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La comunità turca in Bulgaria continuò ad usare l’alfabeto arabo anche dopo la decisione di Mustafa Kemal Atatürk di passare a quello latino. Scopriamo come.
Negli ex territori della cosiddetta “Turchia europea” liberatisi dal dominio ottomano a partire dal Congresso di Berlino (1878) e fino alle guerre balcaniche (1912-13), i processi di modernizzazione si accompagnarono ad una graduale marginalizzazione e poi scomparsa di uno dei simboli più forti delle autorità precedenti, ovvero l’alfabeto arabo.
Questo sistema di scrittura, utilizzato per secoli per trascrivere la lingua turco-ottomana venne inoltre “sacrificato” anche nel paese successore dell’Impero ottomano, ovvero la Turchia, in quanto ritenuto incompatibile con gli obiettivi di modernizzazione della nuova Repubblica. Qui, la decisione di Mustafa Kemal Atatürk di riformare l’alfabeto adottando il sistema di scrittura su base latina era dettata da considerazioni al contempo linguistiche e politiche e, come altrove, si accompagnò a un desiderio di progresso, segnando una netta rottura con la storia e il sistema politico e religioso precedente.
La prospettiva di eliminare l’alfabeto arabo fu fortemente respinta dalle élite conservatrici e religiose del Paese, che vedevano nella latinizzazione dell’alfabeto un potenziale rischio dovuto alla separazione della Turchia dalla più ampia comunità musulmana.
Nel 1926, tuttavia, quando le repubbliche dell’Unione Sovietica con popolazioni di lingua turca (o turcica) in Asia Centrale ed altrove (Azerbaigian, Kazakhstan, Uzbekistan, ecc.) adottarono l’alfabeto latino, si verificò un importante precedente, che divenne una forte arma nelle mani dei sostenitori della “latinizzazione” in Turchia. La questione fu quindi sollevata a livello governativo nello stesso anno attraverso un proclama del Ministero dell’Istruzione, al quale la stampa rispose favorevolmente.
Le reazioni ambivalenti alla riforma dell’alfabeto in Bulgaria
Anche presso la comunità turca in Bulgaria (che all’epoca ammontava a ben 750mila persone), la riforma alfabetica di Atatürk non fu accolta da tutti con benevolenza ed entusiasmo. Come era prevedibile, le fazioni più conservatrici, tra cui le autorità islamiche e i credenti più rigorosi, criticarono aspramente l’adozione di un nuovo sistema di scrittura, considerando l’alfabeto latino una minaccia all’integrità della comunità islamica.
Al contrario, le componenti più riformiste della comunità turca in Bulgaria lo accolsero con entusiasmo e, nell’estate del 1928, alcuni rappresentanti delle istituzioni scolastiche si recarono in missione a Edirne, la prima città turca dopo il confine, per familiarizzarsi con il nuovo alfabeto che avrebbero utilizzato per educare la popolazione turca in Bulgaria.
Degno di nota è il fatto che i turchi di Bulgaria adottarono il nuovo sistema di scrittura su base latina addirittura prima che la riforma alfabetica entrasse ufficialmente in vigore in Turchia. Possiamo infatti ricordare il caso del giornale Yenilik (“Innovazione”), pubblicato nella città di Jambol, che iniziò a essere stampato interamente nel nuovo alfabeto turco il 13 ottobre 1928, dunque alcune settimane prima della data del primo novembre.
Tuttavia, l’entusiasmo delle associazioni di insegnanti turchi in Bulgaria e di altri intellettuali progressisti fu bruscamente interrotto da un’evoluzione imprevista della situazione nel Paese.
Nel contesto di una persistente opposizione tra elementi “reazionari” e “riformisti” all’interno della comunità turca locale in relazione alle innovazioni in ambito di scrittura, le autorità bulgare reagirono con una mossa inaspettata, prendendo le difese delle posizioni più conservatrici.
È facile interpretare tale posizione del governo bulgaro leggendovi il suo desiderio di creare separazioni ed indebolire il più possibile la comunità turca interna, e allo stesso tempo di tenerla lontana dalle novità, dal pensiero modernizzante e dalle influenze di ciò che stava accadendo in Turchia e oltre. La mossa bulgara era diretta in una certa misura anche contro il pensiero “turanico”, piuttosto diffuso in quegli anni, che esaltava il legame tra tutti i popoli di origine turca, passando per il Caucaso, la Russia meridionale, l’Asia centrale ed oltre, fino alla Siberia.
Chiaramente, l’idea di una catena ininterrotta di popoli turchi dall’Europa all’Asia, uniti dall’uso dello stesso alfabeto latino, spaventava anche i bulgari, prima ancora dei russi, che dieci anni dopo avrebbero modificato l’orientamento della loro politica alfabetica da “latinizzante” a “cirillizzante” proprio a causa di questa preoccupazione.
Le ripercussioni per la comunità turca in Bulgaria
Una settimana dopo l’introduzione della riforma alfabetica in Turchia, il ministero bulgaro dell’Istruzione affermò con una comunicazione ufficiale che l’uso dei caratteri latini nell’insegnamento alla popolazione turca locale era vietato.
In seguito a questo evento, l’associazione degli insegnanti protestò pubblicamente contro la decisione e nella sua battaglia trovò il sostegno dei membri turchi del parlamento bulgaro. Il fatto ebbe una forte risonanza anche sui media della Repubblica turca, dove molti articoli vennero pubblicato sull’argomento, sostenendo che le autorità bulgare stavano sostenendo i “fanatici” islamici nel loro Paese, fomentati da un gruppo di fuggitivi dalla Turchia.
A seguito delle continue richieste avanzate dai rappresentanti riformisti turchi tra i mesi di novembre e dicembre 1928, il ministro dell’Istruzione bulgaro Najdenov decise di soddisfare le richieste della comunità turca locale. Il 14 gennaio 1929 fu pertanto emanata una circolare che autorizzava l’insegnamento nelle scuole turche del Paese attraverso l’impiego del nuovo alfabeto latino. Tuttavia, questa non sarebbe stata la fine delle controversie sull’alfabeto turco in Bulgaria.
In seguito al cambio di marcia del governo, la stampa turca in Bulgaria introdusse gradualmente il nuovo alfabeto, ad eccezione del principale organo delle fazioni conservatrici, Intibah (“Risveglio”), che continuò a pubblicare i suoi articoli esclusivamente in caratteri arabi.
Tuttavia, dopo il colpo di stato del 19 maggio 1934 e l’insediamento del governo militare di Kimon Georgiev, la situazione “alfabetica” per la minoranza turca subì un nuovo ribaltamento. Infatti, il nuovo governo reintrodusse l’insegnamento dell’alfabeto arabo nelle scuole vietando la nuova scrittura su base latina, sostenendo tale decisione con la motivazione ufficiale che le comunità musulmane dovevano essere incoraggiate a sviluppare i legami con la loro religione. Come conseguenza immediata, tutti i giornali turchi scritti nel nuovo alfabeto furono vietati e gli intellettuali turchi che difendevano l’alfabeto latino perseguitati o costretti a fuggire.
Inoltre, si adottarono misure per favorire la diffusione di pubblicazioni religiose, simposi ed altre attività tra i musulmani anti-kemalisti bulgari incoraggiando l’operato dell’organizzazione anti-kemalista Obštestvo za zaštita na mjusljumanskata religija (“Società per la difesa della religione islamica”), fondata nel 1934.
Dopo diversi sforzi e ripetuti tentativi da parte degli esponenti più riformisti della comunità turca del paese, il governo bulgaro venne finalmente convinto e autorizzò l’insegnamento dell’alfabeto turco latino nel 1938.
Nonostante questo apparente successo, la situazione educativa rimase tuttavia disastrosa per questa comunità: negli ultimi due decenni, infatti, a causa delle politiche discriminatorie del governo bulgaro, il numero di scuole con insegnamento turco si era drasticamente ridotto.
Secondo le statistiche ufficiali bulgare, negli anni 1921-1922 c’erano 1700 scuole per la minoranza turca, ma nel 1936 ne restavano attive solo 540. Si pensi inoltre che nel 1934 meno del 20% dei maschi turchi di età superiore ai sette anni era in grado di leggere e scrivere, mentre quasi l’80% per cento dei bulgari risultava alfabetizzato.
La violazione dei diritti delle minoranze e il paradosso religioso
Possiamo valutare come tali misure discriminatorie nei confronti della minoranza turca da parte del governo bulgaro costituissero la chiara espressione di una politica di “esclusione etnica”. Secondo il diritto internazionale dell’epoca, alle minoranze degli stati europei dovevano essere garantiti una serie di diritti culturali, linguistici e religiosi, nonché i diritti politici emersi dai trattati di pace dopo la Prima guerra mondiale.
Nel periodo che va dalla fine degli anni Venti alla fine degli anni Trenta, l’alfabeto arabo continuò a occupare una posizione dominante nella cultura delle minoranze turche in Bulgaria.
Questo processo andò di pari passo con il rafforzamento dell’educazione religiosa e del potere dei rappresentanti islamici. Si trattava quindi di un chiaro paradosso se si considerano i cambiamenti che erano già in atto da molti anni nella vicina Turchia. In un certo senso, il governo bulgaro promosse divisioni e amarezze tra i membri della comunità turca nel paese e con la Turchia, favorendo l’alfabeto arabo con l’obiettivo di creare tensioni e allo stesso tempo arrestare lo sviluppo e il corso naturale della storia educativa e di scrittura della minoranza, rompendo i legami cruciali con la Turchia.
La Bulgaria rimase una sorta di “oasi” per l’alfabeto arabo nei Balcani, dal momento che il nuovo alfabeto latino era stato adottato dalla comunità turca in Grecia, Romania e Jugoslavia.
Estremamente significativo è a questo proposito il caso delle pubblicazioni conservatrici e anti-kemaliste che, in opposizione alle persecuzioni di cui erano oggetto in Turchia, continuarono a essere pubblicate in Bulgaria con l’impiego di caratteri arabi (quindi in turco ottomano) fino al 1943. Si tratta probabilmente di un esempio unico nell’ex Impero Ottomano, che supera il primato del Sangiaccato di Alessandretta (l’odierna provincia turca di Hatay), sotto sovranità francese all’epoca della riforma alfabetica di Ankara, dove i giornali locali in lingua turca adottarono l’alfabeto latino solo nel 1934.
Antropologa e ricercatrice di origine italo-messicana-levantina. Attualmente ricercatrice post-doc presso il dipartimento di Sociologia dell'Università di Ljubljana. I suoi temi di ricerca, che si ripercuotono anche sulla sua scrittura non accademica, riguardano la diaspora, i confini, la diversità culturale e le minoranze etnolinguistiche, con una predilezione particolare per l’area balcanica. Quando messa nelle giuste condizioni, parla più o meno fluentemente una dozzina di lingue e ne legge almeno altre cinque (romeno, russo, portoghese, un po’ di romanì e mandarino), grazie al suo bagaglio genealogico multiculturale e ai numerosissimi soggiorni di ricerca e studio all’estero finanziati da diversi enti nazionali ed internazionali.