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Secondo quanto riportato da Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, nell’ultimo censimento condotto in Albania nel 2011, il 57,12% della popolazione si professava di religione islamica sunnita, seguito da un 10,11% di cattolici, 6,8% ortodossi e un 2,52% aderenti alla Bektashiyya, confraternita musulmana sciita alevita. A quasi 14 anni dal censimento, i numeri possono essere cambiati e un occhio attento può aver colto l’incremento di fedeli islamici nel piccolo paese balcanico. Secondo altre fonti, più recentemente la tariqa Bektashi conterebbe più di 100mila seguaci, pari a quasi il 4% della popolazione totale.
Il complesso mosaico religioso albanese rappresenta certamente un contesto sui generis, spesso strumentalizzato politicamente per avanzare un’idea, o meglio un esempio di tolleranza e fratellanza religiosa, prassi a cui purtroppo ci siamo disabituati nel più ampio contesto contemporaneo.
Districarsi fra le varie categorie ontologiche di identità, cultura e religione non è mai un compito semplice, specialmente per quanto riguarda la variegata regione dei Balcani. Gli studiosi sono concordi nel far risalire la comparsa dell’Islam in Albania in seguito all’avanzata del potere ottomano nel XV secolo, a cui seguì una conversione più corposa nel XVII secolo, probabilmente sentita come sempre più necessaria per evitare la “capitazione” (gizyah), imposta dovuta da tutti i sudditi non musulmani per poter professare la propria religione.
Sebbene esista la tentazione di ridurre l’islamizzazione dei Balcani a un fattore economico e di vantaggio personale/clanico, è molto approssimativo non tenere conto di altri fattori quali gli antichi valori della società tradizionale albanese e la conversione come atto di resistenza all’assimilazione etnica slava e greca.
Con l’indebolimento dell’Impero ottomano, iniziò a concretizzarsi un forte sentimento nazionale albanese che sfociò nella creazione della Lega di Prizren nel 1878, capace di riunire albanesi di tutte le fedi. I Bektashi albanesi, che avevano iniziato a prendere le distanze dall’Impero ottomano, sposarono la causa nazionale e contribuirono alla rinascita culturale della popolazione, alla diffusione della lingua albanese e all’adozione dell’alfabeto latino al posto di quello arabo. Dunque, mentre la parte sunnita rimaneva fortemente legata all’Impero, le forze “bektashiane” fecero parte dell’onda nazionalistica che portò all’abolizione dell’alfabeto Elifba nel 1911 e all’indipendenza ufficiale dell’Albania nel 1912.
La tariqa bektashi: dalle origini alla questione identitaria albanese
La tariqa Bektashi, volgarmente definita «setta mistica», è una confraternita Sufi proveniente dall’antica regione dell’Anatolia. Essa si diffuse in Albania intorno al XV secolo, radicandosi più saldamente solo intorno al 1700.
La sua popolarità nei Balcani – in particolare modo in Albania – si deve tra gli altri fattori all’importanza ricoperta dai Giannizzeri: l’esercito privato del Sultano considerava Hajji Bektash il suo santo Patrono e, a causa del Devşirme (l’arruolamento forzoso come forma di tassazione), molti capi di alto rango all’interno del suddetto ordine bellico erano appunto di etnia albanese. Tale congiuntura permise alla confraternita Sufi di espandersi e di raggiungere un certo prestigio nelle varie arie controllate dall’Impero.
Con l’abolizione dell’ordine dei Giannizzeri nel 1826 anche l’ordine Bektashi subì una breve fase d’arresto, venendo tuttavia soppresso del tutto solo nel 1925 in seno alla rivoluzione kemalista, che modellò la vecchia regione dell’Asia minore fino a farne un nascente stato-nazione di stampo moderno.
Tornando al caso albanese, il Bektashismo rappresenta la tariqa più antica nel paese delle aquile e ha svolto un ruolo fondamentale nella formazione di un’identità nazionale e nella cosiddetta Rilindja Kombëtare Shqiptare, ovvero la fase risorgimentale albanese. L’adorazione della natura e della patria divennero i motivi principali dei sufi albanesi, i quali raggiunsero vari strati della popolazione, soprattutto le masse non alfabetizzate, fungendo cosi da strumento educativo.
I motivi bektashi trovarono una forte eco nei valori romantici e risorgimentali che influenzarono uno dei massimi esponenti della letteratura e del risorgimento albanese: Naim Frashëri. Nella sua opera più celebre Qerbelaja dedicata alla battaglia di Karbala, l’autore utilizza scientemente la sofferenza sciita e il martirio di Hussain come metafora dell’agognata libertà del popolo albanese, criticando l’egemonia sunnita e pertanto quella ottomana.
La religione durante il comunismo
Con l’avvento del regime comunista la confraternita subì un grave arresto e dovette darsi alla clandestinità. Nel 1967, anno in cui Enver Hoxha bandì ogni forma di credo religioso, molti esponenti vennero imprigionati o mandati ai lavori forzati. Fu solo nel 1991, con l’imminente crollo del regime, che la vita spirituale e religiosa riemerse pubblicamente, come dimostra la storica giornata del 18 gennaio di quell’anno, in cui 10mila persone entrarono nella moschea di Et’hem Bey in piazza Skanderbeg a Tirana, opponendosi alle autorità e sancendo de facto la rinascita della religione in Albania.
In seguito alla caduta del regime, le varie comunità religiose ottennero il permesso di ricostituirsi, col gravoso compito di dover ricostruire un habitus devozionale sulle macerie di anni di ateismo coercitivo.
Islam e Balcani occidentali: il ruolo della Turchia
Quando si parla di Balcani, non possiamo non soffermarci a riflettere sul posizionamento (strategico) di un grande attore statale: la Turchia. Che sia per la sua prossimità all’Europa, che sia per il ruolo ambiguo nei vari scenari politici del Medio Oriente, il paese di Atatürk vanta un retroterra affettivo e geografico nel territorio balcanico, in cui l’influenza è tornata in auge alla fine dei conflitti etnici susseguitesi negli anni Novanta.
Il ruolo della Turchia, al di là del nostalgismo ottomano, ha diverse sfaccettature interessanti. In primis, i Balcani rappresenterebbero una “breccia” verso l’Europa, non a caso la merce esportata verso l’Europa passa attraverso la piccola regione montagnosa dei Balcani, e godere di buone relazioni con i governi balcanici significa addentrarsi in modo “indiretto” in Occidente.
Negli ultimi anni la Turchia, oltre ad aver normalizzato i rapporti con la Serbia, ha incrementato l’influenza economica e culturale in Bosnia ed Erzegovina (Ankara prese le parti dei bosgnacchi durante l’assedio di Sarajevo, definendo i serbi “macellai”), Kosovo (è stato fra i primi stati a riconoscerne l’indipendenza) e Albania. Nel corso degli anni Duemila è stato soprattutto il movimento Hizmet di Fetullah Gülen ad aver avuto un’impronta importante, specialmente nel campo dell’educazione, finanziando diverse università private.
Con l’ascesa dell’attuale presidente, Recep Tayyp Erdogan, abbiamo assistito a quello che dai politologi viene definito “Erdoganismo”: la figura del presidente turco e i suoi rapporti personali coi diversi leader dei governi nei Balcani rappresentano un nuovo tipo di politica, che vede Erdogan come il dunya lideri, un leader globale, oltre che alla Turchia come “protettrice” dei musulmani nel mondo. D’altro canto, le élite politiche nei Balcani sembrano aver accolto di buon grado la presenza della Turchia nelle sue varie sfaccettature. Dalla TIKA agli Istituti Yunus Emre, ai fondi per le masjid, il tessuto sociale albanese sta piano piano subendo un processo di islamizzazione.
Oltre all’utilizzo del cosiddetto “soft power”, aziende e compagnie turche hanno nel tempo investito in diverse infrastrutture albanesi, dalle telecomunicazioni ai trasporti alla finanza. Solo un mese fa, veniva inaugurata a Tirana la xhamia e madhe e Tiranes, la Grande Moschea di Tirana, finanziata dalla Turchia e costruita su modello della Moschea Blu di Istanbul.
Se da un lato c’è la voglia di farsi promotrice dei diritti dei musulmani, dall’altra c’è l’ambizione di controbilanciare i movimenti salafiti sovvenzionati dall’Arabia Saudita, col beneplacito dei politici locali, i quali sono contenti di dimostrare alla controparte europea occidentale di avere diversi alleati su cui contare.
I Bektashi e Israele
Alcuni mesi fa, il leader spirituale della confraternita Bektashi, Baba Mondi, dichiarava in un’intervista al Jerusalem Post:
Io conosco Israele e mi ritengo fratello dei figli d’Israele. Ho visitato tutto Israele con i miei amici lì. Noi li consideriamo fratelli e sorelle. Due cose mi hanno colpito molto quando ho visitato Israele. La prima è l’ospitalità: mi hanno accolto come un fratello e amico.
L’account Instagram Islam meshire e dashuri (letteralmente: Islam, pietà e amore), ha riportato le parole di Baba Mondi in un post che ha suscitato molta disapprovazione tra gli utenti, i quali hanno sottolineato l’ipocrisia e l’ingiustizia, soprattutto per un leader spirituale musulmano, di non aver mai fatto menzione del genocidio in corso a Gaza.
La notizia fa seguito alle recenti dichiarazioni del primo ministro albanese Edi Rama di voler creare un microstato bektashiano su modello del Vaticano, in modo tale da garantire maggiore autonomia alla confraternita e permetterle di diffondere i valori di un Islam pacifico e tollerante.
La confraternita Bektashi ha spesso sottolineato il proprio carattere liberale, “mistico” e lontano da certe ideologie spesso ontologicamente legate all’Islam: è risaputo ad esempio che i dervisci albanesi fanno spesso uso di alcolici, sia nei propri rituali che nella quotidianità. Elemento perturbante se si considera il generale divieto di consumo di alcool fra i precetti islamici più ortodossi.
Un incontro poco “ortodosso”
In un incontro informale, avvenuto a gennaio di quest’anno, mentre ero in visita al quartier generale della Bektashiyya a Tirana, centro di riferimento per tutti i credenti bektashi nel mondo, discorro con Baba Mondi di religione, di islam, mentre il capo spirituale della confraternita mi offre della rakija, bevanda alcolica tipica della regione balcanica e molto apprezzata in momenti conviviali. Quando gli faccio presente che ho vissuto e studiato in Tunisia, mi sprona a bere la finché sono lì, visto che in Tunisia “mi taglierebbero una mano”.
Questo genere di affermazioni si inserisce certamente in un quadro più ampio di autodeterminazione all’interno di un contesto variegato, e la continua allusione alla spinta nazionalista della confraternita durante l’indipendenza dall’Impero ottomano non è che una ricerca di legittimità della (seppur minoritaria) frangia sciita.
Il rito del pellegrinaggio sul Monte Tomorr
La seconda metà di agosto di ogni anno, si svolge un pellegrinaggio religioso sulle cime del Monte Tomorr. Le radici del pellegrinaggio hanno origini antiche. Si suol raccontare che sulla cima del monte vi è sempre della neve che non viene mai raggiunta dai raggi del sole, per cui non si scioglie mai. Le diverse credenze e celebrazioni pagane sono state rilette in chiave religiosa, diventando cosi un momento di raduno per i fedeli bektashi.
Si narra infatti che durante la guerra a Kerbala (680), storico momento dello scisma fra sunniti e sciiti, lo spirito di Abbas Ibn Ali, figlio di Ali e fratello di Husayn, una volta martirizzato abbia vagato dall’Iraq fino alla cima per del Monte Tomorr in Albania.
Una volta raggiunte le vette della montagna, si nota un paesaggio frastagliato da piccole Teqe, santuari bektashi dove poter accendere candele e venerare le turbe, tombe degli antichi Dede. Famiglie numerose giungono con capretti da sacrificare per benedizioni allo spirito di Abbas Ali. Le giornate sono scandite da canti e balli, alcuni di natura popolare (nella zona di Skrapar sono famose le polifonie) altri dal carattere fortemente religioso, come uno dei brani più celebri Kenge per Abaz Aliu (canzone per Abbas Ali) che recita più a meno cosi
Oh, campo di Karbala, che giaci in mezzo ai miei occhi, pieno del sangue di Ali Abaz, chi è costui? Angelo che ti sei avvicinato dal grande Dio, perché stanno accerchiando Kerbala? Vuoi che pianga? Abaz Aliu è venuto da noi, l’Albania non è rimasta “povera” perché Dio non l’ha voluto
I rapporti con l’Iran
Nonostante il forte richiamo al martirio e ai fatti di Kerbala, i legami con lo sciismo duocedimano e per estensione, con l’Iran, non sono dei più significativi. Negli anni passati infatti sono stati diversi i momenti di tensione fra il paese delle aquile e quello dell’ayatollah, tra cui una brusca interruzione dei rapporti diplomatici a seguito di un attacco informatico ai sistemi governativi albanesi, ricondotto ad hacker iraniani e interpretata come una forma di vendetta per aver acconsentito di accogliere sul suolo albanese militanti del MEK, Mujahedin-e-khalq, movimento d’ispirazione marxista in esilio che durante la prima guerra del golfo passò dati sensibili a Saddam Hussein, sostenendo di fatto l’Iraq ed entrando in conflitto con la teocrazia iraniana.
In conclusione, mentre il modello albanese di tolleranza e convivenza fra religioni suscita sconcerto, curiosità e talvolta elogi, non possiamo fare a meno di chiederci se dietro tali categorie non ci siano programmi e aspirazioni politiche, le quali talvolta rigettano quell’idea di Occidente che appiattisce le idiosincrasie e limita alcuni corpi sociali, talaltra aderiscono ai valori di modernità e pace, non disdegnando mai amicizie ambigue.
* Nata in Albania, ma cresciuta in Italia, ha una laurea in Antropologia, religioni, civiltà orientali. Ha seguito corsi di formazione in documentaristica (Etnoschool di Padova) e giornalismo visuale (Irfoss Institute). Fa parte della rete “Balkan people in Italy” – network di giovani persone della diaspora balcanica. Ha pubblicato per Tamu Edizioni; Kosovo 2.0 (TwopointZero). Attualmente vive e lavora in America latina.