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Durante i mesi dell’assedio, tra le varie difficoltà materiali che i sarajevesi dovettero affrontare c’era quella di reperire acqua potabile. Per fortuna, il birrificio di Sarajevo ha al suo interno una sorgente d’acqua, una delle uniche fonti di acqua potabile per tutta la città sotto assedio.
L’assedio di Sarajevo, il più lungo e drammatico della storia della guerra moderna, durò 1.425 giorni, 44 mesi, tra il 1992 e il 1996. In questi quasi quattro anni, il numero di abitanti della città si ridusse di quasi due terzi rispetto alla popolazione prebellica. Comprensibilmente, l’assedio sconvolse completamente la vita degli abitanti della città sulla Miljacka. Per i cittadini cercare di procurarsi cibo, acqua e altri beni di prima necessità divenne presto l’attività principale, tanto necessaria quanto estremamente rischiosa. In molti angoli della città, cartelli con la scritta pazi, snajper (attenzione, cecchino) avvertivano i passanti che si trovavano in una zona esposta, in cui potevano essere colpiti tiratori appostati sulle colline o all’interno di edifici abbandonati.
Eppure, quando si sente parlare dell’assedio di Sarajevo, è sorprendente notare come molte delle storie che vengono a raccontate descrivano sì situazioni al limite della sopravvivenza, ma difficilmente lascino spazio alla disperazione più totale. I racconti che arrivano dalla Sarajevo assediata raccontano spesso di un popolo che non si arrende, che non solo fa il meglio che può con il poco che ha, escogitando soluzioni creative per risolvere la mancanza di acqua, riscaldamento ed elettricità, ma cerca di restare umano, uscire di casa, svagarsi, vivere nel modo più normale possibile.
Lo spirito di sopravvivenza dei sarajevesi ben si può riassumere con una parola serbo-croata intraducibile in italiano: inat. Un po’ beffarda ostinazione, un po’ coraggio, un po’ testardaggine, inat è l’attitudine di chi non si arrende al corso degli eventi, di chi preferisce l’autoironia all’autocommiserazione, di chi resiste in una città costantemente bombardata dagli aggressori, magari con un sorriso di scherno e una forza di volontà incrollabile.
E così è l’inat, questo incrollabile spirito a farla da padrone nei mesi dell’assedio e nelle storie che si sentono raccontare. La storia della Sarajevska pivara, lo storico birrificio di Sarajevo, e del ruolo che ha avuto per la popolazione locale, è una di queste storie di coraggio, testardaggine e resilienza che fanno da sottofondo agli anni della guerra.
Il primo e il più longevo birrificio della Bosnia
Fondata nel 1864, la Sarajevska Pivara è considerata la prima produzione industriale avviata in Bosnia ed Erzegovina, nonché l’unico birrificio in Europa rimasto attivo senza interruzioni fino ai giorni nostri, passando attraverso l’Impero ottomano, quello austro-ungarico, i due regni di Jugoslavia, e la Jugoslavia socialista. La storia del birrificio è una storia di successo: arrivato poco dopo la fondazione ad essere uno dei principali produttori di birra della regione, ha continuato a crescere fino a diventare, all’inizio degli anni Novanta, uno dei quattro birrifici principali dell’intera Jugoslavia.
Fu l’arrivo della guerra a Sarajevo a cambiare drasticamente le carte in tavola. Come tutto il resto della città, anche il birrificio fu travolto dall’inizio della guerra. E come tutto il resto della città, anche il birrificio mostrò gli stessi orgoglio, testardaggine e resilienza che mostrarono il resto dei sarajevesi. Nonostante le enormi, ovvie, difficoltà portate dalla guerra, il birrificio non ha mai smesso del tutto di funzionare. Certo, la produzione venne drasticamente ridotta e calò fino a raggiungere il 3% della produzione precedente, ma i numeri contano poco: l’importante era non farsi annientare e trovare un modo di continuare a produrre.
La Sarajevksa Pivara continuò a esistere anche come birreria, che veniva frequentata dai cittadini come in tempo di pace. In un video (parte di una serie, pubblicata sul canale ufficiale del birrificio, che ne racconta la storia), un sarajevese ricorda che la Pivara divenne un fondamentale luogo di aggregazione, per bere un po’ di birra e godersi un po’ di musica e buona compagnia e, perché no, cercare un po’ di normalità. L’unico “inconveniente” era che, a causa dell’impossibilità di reperire imballaggi, la birra poteva essere venduta solo a chi portava delle taniche o delle bottiglie con sé.
Prova del fatto che il birrificio di Sarajevo fosse un importante simbolo di resistenza è il fatto che gli assedianti non persero occasione per prenderla di mira, come se della città volessero più che altro uccidere lo spirito. Come viene ricordato nel video, l’edificio del fu colpito centinaia di volta con proiettili di vario calibro, ma mai in modo abbastanza grave da costringere la Pivara a fermarsi.
Come se la resistenza stessa del birrificio di Sarajevo non fosse già abbastanza degna di nota, il ruolo fondamentale della Sarajevska Pivara non aveva solo a che fare con la produzione e il consumo di birra. Sicuramente, per gli abitanti della città avere un luogo dove potersi distrarre e divertire era importante. Nella città assediata, però, c’erano aspetti che avevano una priorità più elevata: a mancare più di qualsiasi altra cosa erano cibo, acqua e beni di prima necessità.
Una puntata del podcast Blokada racconta molto bene queste problematiche legate alle necessità della vita quotidiana e, in particolare, alla mancanza di acqua potabile. Dal momento che gli occupanti avevano chiuso gli acquedotti che rifornivano la città, reperire acqua potabile era particolarmente difficile.
Fortunatamente, però, il birrificio di Sarajevo era stato costruito su una sorgente di acqua, cosa che permise a tutti di avere un posto dove andare a fare scorta di acqua potabile per tutta la durata dell’assedio. Gli abitanti si recavano quindi spesso al birrificio, muniti di taniche e contenitori pronti a essere riempiti. Le code che si formavano erano lunghissime e le persone aspettavano anche fino a 14 ore, perché l’intera città era lì per lo stesso motivo.
Ed è anche in questo rituale che si vedono la resilienza e la creatività dei sarajevesi, che si trovavano ad attraversare la città con litri e litri d’acqua, spesso esposti al tiro dei cecchini, e magari anche a dover portare le taniche ai piani alti dei condomini, rimasti senza ascensore perché senza elettricità. E così vennero inventati sistemi incredibili per caricare e trasportare i bidoni il più rapidamente possibile. Tutto poteva diventare un carrello: ai vecchi slittini venivano montate le suole di pattini a rotelle, ai passeggini venivano tolte le ruote, per sostituirle con altre più grosse e robuste. L’intera città era popolata di carrelli improvvisati, tutti atti alla stessa funzione.
Certo, la Sarajevksa Pivara non era l’unico luogo della città dove fare approvvigionamento di acqua, ma era anche il più affidabile il più efficiente. Per esempio, dalla fontana davanti alla grande moschea nel centro storico della capitale usciva sempre un rivolo d’acqua: evidentemente la chiusura forzata degli acquedotti non sempre funzionava perfettamente. Com’è ovvio, questo e altri rivoli d’acqua non erano sufficienti a sostenere il fabbisogno di una città assetata: a fare la differenza è stata la sorgente del birrificio.
Il birrificio di Sarajevo oggi
Per il birrificio di Sarajevo la fine dell’assedio ha significato un ritorno a ritmi normali e la ripresa della produzione. Negli ultimi anni, il birrificio ha anche conosciuto una nuova fase di espansione. Nel 2004, furono ammodernati gli impianti di produzione e i mezzi di trasporto e furono costruiti centri di vendita in tutta la Bosnia ed Erzegovina. La Sarajevksa Pivara collabora oggi con tutte le grandi catene di vendita al dettaglio e con più di mille piccoli negozi e più di 500 ristoranti: la Sarajevsko era e rimane uno dei marchi più riconoscibili e apprezzati della Bosnia ed Erzegovina.
Il vecchio birrificio, dove avviene ancora tutta la produzione, è situato a due passi dalla Baščaršija, centro storico ottomano della capitale bosniaca, e ospita anche una birreria molto frequentata. Chi ci capita la sera può spesso trovare musica dal vivo, in perfetto stile balcanico. Al suo interno, la Sarajevksa Pivara ospita anche un museo, dove il birrificio viene presentato non solo come luogo dove si produce ottima birra locale, ma come parte integrante della storia e della cultura del paese. Per chi si trovasse a passare di lì, una visita è d’obbligo.
Laureata in Studi Interdisciplinari e Ricerca sull’Europa Orientale, ha vissuto un po’ ovunque nei Balcani occidentali. Si interessa di tutto quello che è successo e succede al di là del muro di Berlino. Lentamente, sta imparando il serbo-croato.