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Sindaco di Belgrado, architetto visionario, jugoslavo. Questi sono i primi tre attributi che si affacciano alla mente pensando all’immensa figura di Bogdan Bogdanović. Nato nella capitale serba nell’estate del 1922 da una famiglia di intellettuali di sinistra, ha costellato il suo paese di opere di grande valore e portata simbolica senza pari. Ha attraversato il Novecento, ritirandosi in disparte solo quando le sue cause non erano più sul tavolo della disputa, quando il banco era saltato.
Il primo scoglio fondamentale della vita di Bogdanović è la Seconda guerra mondiale. A causa dell’occupazione tedesca della Serbia, chi come lui faceva parte del movimento partigiano si rifugia in Bosnia, che per caratteristiche geografiche offre più ripari per organizzare la resistenza. Bogdanović viene tuttavia ferito gravemente e rischia di perdere la vita, colpito da un proiettile nazista nei dintorni di Srebrenica. Grazie a una serie di combinazioni fortunate riesce però a oltrepassare la Drina tornando in territorio serbo, dove viene curato – ironia della sorte – da un medico tedesco fatto prigioniero.
Bogdanović e gli spomenik
Con la fine del conflitto prosegue gli studi intrapresi agli inizi degli anni Quaranta all’università di Belgrado. Al tempo si definisce un architetto surrealista. Tuttavia le possibilità di (ri)costruzione della Jugoslavia post bellica non sono molte, soprattutto per chi, come lui, mira a eludere i canoni tradizionali del realismo socialista. Proprio in questo periodo arriva la seconda, fondamentale svolta della sua vita, ovvero il concorso per la costruzione di un monumento dedicato alle vittime ebraiche del fascismo da porre nel cimitero sefardita di Belgrado. Un po’ perché rappresenta un’occasione di crescita professionale, un po’ perché è prevista una retribuzione, Bogdanović decide di partecipare.
Ho cominciato, a modo mio, a ricercare nella simbologia ebraica, e nel giro di pochissimo tempo sono entrato in un altro mondo. Nella cabala, nelle speculazioni religiose, mi si è aperto un intero mondo di metafore e ho capito che avrei trovato per la mia architettura, in questo mondo di simboli esoterici, qualcosa che non avevo ancora preso in considerazione (Il secolo di Bogdanović, intervista di Osservatorio Balcani e Caucaso)
Con la vittoria del concorso capisce che la costruzione di monumenti e memoriali è la sua via di fuga dalla realtà, la possibilità di mettere la fantasia a disposizione della vita di tutti i giorni. Sarà la sua strada. A spingerlo su questo percorso concorre anche la rottura fra Stalin e Tito del 1948, che pone la Jugoslavia di fronte alla necessità di trovare una propria via anche nell’arte, anche nei monumenti – i cosiddetti spomenik. C’è bisogno di un linguaggio che si allontani da Mosca e che abbia dei tratti chiari e riconoscibili, unici: jugoslavi.
La sfida di Jasenovac
L’impresa probabilmente più importante per la nuova carriera di Bogdanović arriva con la decisione di affidargli un monumento commemorativo per il campo di concentramento di Jasenovac. Come ricordare i morti (per lo più serbi)? Come rappresentare i carnefici (gli ustaša croati)?
Non erano d’accordo nemmeno su come dovesse apparire questo monumento. C’erano tre progetti, due di famosi scultori croati e il mio, architettonico. Gli scultori, in quanto scultori, non potevano fare a meno di usare figure umane coi pugni innalzati, corpi che cadevano, teste tagliate e così via… Il mio invece era un progetto architettonico matematico, astratto, e credo che abbia vinto per questo. È stato Tito a decidere. Credo che lui abbia compreso che il mio progetto avrebbe cercato di disinnescare l’atmosfera di tensione creata dalla violenza, dal sangue versato. Era un fiore, che parlava di altro. (Il secolo di Bogdanović, intervista di Osservatorio Balcani e Caucaso)
Se l’intervento di Tito è decisivo, le polemiche dell’opinione pubblica non si placano. Nei primi tempi ai croati non sta bene che sia un serbo a occuparsi dell’opera; quando invece capiscono che sarà un fiore a rappresentare quel luogo, sono i serbi a protestare perché non sono soddisfatti. Come potrà un’opera così delicata ricordare l’orrore di quel luogo? Alla fine però l’architetto belgradese ha ragione. Tito premia la sua intuizione e la sua visione jugoslava ha la meglio sulle divisioni e sull’etnicizzazione del dibattito.
Il Cimitero partigiano di Mostar
Assurto recentemente alle cronache a causa del vile tentativo di distruggerlo, il Cimitero partigiano di Mostar è un altro grande esempio dell’arte di Bogdanović. Uno spomenik che doveva simbolicamente rappresentare la stessa città che lo ospita, quasi un riflesso, poiché molti elementi che lo compongono richiamano reali caratteristiche fisiche di Mostar. In primo luogo, l’entrata conduce verso le terrazze dove sono disposte le lapidi attraverso un paio di lunghe passerelle di ciottoli, simmetriche e ondulate, e rimandano ai vicoli che si trovano anche in città. Ma non solo. Le terrazze del cimitero erano inizialmente divise al centro da un getto d’acqua corrente, a ricordare il fiume Neretva che taglia in due Mostar.
La Jugoslavia però non esiste più e oggi il monumento si trova in una zona di Mostar dove menzionare quegli anni e quei morti sembra diventata cosa proibita. Le erbacce lo avvolgono, perfino dei piccoli alberelli sono spuntati lungo il percorso che dal basso portava alla parte più alta della collina. Lo stato di abbandono è evidente e questo ha fatto sentire libero di agire chi in una notte estiva del 2022 ha devastato quanto rimaneva della struttura spaccando circa 400 lapidi di marmo con i nomi di chi aveva lottato per la liberazione del paese dall’occupazione.
Le opere di Bogdanović sono ricche di riferimenti classici e pagani, sono allegoriche, simboliche e pacificatrici. Mancando il richiamo figurativo all’uomo, alla realtà, non c’è bisogno di utilizzare la violenza, la morte. Anzi, le sue creazioni le rifuggono, proponendo un mondo distante dalla tragedia che si intende commemorare. I suoi spomenik inconfondibili costellano tutto il suo (ex) paese. Il parco memoriale di Vukovar, in Croazia, il santuario della rivoluzione o monumento dei minatori caduti di Kosovska Mitrovica, in Serbia (oggi Kosovo), i monumenti di Štip e Prilep, in Macedonia, il parco memoriale di Garavice a Bihać e la necropoli di Smrike a Novi Travnik in Bosnia, il mausoleo a Čačak e il complesso memoriale di Slobodište a Kruševac, in Serbia.
Il Bogdanović politico
Parallelamente alla realizzazione dei memoriali, Bogdanović portato avanti l’insegnamento, pur non limitandosi all’ambito accademico. Per 15 anni, a partire dal 1976, conduce quello che potrebbe essere definito un programma estivo di “controcultura” per studenti, chiamato “Scuola villaggio per la filosofia dell’architettura”. In una piccola, vecchia scuola nel centro rurale di Mali Popović realizza una sorta di campus con un approccio didattico molto poco ortodosso rispetto ai suoi contemporanei. Invece di comportarsi da “professore” o “tutore”, veste il ruolo di “catalizzatore della conoscenza”, realizzando a tutti gli effetti un ibrido tra un laboratorio di progettazione urbana, una performance artistica e una terapia di gruppo.
La figura di Bogdanović assume una tale rispettabilità che nel 1982 diventa sindaco di Belgrado. Guida la capitale jugoslava per un mandato, fino al 1986, rivestendo un ruolo da protagonista nello sviluppo dell’area di Novi Beograd. Mentre intorno a lui vede crollare le colonne che avevano sorretto fino ad allora il suo paese, viene invitato da Slobodan Milošević ad entrare a far parte del Comitato Centrale della Lega dei Comunisti, organo supremo nella guida del partito. Con la sua solita ironia e consapevole della direzione che sta prendendo il futuro leader dell’ultima Jugoslavia, l’architetto accetta, ma fa anche presente che non parteciperà alle assemblee perché ha “cose più importanti da fare”.
Quando era ormai assolutamente chiaro che Milošević rappresentava la destra e che c’era un programma di guerra, ho deciso di prendere posizione. […] Volevo chiarire completamente le cose e avevo deciso di scrivere una lettera, una breve lettera, a Milošević: “Per favore non contate più su di me, non sono più con voi, interrompo il mio rapporto con…” – non volevo proprio scrivere “con il partito comunista”, ma con la sua versione di comunismo. Poi però non sono riuscito a scrivere una pagina sola, come avevo pensato. Una volta cominciato ho scritto per circa 15-20 giorni, e alla fine la lettera era di 60 pagine. Era anche umoristica, gliel’ho spedita e per la prima volta in vita mia ho richiesto una ricevuta di ritorno, che non potesse poi dire che non era arrivata. (Il secolo di Bogdanović, intervista di Osservatorio Balcani e Caucaso)
L’esilio in Francia e Austria
Il momento in cui la lettera diventa di dominio pubblico rappresenta un nuovo scoglio nella vita di Bogdanović. Da intellettuale apprezzato si trasforma in dissidente. La marea sale lentamente, ma giorno dopo giorno è sempre più difficile per lui vivere a Belgrado. In televisione trasmettono sue foto, in modo che diventi chiaramente riconoscibile. Non è più sicuro per lui neanche passeggiare per strada. È un traditore della Serbia. La scuola di Mali Popović viene devastata.
Per la sicurezza sua e della sua famiglia Bogdanović decide di emigrare a Parigi. Nella capitale francese però trova un ambiente ostile. Gran parte degli emigrati è filo-cetnica e le idee politiche dell’architetto non sono viste di buon occhio. All’ambasciata in Francia addirittura gli sottraggono i passaporti creando non poche difficoltà al rientro sul suolo jugoslavo. L’ultima ancora di salvezza arriva dall’amico Milo Dor, scrittore e traduttore austriaco, di origini serbe. Invita Bogdanović e la sua famiglia a Vienna, dove finalmente trova un ambiente sereno dove passare gli ultimi anni di vita. Bogdan Bogdanović si spegne nella capitale austriaca, il 10 giugno 2010, a causa di un attacco di cuore. Viene cremato e le sue ceneri tornano nella sua città, Belgrado. Oggi i suoi resti riposano al cimitero sefardita, vicino al suo monumento per le vittime ebraiche del fascismo, dove ha trovato un ultimo riparo e dove tutto era iniziato, molto tempo fa.
Autore dei libri “Questo è il mio posto” e “Curva Est” - di cui anima l’omonima pagina Facebook - (Urbone Publishing), "Predrag difende Sarajevo" (Garrincha edizioni) e "Balkan Football Club" (Bottega Errante Edizioni), e dei podcast “Lokomotiv” e “Conference Call”. Fra le sue collaborazioni passate e presenti SportPeople, L’Ultimo Uomo, QuattroTreTre e Linea Mediana. Da settembre 2019 a dicembre 2021 ha coordinato la redazione sportiva di East Journal.