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Il 29 giugno 2023 si è spento all’età di cent’anni Angel Wagenstein, sceneggiatore e romanziere, attivista e partigiano antifascista, nato nella città di Plovdiv, in Bulgaria, da una famiglia ebraica di origine mista sefardita e ashkenazita. Wagenstein trascorse parte della sua infanzia in Francia dopo esservisi rifugiato assieme ai genitori per motivi politici e tornò in Bulgaria da adolescente.
Durante la Seconda guerra mondiale fu arrestato per la sua partecipazione ad attività antifasciste, condannato a morte e salvato provvidenzialmente dall’arrivo dell’esercito sovietico, come narrato nel documentario Art is a Weapon, della regista Andrea Simon. Nel dopoguerra intraprese i suoi studi a Mosca presso l’Istituto di Cinematografia Gerasimov (VGIK) e dopo la laurea, nel 1950, fece ritorno in Bulgaria per lavorare al Centro di Cinematografia bulgaro.
Tra le cinquanta sceneggiature per documentari e lungometraggi da lui scritte, spicca quella composta per il film Zvezdi/Sterne (“Stelle”, 1959), diretto da Konrad Wolf, un’opera che ottenne successo e riconoscimento internazionali. A partire dai tardi anni Novanta, si dedicò anche alla scrittura di romanzi, in particolare la trilogia di cui fanno parte i libri I cinque libri di Isacco Blumenfeld, Abramo l’ubriacone e Shanghai addio (pubblicati in Italia da Baldini & Castoldi), dedicati alle sorti di diverse comunità ebraiche nel Novecento. I suoi romanzi sono stati tradotti in francese, tedesco, inglese, russo, spagnolo, polacco, ceco, ungherese, macedone, italiano, cinese, ed ebraico, ricevendo diversi premi.
Il ruolo della città di Plovdiv
Le opere di Angel Wagenstein sono caratterizzate da una grande sensibilità verso i temi della migrazione, della diversità culturale e della diaspora. I suoi romanzi, di ampio respiro storico e geografico, intercettano le grandi tragedie e trasformazioni socioculturali del XX secolo, restituendolo in tutti i suoi paradossi, in modo acuto, toccante e talvolta anche ironico, facilitando ed evocando riflessioni produttive. “Noi bulgari siamo sempre stati dei bravi contrabbandieri” affermava Wagenstein, aggiungendo come le sue storie, sotto forma di romanzo o di film, fossero sempre delle “valigie con doppio fondo”.
Plovdiv, la città natale di Wagenstein, occupa un posto privilegiato nel suo sviluppo personale, nella formazione di una particolare attenzione verso culture diasporiche e multiculturali, nonché verso valori di rispetto reciproco tra culture e religioni diverse. Abramo l’Ubriacone (il cui titolo originale, più poetico è Daleč ot Toledo, ovvero “Lontano da Toledo”), il secondo volume della sua trilogia, presenta alcuni aspetti cruciali del rapporto dell’autore con la città natale, la più multietnica del contesto bulgaro. Il romanzo tratta le vicende di un giovane ragazzo ebreo nel microcosmo post-ottomano della città di Plovdiv, che si confronta con una quotidianità culturalmente variegata in un tessuto sociale ancora stretto fatto da pratiche di komšiluk, ovvero “buon vicinato”.
Come narra Wagenstein, in tale contesto urbano, le famiglie di ebrei, bulgari, turchi, armeni, rom e membri di altre comunità conducevano una vita interdipendente, al punto tale che ognuno di loro era in grado di cavarsela almeno un po’ nella lingua dell’altro: ad esempio, i bambini bulgari si salutavano in turco, e il venerdì sera gli abitanti ebrei venivano accolti con l’espressione “Shabbat Shalom!”. Nel libro lo scrittore si sofferma sulla descrizione degli intensi contatti interetnici tra le varie comunità della città negli anni precedenti e immediatamente successivi alla Seconda guerra mondiale, evidenziando il valore della vita comunitaria nel suo quartiere natale Orta Mezar e riflettendo sulla fine di quel mondo alla luce dei cambiamenti sociopolitici del XX secolo.
La responsabilità bulgara verso gli ebrei nel film Sterne
Per quanto riguarda il destino degli ebrei bulgari durante la Seconda guerra mondiale, pur ricordando il ruolo fondamentale svolto da Dimităr Pešev – vicepresidente del Parlamento – nel salvataggio di questa comunità e la grande solidarietà grazie alla quale essi riuscirono a sopravvivere, Wagenstein non idealizzava affatto questa vicenda e ne ricordava anche gli aspetti più “scomodi”. Per lui era cruciale, infatti, non dimenticare i momenti bui che l’avevano preceduta, come quando gli ebrei bulgari dovettero subire restrizioni, discriminazioni e umiliazioni, e furono costretti a indossare la stella di David.
Nel dopoguerra, scrisse la sceneggiatura, del film Zvezdi/Sterne (“Stelle”) diretto dal regista Konrad Wolf, frutto di una coproduzione tra Bulgaria e Repubblica Democratica Tedesca, che contribuì a gettare luce su alcuni aspetti che erano stati esclusi dalla narrazione ufficiale nel paese balcanico. Il film affronta il tema delle deportazioni degli ebrei dai territori che Hitler aveva assegnato all’alleato bulgaro corrispondenti oggi alla Macedonia del Nord e alla Grecia settentrionale. Solo poche persone sopravvissero tra le migliaia e migliaia di persone che partirono per i campi di concentramento. Wagenstein aveva incontrato alcuni di questi sopravvissuti dopo la guerra e deciso di realizzare un film su questo argomento.
È ambientato nel 1943 e ruota attorno alla sorte degli ebrei sefarditi greci che, durante il transito verso Auschwitz, rimasero in attesa per tre giorni in una piccola città bulgara nel sud-ovest del Paese, a Gorna Džumaja (oggi Blagoevgrad). In particolare, l’attenzione si concentra sull’intenso rapporto tra Walter, sergente della Wehrmacht, e Ruth, una giovane insegnante ebrea, e la solidarietà e l’empatia che scaturiscono dai loro incontri. Le emozioni scorrono intense in questo ritratto di una storia poco conosciuta all’interno dell’immensa tragedia dell’Olocausto, che affronta questioni essenziali legate alla colpa e della responsabilità.
Uscito nel 1959, ottenne dodici premi nei principali festival cinematografici, tra cui il Premio speciale della giuria al Festival di Cannes dello stesso anno. Oggi, è considerato un classico nella cinematografia sulla storia degli ebrei europei durante la Seconda guerra mondiale.
La Galizia e l’umorismo ebraico nel suo primo romanzo
La vita di Angel Wagenstein è stata in un certo senso impregnata dalle condizioni di diaspora e migrazione: le sue origini sono sia sefardite che ashkenazite, ed entrambi questi mondi si sono rivelati per lui una fertile fonte di ispirazione. Il suo cognome è ashkenazita e deriva da un antenato proveniente dalla Galizia, una regione asburgica dell’Europa centrale che oggi appartiene alla Polonia e all’Ucraina. Proprio la Galizia costituisce l’ambientazione del suo romanzo d’esordio: I Cinque libri di Isacco Blumenfeld (Petoknižie Isaakovo).
Il romanzo si concentra su una trentina di anni di vita di Isacco Blumenfeld, dalla fine della Prima Guerra Mondiale fino alla deportazione a Kolyma, con una narrazione che non alimenta alcun odio, ma che anzi ha come punto di forza la presenza dell’umorismo, manifesto nelle tipiche barzellette ebraiche.
In questa particolare regione multietnica dell’Europa orientale, la Galizia, cinque poteri politici hanno segnato la storia collettiva della popolazione locale. Sono cinque come il numero dei libri della Torah, e il protagonista acquisisce cinque diverse nazionalità in meno di trent’anni: austro-ungarica, polacca, sovietica, tedesca nazista e poi ancora sovietica, un fatto che è per lui fonte di molte perplessità ma che non annienta il suo spirito. Le battute irresistibili e gli aneddoti narrati sembrano indicare una prova di continuità e di radicamento in mezzo alle rotture storiche che il protagonista, personificando in qualche modo il destino del popolo ebraico, affronta nella sua dispersione in contesti sociopolitici e geografici via via variabili, e fa emergere nel suo ricordo dello shtetl (il villaggio ebraico di lingua e cultura yiddish) svanito per sempre.
La diversità della diaspora ebraica in un contesto extraeuropeo: Addio Shanghai
Un aspetto essenziale nella rappresentazione dell’esistenza ebraica portato avanti da Wagenstein è la sua irriducibile diversità: il termine ‘ebreo’ non rappresenta per lui una realtà monolitica, bensì una realtà sfaccettata, vissuta in numerose diramazioni geografici, culturali e persino linguistiche. Questo tema è particolarmente esplicito nell’ultimo libro della sua trilogia, Shanghai addio (Sbogom, Shanghai), che tocca un capitolo poco conosciuto della storia degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale, ovvero l’arrivo di alcune comunità europee nella città cinese di Shanghai, all’epoca insediamento internazionale. Si trattava di ebrei benestanti di lingua tedesca che riuscirono a fuggire dalla Germania e dall’Austria alla fine degli anni Trenta. Due piroscafi collegavano regolarmente le città di Trieste e Genova a Shanghai, città aperta incondizionatamente ai rifugiati ebrei senza visto fino all’occupazione delle forze giapponesi, avvenuta nel dicembre 1941.
Nella città ospitante, questo gruppo di ebrei europei si trovò a contatto con altre comunità ebraiche che vi si erano insediate in precedenza, tra cui i sopravvissuti ai pogrom russi di inizio secolo e all’ondata di antisemitismo seguita alla sconfitta nella guerra russo-giapponese del 1905, le famiglie che avevano trovato rifugio in Cina dopo la Rivoluzione d’ottobre, e i cosiddetti “ebrei di Baghdad”, benestanti ebrei arabi attivi nel commercio, arrivati in città alla fine del XIX secolo, soprattutto dall’India.
Questi gruppi, caratterizzati da esperienze socioculturali profondamente diverse, erano divisi da un’urgenza di competizione e ogni nuovo arrivato era visto come un rivale nella lotta per il cibo e per lo spazio vitale. Seppure ad unirli vi fossero soltanto la religione ed un vago sentimento di appartenenza allo stesso gruppo etnico, nella narrazione troviamo, tuttavia, alcuni esempi di amicizia tra gli ebrei di Baghdad e gli ebrei tedeschi.
Scopriamo inoltre come il destino migratorio ed esilico di queste comunità non si esaurisca nemmeno a Shanghai: in questa città, a partire dal 1941, gli ebrei europei furono infatti costretti a lasciare le loro case e a trasferirsi in un ghetto, ufficialmente denominato “Settore ristretto per i rifugiati apolidi” all’interno del distretto di Hongkew, una zona industriale della città, in quella che costituì dunque un’ulteriore esperienza di sradicamento.
L’eredità di Angel Wagenstein: l’impegno per la giustizia sociale
Wagenstein trascorse la sua giovinezza tra Bulgaria, Francia e Russia, e si stabilì poi di nuovo in Bulgaria. Continuò però a viaggiare sempre molto, anche in luoghi remoti come il Vietnam, per motivi professionali, coltivando un’impressionante ampiezza di interessi storici, culturali e geografici.
Wagenstein faceva parte della generazione dei testimoni diretti della Seconda guerra mondiale, alla quale partecipò attivamente, prendendo parte, ad esempio, alle più grandi azioni di sabotaggio contro i nazisti in Bulgaria. Alla fine degli anni Ottanta divenne membro del Comitato per la protezione di Ruse, una delle prime organizzazioni informali che misero in crisi il regime comunista, denunciando l’inquinamento atmosferico proveniente da uno stabilimento chimico sulla sponda opposta del Danubio, in Romania. Fu a casa sua che venne presa la decisione di tenere la prima storica manifestazione di massa del paese, il 18 novembre 1989.
Negli anni e mesi precedenti, si era schierato con forza contro le persecuzioni e le discriminazioni verso i turchi bulgari quando, nel periodo tra il 1984 e il 1989, l’allora governo bulgaro guidato da Todor Živkov, aveva tentato la bulgarizzazione forzata di tale minoranza. Non fu la prima volta che mostrò il suo sostegno e interesse per le questioni legate alle minoranze, come si può dedurre da uno dei primi film da lui diretti, Rebro Adamovo (“La costola di Adamo”, 1956) in cui focalizza l’attenzione sulle difficoltà nella vita di una giovane donna musulmana a Plovdiv nei primi anni del Comunismo. La sua vicinanza alle sofferenze di altre minoranze si evince inoltre nel suo libro Abramo l’Ubriacone. Tra queste, ad esempio, le comunità rom che furono costretti alla sedentarietà e gli armeni che furono perseguitati politicamente, trasferiti con la forza e internati in campi di lavoro.
Wagenstein incarna il miglior prodotto di cultura europea autoconsapevole e critica, intrecciata con una forte presa di responsabilità nei confronti delle comunità minoritarie. Le sue opere restituiscono voce a microcosmi polifonici sommersi in cui lingue, tradizioni culturali e stili di vita dialogano fra loro, con descrizioni raffinate che appaiono come un elogio del multiculturalismo e dell’interculturalità, in opposizione alle interpretazioni brutali e tragiche dell’identità prodottesi in quei luoghi.
Nel riferirsi al suo legame con la Bulgaria, Wagenstein sottolineava il suo attaccamento a quel paese, rivendicando però allo stesso tempo una molteplicità di prospettive di ispirazione che non si riducevano a quella ebraica soltanto:
Addio Angel, faremo tesoro degli immensi doni che ci hai lasciato.
Antropologa e ricercatrice di origine italo-messicana-levantina. Attualmente ricercatrice post-doc presso il dipartimento di Sociologia dell'Università di Ljubljana. I suoi temi di ricerca, che si ripercuotono anche sulla sua scrittura non accademica, riguardano la diaspora, i confini, la diversità culturale e le minoranze etnolinguistiche, con una predilezione particolare per l’area balcanica. Quando messa nelle giuste condizioni, parla più o meno fluentemente una dozzina di lingue e ne legge almeno altre cinque (romeno, russo, portoghese, un po’ di romanì e mandarino), grazie al suo bagaglio genealogico multiculturale e ai numerosissimi soggiorni di ricerca e studio all’estero finanziati da diversi enti nazionali ed internazionali.