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Dall’8 novembre al 20 febbraio scorsi il museo di arte contemporanea di Skopje ha aperto i battenti all’arte rom con la mostra All That We Have in Common (tutto ciò che abbiamo in comune), un’esibizione che ha coinvolto artisti rom provenienti da tutta Europa. L’occasione è stata propizia per accendere i riflettori sull’esclusione e la rimozione della cultura rom dalle nostre società.
Dalla posizione privilegiata offerta dal museo di arte contemporanea di Skopje, che domina la città dalla stessa altura della fortezza ottomana di Kale, l’esibizione All That We Have in Common ha portato l’arte rom in uno dei luoghi più iconici della città. Tra gli artisti di origine rom che hanno contribuito all’esposizione, provenienti da tutta Europa, figurano diversi nomi di spicco nello scenario artistico regionale e mondiale, quali Delaine Le Bas, Ahmed Kadri, Sead Kazanxhiu, Robert Gabris e Luboš Kotlár.
Nata nel solco della 14esima edizione di Manifesta – la biennale nomade europea di arte contemporanea, nel 2022 ospitata a Pristina – l’esposizione è stata partecipata anche dalla Roma jam session art kollectiv, un collettivo artistico attivo in tutta Europa con l’obiettivo di far conoscere le istanze della comunità rom attraverso performance ed esposizioni in luoghi pubblici e istituzioni artistiche.
Proprio opera della Roma jam session art kollectiv è stato il poster esibito all’ingresso della mostra, che con quel suo “Nothing about us without us” (niente su di noi senza di noi), scritto in tre lingue, ha saputo riassumere meglio di qualsiasi altro slogan la crescente e legittima volontà della comunità rom di essere parte integrante non solo delle società alle quali appartiene, ma degli stessi processi decisionali che la riguardano. Quel suo fiero capeggiare all’inizio dell’esibizione reclama attenzione e denuncia la costante politica di marginalizzazione che sistematicamente colpisce queste comunità, predisponendo allo stesso tempo il visitatore ad una corretta interpretazione delle opere esposte nel corso della mostra.
Rimozione
Uno degli esempi più emblematici della rimozione della presenza dei rom dalle nostre comunità è sicuramente la sottorappresentazione del ricordo legato al loro genocidio, perpetrato prima e durante la Seconda guerra mondiale. Indicativo è il fatto che non si abbiano nemmeno dati certi su quante persone siano effettivamente state uccise in questo contesto. In primo luogo perché l’ammontare della popolazione rom in Europa precedentemente al secondo conflitto mondiale è dubbio; in secondo luogo poiché il ricordo e il riconoscimento del genocidio sono avvenuti relativamente tardi. Il primo testo accademico che menziona esplicitamente il genocidio di rom e sinti risale solo al 1961 (The Destruction of the European Jews, Raul Hilberg), mentre bisognerà attendere il 1982 affinché un cancelliere tedesco riconosca la matrice ideologica razzista dietro allo sterminio di sinti e rom avvenuto il secolo scorso (The large glass journal, vol. 33/34, Ivana Hadjievska, 2022).
Tre disegni a inchiostro della superstite al Porajmos (l’Olocausto rom) Ceija Stojka squarciano il velo di questo ignobile silenzio. Ricorrendo a linee taglienti, aggressive, quasi infantili, la serie illustra scene di concitata violenza contro le comunità rom e sinti perpetrate nel corso della Seconda guerra mondiale. Ben in vista appaiono i simboli degli aguzzini: svastiche e uniformi, come in The Tumult, 1944. Stojka nacque e crebbe in Austria, vivendo in Stiria con la sua famiglia di commercianti. A seguito dell’annessione dell’Austria alla Germania nazista, alla tenera età di 10 anni venne deportata, sopravvivendo all’orrore di tre campi di concentramento e sterminio: Aushwitz-Birkenau, RavensbrUk e Bergen-Belsen. Da quando decise di rompere il silenzio nel quale si era chiusa in seguito a questa esperienza traumatica, divenne una delle prime donne rom a testimoniare la violenza subita dal suo popolo, utilizzando l’arte rom come mezzo di comunicazione. Secondo le stime attualmente a disposizione, i nazisti ed i loro alleati uccisero tra i 250mila e i 500mila rom europei durante il secondo conflitto mondiale.
Soffermandosi sulla stessa tematica, ma con un’accezione differente, focalizzata sul tema della rimozione, Emilia Rigova con la sua installazione (Out of) the Deadlock ricorre al materiale audiovisivo per sensibilizzare i fruitori. Soggetto delle riprese è una figura femminile in posizione fetale, sospesa a mezz’aria, in una zona boschiva. L’autrice fa entrare e uscire questa sagoma dall’inquadratura, in una dicotomia tra presenza e assenza che rimanda a un evento specifico: l’amnesia slovacca riguardo alla persecuzione dei rom, che durante la guerra furono costretti a trovare rifugio nei boschi. Come nel caso precedente, l’arte rom espressa da Rigova ricopre una funzione di salvaguardia e preservazione della memoria.
Esclusione
Anche Sead Kazanxhiu ricorre ad un video per la sua installazione Baltosje (infangarsi), ma l’attenzione dell’artista si sposta sulla nostra contemporaneità. La sequenza mostra dapprima le donne del suo villaggio natale raccogliere e preparare l’argilla (shishik), e quindi ricoprirne l’artista, vestito in giacca e cravatta, e l’intero ufficio nel quale si trova. L’argilla è infatti considerata estremamente pura dai rom albanesi, tanto che per non contaminarla prestano attenzione a costruire i propri insediamenti lontano da essa. Facendosi coprire di argilla l’artista cerca di preservare e mantenere la propria purezza, il proprio legame con le sue radici, in un frangente nel quale è chiamato a entrare a far parte del processo decisionale albanese rappresentando gli interessi della sua comunità. Il significato negativo del termine Baltosje, spesso associato popolarmente ai politici in senso dispregiativo, è quindi capovolto, assumendo il significato di un processo di purificazione.
C’è poi l’esibizione fotografica di Nihad Nino Pušija, Down There Where the Spirit Meets the Bone, che continua a raccogliere materiale documentando la diaspora delle popolazioni rom dell’Europa dell’est come conseguenza delle guerre jugoslave degli anni Novanta. Allora l’artista ripercorse con la sua macchina fotografica la rotta balcanica – oggi tristemente nota – fino a Berlino, documentando la migrazione dei rom dall’ex Jugoslavia, le loro sistemazioni precarie, la ghettizzazione e lo status giuridico incerto concesso dalla Germania. Ancora una volta, nonostante molto si sappia delle guerre nei Balcani, la sofferenza causata dallo smembramento della Jugoslavia nei confronti dei rom è argomento meno noto, che spetta all’artista e alle sue opere riportare a galla.
Lungo la parete nord del museo risalta in tutta la sua estensione Universal Declaration of Human Rights di Delaine Le Bas, un manufatto tessile che riporta la trascrizione del documento delle Nazioni unite articolo per articolo. Al centro, la figura inconfondibile di Topolino, il cui accostamento lascia inizialmente perplessi. L’intento dell’artista è di far emergere visibilmente l’assurdità insostenibile di un sistema globalizzato nel quale il personaggio di un cartone animato di successo è conosciuto ai quattro angoli del mondo, mentre i diritti umani faticano non solo ad affermarsi, ma addirittura a essere diffusi.
L’artista inglese è di seguito fotografata davanti all’opera di Sead Kazanxhiu Tikno kher, mo kher-mo gudio kher (piccola casa, casa dolce casa), raffigurante decine e decine di piccole case colorate pendenti dal soffitto ad altezze diverse. L’installazione riprende un motivo ricorrente dell’artista, che è solito valersi di questo efficace espediente visivo per sensibilizzare l’opinione pubblica e le autorità competenti riguardo alla tragica situazione abitativa dei rom in Europa. Esponendo l’opera in luoghi pubblici o simbolici, l’arte si mescola all’attivismo, all’impegno sociale, smettendo di essere fine a se stessa ma agendo e incidendo concretamente nel reale.
L’arte rom come strumento di sensibilizzazione
Con una popolazione compresa tra i 10 e i 12 milioni, i rom costituiscono la più grande minoranza etnica in Europa, principalmente stanziata in Europa centrale e orientale. A fare da contraltare a questo numero, vi sono i dati sulla dispersione scolastica: nei Balcani occidentali il 60% dei rom non completa il ciclo secondario di istruzione; in Romania lo porta a termine solo il 10%, mentre appena il 3% dei giovani rom montenegrini si diploma (The large glass journal, vol. 33/34, Mihail Stojanoski, 2022).
A fronte di questi dati poco incoraggianti, si dirà, l’arte (che si tratti di arte rom o meno) può fare poco o nulla. Alcuni esempi, tuttavia, dimostrano il contrario. È il caso di Alfred Ullrich, artista contemporaneo che nel 2000 esibì la performance Perlen vor die säue (gettare perle ai porci) sul luogo dove sorgeva l’ex campo di concentramento per rom e sinti di Lety u Písku, a una novantina di chilometri da Praga. L’intento dell’artista era di sensibilizzare l’opinione pubblica riguardo alla decisione quantomeno discutibile delle autorità statali che, ancora nel 1970, destinarono il sito all’allevamento di suini, cancellandone qualsiasi riferimento storico. L’artista si esibì in una performance che prevedeva il lancio delle perle della collana di sua sorella, vittima della follia omicida nazista, in direzione dell’allevamento (ibidem).
18 anni dopo l’esibizione, l’azienda in questione venne rilevata dallo stato e nel 2023 dovrebbe vedere finalmente la luce un memoriale in ricordo delle vittime. Casi come questo simboleggiano come, talvolta, artisti impegnati a livello sociale possano fare la differenza, indicando all’opinione pubblica storture sistemiche e contraddizioni di cui non si è neppure consapevoli. Per questo la presenza dell’arte rom negli spazi pubblici europei è tanto importante oggi. Il suo solo apparire contrasta la rimozione forzata della quale è vittima la cultura rom, fungendo da dichiarazione e contestazione ad un tempo, ricordandoci che quei 10 milioni di individui sono davvero parte integrante della popolazione europea, e non sua mera appendice.
Foto di copertina: Damaged Goods Part II (Hypocrisy), Delaine Le Bas (foto di Nicola Zordan)
Mosso da un sincero interesse per la storia e la cultura della penisola balcanica, si è laureato in Studi Internazionali all’Università di Trento, per poi specializzarsi in Studi sull’Europa dell’Est all’Università di Bologna. Ha vissuto in Romania, Croazia e Bosnia ed Erzegovina, studiando e impegnandosi in attività di volontariato. Tra il 2021 e il 2022 ha scritto per Osservatorio Balcani Caucaso Transeuropa. Attualmente risiede in Macedonia del Nord, dove lavora presso l’ufficio di ALDA Skopje.