mese di novembre coincide ogni anno per l’Albania con una doppia festività nazionale. Quella che rievoca l’indipendenza dagli Ottomani e quella che celebra il momento della liberazione dall’oppressione nazi-fascista.
Il 28 novembre si festeggia infatti il giorno della Bandiera e dell’Indipendenza (Ditë e Pavarësisë), ricordando le imprese di Ismail Qemali, che nel 1912 sventolò da una finestra di Valona la bandiera (Flamuri) con l’aquila a due teste in campo rosso, proclamando di fatto la fine della dominazione imposta per secoli dall’Impero Ottomano. Il gesto di Qemali, già sufficientemente eversivo e portatore di istanze patriottiche per una coscienza nazionale allora ancora in costruzione, si saldava con una ricorrenza storica legata alla figura più iconica dell’Albania: Skanderbeg. Infatti, lo stesso 28 novembre del 1443, Giorgio Kastriota Skanderbeg era arrivato da condottiero a Kruja, impossessandosene, dopo aver abbandonato con trecento albanesi le forze ottomane del sultano Murad II, durante la battaglia di Niš, mentre si combatteva contro i crociati1. Da quella ribellione avrà inizio la lunga guerriglia che per ben venticinque anni terrà in scacco le forze del potente esercito turco.
Il giorno successivo, il 29 novembre, si festeggia invece la liberazione (Ditë e Çlirimit) dall’occupazione nazista e fascista, avvenuta nel 1944. I partigiani albanesi presero in quell’anno il pieno controllo delle principali città del paese, inclusa la capitale Tirana. La guerra fu dichiarata conclusa e il re venne deposto, avviando in breve tempo il processo per la proclamazione di una nuova Repubblica di ispirazione socialista.
A cogliere questa incredibile sovrapposizione di eventi non furono però gli storici. Il primo che riuscì a cavalcare l’onda anche emotiva di una tale confluenza simbolica di date rispetto ai valori della libertà fu Enver Hoxha, che proprio nell’autunno del 1944 era appena uscito come trionfatore della resistenza e si era accreditato come figura di riferimento del Fronte di Liberazione. Dopo cinque anni di invasione e tre di lotta armata l’Albania poteva dirsi, forse per la prima volta nella sua storia, una nazione definitivamente sovrana e non assoggettata ad alcuna potenza esterna.
Hoxha decise così di pronunciare in quella occasione un lungo discorso2 in cui a chiare lettere intendeva proporsi come leader, dialogando con un soggetto entusiasta, stremato da anni di lutti e di privazioni, desideroso di futuro: «il popolo». L’analisi di quel discorso, pronunciato a Tirana non a caso il 28 novembre del 1944 alla presenza di una folla oceanica, racconta moltissimo sulla strategia politica adottata da quello che di lì a poco si sarebbe trasformato in uno spietato dittatore.
L’intuizione utilitaristica che sta nell’accostare le due occasioni di indipendenza permette a Hoxha di proiettarsi sul palcoscenico della storia come il prosecutore dell’istinto di libertà che aveva spinto Qemali e gli altri insorti a rendersi protagonisti di gesti eroici. Una volta chiarita l’omologia di fondo tra i due momenti, Hoxha passa poi a inserire nella sua argomentazione alcuni termini tratti dalla retorica stalinista del tempo: ai nemici della collettività vengono contrapposti gli ideali di un progresso sociale possibile e finalmente a portata di mano. Ed è qui che Hoxha comincia a decantare la narrazione di una Albania imminente, un paese del futuro in cui troveranno spazio migliorie sociali, progresso manifatturiero, alfabetizzazione diffusa e – finalmente, verrebbe da dire – aperture nei confronti di quell’istinto libertario che era per secoli stato represso. Sappiamo che non sarà così. Nel discorso del 28 novembre 1944 viene ostinatamente mantenuto un ambiguo equilibrio tra la promessa di un’utopia dai toni quasi positivisti oltre che trionfali e alcune linee guida che invece, a distanza di pochi mesi, faranno concretamente già parte del programma del nuovo governo3. Dietro la raffigurazione di un «felice avvenire» offerto alla folla come miraggio in nome del quale sacrificarsi il futuro dittatore, con coerenza ideologica, sta già implicitamente ponendo al contrario le fondamenta per un personale progetto di uno stato nazionale ricavato per immagine e somiglianza sull’esempio dell’Unione Sovietica. L’esortazione al valore del popolo, costruita attraverso l’evocazione della sua forza collettiva, è ad esempio evidente in questo passaggio:
«L’Albania tutta diventi un cantiere di lavoro, in cui grandi e piccoli comprendano che non lavorano per gli stranieri, ma lavorano e costruiscono per il proprio paese. E per il nostro paese, per il quale non abbiamo risparmiato neppure la vita, non dobbiamo risparmiare il nostro sudore e la nostra fatica. […] Popolo albanese, i frutti della tua lotta eroica dovrai raccoglierli tu stesso, perché spettano a te e tu li hai pagati al prezzo del tuo sangue. Affinché i banditi, gli speculatori, gli intriganti e i politicanti imbroglioni, coloro che son usi a vivere alle nostre spalle e che ci hanno succhiato il sangue, non possano strapparceli e sottrarceli, serriamo le nostre file più forte che mai, riuniamoci tutti attorno al potere, al Fronte, al Governo democratico e cosi uniti procediamo verso gli obiettivi a cui tendiamo, e che sono il miglioramento della vita sociale ed economica del nostro paese. Evviva l’Albania libera e democratica! Evviva il popolo albanese!».
Sono riconoscibili i tipici toni del seduttore, utilizzati dal prototipo di oratore che riusciva a fare presa sulle masse secondo uno schema sociologico valido per tutta la prima metà del Ventesimo secolo. Come ha detto in un passaggio molto efficace Ettore Marino (in Storia del popolo albanese, Donzelli, Roma, 2018, p. 148),
Enver Hoxha «fu il don Giovanni dell’Albania e il don Giovanni del marxismo-leninismo. Li appiattì a sé per specchiarvisi, si vide bello, non cessò di ripeterlo, e il popolo albanese morì di fame e di disperazione».
Un romanzo sull’epoca dell’Albania liberata: La vita dell’eroe di Ron Kubati
C’è un romanzo, all’interno della corrente italofona di provenienza albanese, che più di altri esemplifica attraverso il racconto di una vicenda privata il passaggio da una ideologia postbellica progressista e potenzialmente positiva alla lunga tirannide del regime di Hoxha. Quel romanzo è La vita dell’eroe di Ron Kubati (pubblicato da Besa nel 2016).
Ron Kubati è una delle voci più notevoli del movimento italofono di provenienza albanese4. Ha scritto le sue opere in lingua italiana fin dagli anni Novanta e ha saputo costruire nel tempo un percorso straordinariamente originale, contraddistinto da una sorta di anomalia rispetto ai temi affrontati da altri suoi connazionali. Si potrebbe dire che mentre altri scrittori della sua generazione si sono progressivamente allontanati da tematiche e ambientazioni albanesi, partendo però da queste, Kubati abbia intrapreso invece un itinerario inverso, all’inizio distaccandosi pressoché radicalmente dall’albanesità per poi farvi un lento ritorno negli anni successivi. E infatti, dopo due romanzi dal fondale prevalentemente italiano (Va e non torna del 2000 e M del 2002), a partire dal successivo Il buio del mare (2007) il lettore si trova davanti ad un brusco rientro in Albania.
Ne La vita dell’eroe Kubati percorre fino in fondo la via dell’approfondimento di natura storiografica, con vicende ambientate in patria orientativamente tra gli anni Quaranta e Sessanta del Novecento5. L’eroe comunista Sami Keçi, che si è distinto più volte nella lotta partigiana contro gli invasori nazi-fascisti, diventa dopo qualche anno vittima del regime, allontanato e segnato – anche a causa di un raffinato gioco di vendette trasversali – dal marchio di infamia di un tradimento che in realtà non è mai avvenuto. Chi è Sami? In poche parole è il perfetto esempio di un personaggio frutto delle promesse di quella ideologia che abbiamo colto, attraverso il discorso di Hoxha, nel suo momento aurorale. Un giusto, un vessillo della resistenza che, dopo aver rischiato la vita per combattere l’invasore, esaltato dal successo collettivo di una generazione, ha creduto nella possibilità di una radicale trasformazione del proprio paese. Le sue convinzioni sono nutrite di frasi che vengono inconsapevolmente pronunciate in seguito agli automatismi inculcati dalla forza persuasiva della propaganda. Il momento di una piena coscienza per lui si manifesta – con durezza – nel corso di una missione in Italia. Soltanto tardivamente Sami si accorgerà che è in realtà stato allontanato per rendere più credibile il suo presunto tradimento. Ed è lì, in chiusura di romanzo e in concomitanza con la simbolica scomparsa del protagonista, che viene demistificato l’inganno di un certo eroismo. Lo stesso eroismo che, nel suo discorso del 1944, Hoxha rese funzionale al proprio progetto di consolidamento del potere.
La letteratura riflette attraverso le sue trame sulla vita vera. Un romanzo come quello di Kubati è dunque importante non soltanto come testimonianza di un periodo ben preciso della storia tutto sommato recente di questo paese. Ci permette per fortuna di recuperare, attraverso le vicissitudini di una vittima della retorica come il capo partigiano Sami Keçi, il senso di una commemorazione – quella della liberazione albanese dal nazi-fascismo – che deve rimanere intatta, senza alcuna interferenza di tipo ideologico e senza alcun tentativo di appropriazione indebita che ne offenda la memoria e che ne offuschi anche solo per un momento la dignità.
1 Sull’episodio si vedano Kristo Frashëri, Gjergj Kastrioti Skënderbeu: jeta dhe vepra, 1405-1468, Botimet Toena, Tiranë, 2002; e Nelo Drizari, Scanderbeg; His Life, Correspondence, Orations, Victories, and Philosophy, National Press, Albania, 1968.
2 Il discorso può essere letto per intero in Enver Hoxha, Resistenza e Rivoluzione: (scritti scelti, 1941-1944), Edizioni Gabriele Mazzotta, Milano, 1977, pp. 312-319.
3 Su questo aspetto, unitamente agli accenni di politica estera contenuti nel discorso del 28 novembre 1944 anche e soprattutto sulla questione jugoslava, che di lì a poco porterà ad una rottura con le forze del Maresciallo Tito, si veda Antonello Biagini, Dalla Repubblica Popolare all’economia di mercato, in Id., Storia dell’Albania contemporanea, Bompiani, Milano, 2007, pp. 134-140.
4 Su questa vera e propria enclave della letteratura italiana contemporanea mi permetto di rimandare a Fabio M. Rocchi, Le prime voci dell’italofonia albanese, Artemide, Roma, 2021, in particolare pp. 89-94.
5 Per un’analisi del romanzo in rapporto al contesto storico di appartenenza si veda Karol Karp, L’identità nazionale nella letteratura italo-albanese contemporanea. Un’analisi del romanzo “La vita dell’eroe” di Ron Kubati, in: «Verbum Analecta Neolatina», nn.1-2, 2020, pp. 233-247.
*Fabio M. Rocchi vive e studia a Tirana, dove è docente presso il Dipartimento di Italianistica della Facoltà di Lingue e Letterature Straniere e presso l’Istituto Italiano di Cultura. Nel 2021 ha pubblicato il volume Le prime voci dell’italofonia albanese.