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Il 9 gennaio ricorreva il centenario della nascita del regista e sceneggiatore di fama mondiale Sergej Paradžanov, nato nel 1924 a Tbilisi, in una famiglia armena (il suo vero nome era Sarkis Hovsepi Parajaniants), e spentosi nel 1990 a Erevan. I suoi lungometraggi Le ombre degli avi dimenticati, Il colore dei melograni, La leggenda della fortezza di Suram e Ashik Kerib rientrano tra le pagine imperdibili del cinema mondiale del XX secolo.
Paradžanov non era solo un regista, ma un artista visionario il cui talento multisfaccettato si nutriva di svariate fonti: era anche un musicista, pittore, amante delle fiabe e delle tradizioni popolari, nonché collezionista di oggetti, ornamenti e tracce di folklore provenienti dal crogiolo di etnie e religioni della regione caucasica. Esercitò inoltre il mestiere di antiquario, imparato dal padre, e non a caso i suoi film abbondano di oggetti, dettagli e accessori, ricostruendo un’ambientazione variopinta imbevuta delle antiche tradizioni di diversi gruppi etnici.
Cittadino sovietico della Repubblica georgiana, di origine armena, nato e cresciuto a Tbilisi, formatosi a Mosca, visse e lavorò a lungo nella Repubblica ucraina. Qualsiasi tentativo di giudicare e classificare la sua arte e la sua vita poliedrica sulla base di criteri di appartenenza nazionale sarebbe pertanto estremamente riduttivo. La molteplicità e il multiculturalismo sono elementi fondamentali per comprendere il suo interesse nel promuovere le diverse identità nazionali delle varie regioni di appartenenza e il loro particolare valore al di là della sfera cinematografica, nonché le implicazioni del suo impegno artistico.
Per quanto riguarda chi scrive, il mio incontro con l’opera di Sergej Paradžanov è avvenuto all’Università Ca’ Foscari di Venezia grazie alle lezioni del Professor Boghos Levon Zekiyan durante il periodo dei miei studi di armenistica. È stata l’arte di Paradžanov una delle principali ispirazioni che mi ha portata a sviluppare le mie ricerche sulle minoranze etnolinguistiche dell’ampio spazio eurasiatico. Va detto che il Professor Zekiyan è anche colui che ha coniato la definizione di “identità polivalente” in un articolo del 1997 per descrivere la specificità identitaria di questo artista in termini di appartenenze non esclusive.
Giovinezza fra Tbilisi, Mosca e Kyiv
Un contributo fondamentale alla formazione della sua sensibilità verso la diversità culturale venne dato a Paradžanov dalla natia Tbilisi, in cui trascorse gran parte della sua infanzia e prima giovinezza. Il contesto di questa città, dove gruppi etnici diversi convivevano da secoli, talvolta mescolandosi, espose il futuro regista a modelli di multilinguismo e a preziose testimonianze multiculturali da cui trasse fondamentale ispirazione.
Alla fine della Seconda guerra mondiale, Paradžanov si trasferì a Mosca per formarsi all’istituto di cinematografia Gerasimov. Nel 1950 si sposò con una ragazza di origine tatara proveniente della Repubblica di Moldavia, convertitasi alla religione cristiano-ortodossa. Il matrimonio fu tuttavia breve in quanto la giovane sposa venne uccisa dai suoi genitori che si opponevano in ogni modo al matrimonio per motivi religiosi. Dopo la morte della moglie, Paradžanov trascorse del tempo nella Repubblica moldava per girare il suo film di diploma, Fiaba moldava.
Successivamente, Paradžanov si trasferì nella Repubblica ucraina allo scopo di realizzare alcuni cortometraggi e fu lì che produsse alcune delle sue prime opere, tra cui Andrieš (1955, basato su una favola scritta dallo scrittore moldavo Emilian Bucov) e Rapsodia ucraina (1961). Paradžanov imparò la lingua ucraina e si sposò con la sua seconda moglie, Svetlana Šebartjuk nel 1956, con la quale il matrimonio durò fino al 1962.
“Le ombre degli avi dimenticati”
Nel 1965 uscì il suo film Le ombre degli avi dimenticati, tratto dall’omonimo romanzo di Mychajlo Kocjubyns’kyj del 1912 e ambientato nei Carpazi, commissionatogli in vista delle celebrazioni per i cent’anni dalla nascita dello scrittore. Tuttavia, Paradžanov, lungi dall’elogiare la retorica e l’ideologia sovietica, riuscì a creare un esperimento visuale del tutto inedito. Il film si concentra infatti su una cultura minoritaria, quella degli hutsuli – una popolazione appartenente al gruppo ruteno – ed è intriso di magia, folclore e sincretismo, i cui elementi dell’immaginario cristiano e pagano sfidavano la visione estetica canonica del realismo socialista, mescolandosi a un’audace ricerca visuale.
Un altro elemento “sovversivo” fu la scelta di girare il film nel dialetto hutsul originale, efficacemente restituito anche attraverso la sublime e ipnotica colonna sonora. Prevedibilmente, questo film creò a Paradžanov molti problemi: nonostante i meriti artistici del film, il regista ricevette sette avvertimenti dal direttore degli studi cinematografici durante le riprese e venne accusato di settarismo mentre visitava le comunità hutsul.
Inoltre, il suo rifiuto di tradurre il film in lingua russa, motivato dalla volontà di preservare lo spirito del film, rappresentava una forte dichiarazione di dissenso in termini linguistici.
Durante la première del film, il 4 settembre 1965, alcuni esponenti dell’intelligencija ucraina, tra cui il critico letterario Ivan Dzjuba, colsero l’occasione per condannare pubblicamente gli arresti di massa di vari intellettuali avvenuti alcuni giorni prima. Molti furono i disordini per le strade di Kyiv quella sera e questo film ebbe un enorme impatto fra l’intelligencija locale che in esso vedeva una valorizzazione della cultura tradizionale ucraina.
“Gli affreschi di Kiev”
Gli eventi di Kyiv diedero avvio a un travagliato rapporto del regista con le autorità sovietiche, che avrebbe segnato la sua vita in maniera indelebile. L’anno prima dell’uscita del film Le ombre degli avi dimenticati, a Paradžanov era stato commissionato un cortometraggio celebrativo per i 20 anni dalla vittoria dell’Unione Sovietica sui nazisti a Kyiv, intitolato Gli affreschi di Kiev.
Paradžanov, tuttavia, fece esattamente l’opposto di ciò che le autorità sovietiche si aspettavano da lui, creando una sorta di anti-narrazione frammentaria, attraverso motivi della cultura ucraina uniti a elementi pittorici e simbolici che spezzavano la continuità e legittimità della retorica dominante, evitando di celebrare l’eroismo dei soldati della Grande guerra patriottica.
Le riprese per il film vennero interrotte a novembre del 1965 e Paradžanov venne accusato di “un atteggiamento mistico-soggettivo nei confronti della realtà moderna”. La fine forzata di tale progetto creò al regista molti problemi e, da più di un’ora di materiale filmico, solo 14 minuti sopravvissero. Al regista venne inoltre impedito di conservare tutto il girato.
“Sayat Nova”
In seguito a ciò, Paradžanov si trasferì nella Repubblica armena per realizzare quello che è considerato da molti come il suo film più importante. Il titolo originale di quest’opera era Sayat Nova, poi modificato in Il colore dei melograni dalle autorità sovietiche che giudicarono quest’opera scandalosa, provocatoria e folle.
Il film tratta la biografia di Sayat Nova, un trovatore (ashoug in armeno) vissuto nel XVIII secolo, una figura multiculturale, il cui repertorio musicale abbracciava molte lingue diverse della frontiera caucasica, con cui Paradžanov probabilmente si identificava molto, essendo anche lui nato a Tbilisi e di origine armena.
Nel film, girato fra Georgia, Armenia e Azerbaigian, compaiono diversi elementi del patrimonio materiale delle culture caucasiche e iraniche come il kamancheh, un particolare strumento a pizzico delle tradizioni popolari locali, le miniature. Vi sono presenti anche elementi medievali armeni tra cui manoscritti nell’alfabeto autoctono, khachkar (croci di pietra) e il melograno, motivo per cui il pubblico armeno vide in quest’opera un riconoscimento della sopravvivenza della cultura armena nel corso dei secoli di fronte alle dominazioni straniere e alla repressione.
Il carattere sperimentale dell’opera la rende più definibile come un film in versi piuttosto che una narrazione cinematografica: i dialoghi sono rari e le suggestioni visuali e poetiche sono veicolate da immagini surreali, delle sorte di pittogrammi cinetici onirici.
Le riprese terminarono nel 1968 e il film suscitò le reazioni contrariate dei membri del Goskino (Comitato statale dell’Urss per la cinematografia) a causa – ancora una volta – della mancanza di adesione ai principi del realismo socialista. Il regista venne criticato severamente e accusato di pornografia e misticismo: per tale motivo, fu costretto a rimaneggiare il film. Tuttavia, il risultato non fu considerato soddisfacente e pertanto il regista Sergej Jutkevič lo rielaborò in una nuova versione chiamata Il colore dei melograni, che venne proiettata in sole due sale e poi bloccata.
Ripercussioni politiche e solidarietà internazionale
Le riprese di Sayat Nova coincisero con la repressione della Primavera di Praga: Paradžanov fu tra i primi a firmare una lettera di protesta (la cosiddetta “Lettera di Kiev” – Kievskoe pis’mo – o “Lettera di protesta 139” – Pis’mo-protest 139), promossa da affermati scienziati, artisti e intellettuali ucraini, ma anche lavoratori e studenti, rivolta a Brežnev, in cui veniva espressa preoccupazione per i processi del 1965-1966 contro la giovane intelligencija ucraina e per la questione dei diritti civili in tutta l’Urss. Tutti coloro che firmarono la lettera furono successivamente perseguitati e arrestati.
Dall’inizio degli anni Settanta, i problemi nella vita professionale di Paradžanov si moltiplicarono e gli venne revocata la possibilità di girare nuovi film. Il 17 dicembre 1973 venne arrestato a Kyiv mentre faceva visita a suo figlio Suren. Le accuse erano varie: dal cambio di valuta (vietato in Urss), al furto nelle chiese (perché collezionava icone) alla corruzione, a cui si aggiunsero poi quelle di omosessualità e stupro.
Alla fine, l’accusa si concentrò sui reati di sodomia e diffusione di materiale pornografico a causa degli elementi “scandalosi” presenti nel film Sayat Nova. Il processo si tenne alla fine di aprile del 1974 e si concluse con una condanna a cinque anni di reclusione. In seguito a tale notizia, alcuni intellettuali occidentali iniziarono a impegnarsi per salvare Paradžanov dalla prigione, con la creazione di uno speciale Comitato internazionale per la liberazione di Paradžanov, composto da un gruppo di cineasti di rilievo.
Nel 1977, venne organizzata a Venezia la cosiddetta Biennale del Dissenso in segno di sostegno agli artisti dissidenti repressi dell’Unione Sovietica e di altri paesi comunisti. L’evento contribuì a far crescere la popolarità di Paradžanov tra i cineasti italiani, tra cui Federico Fellini, Tonino Guerra e Michelangelo Antonioni (quest’ultimo considerava Paradžanov uno dei più grandi registi del mondo).
Grazie alle pressioni esercitate dallo scrittore comunista francese Louis Aragon sulle autorità sovietiche, Paradžanov fu rilasciato, il 30 dicembre 1977. Tuttavia, rimase senza lavoro per molti anni e non ebbe il permesso di tornare nella Repubblica ucraina.
“La leggenda della fortezza di Suram”
Dopo alcuni anni dal suo ritorno nel suo Caucaso, Paradžanov riuscì finalmente a girare un nuovo film, La leggenda della fortezza di Suram (1985), anch’esso ricco di elementi provenienti dal folclore “transcaucasico”, che in qualche modo continuava le sue esplorazioni delle varie tradizioni native attraverso il prisma del contatto fra culture antiche.
La trama del film si basa su un’antica leggenda popolare: la Georgia è sotto attacco da parte di un invasore straniero e il popolo georgiano costruisce la fortezza di Suram per difendersi. Tuttavia, un indovino dice che la fortezza resisterà solo se il giovane più bravo verrà sacrificato e inserito nelle sue mura.
Attraverso questa nuova opera, Paradžanov ebbe la possibilità di dimostrare che il suo spirito era ferito ma non annichilito, che il suo stile magnetico e variopinto di poesia cinematografica non poteva essere spezzato. Era dunque intenzionato a continuare su questa strada per difendere il suo lavoro.
“Ashik Kerib” e Venezia
L’ultimo film di Paradžanov è Ashik-Kerib (1988). Girato in Azerbaigian, è basato su una storia d’amore azera inserita in un racconto di Michail Lermontov, il poeta preferito del regista.
Quest’opera elogia ancora una volta il ruolo del trovatore, ashik nelle lingue turciche e in georgiano, attraverso suggestive musiche tradizionali, motivi multilingui e altri elementi di ispirazione etnografica che caratterizzano la regione di frontiera del Caucaso. Molteplici sono le strategie adottate in quest’opera per indurre il pubblico in una sorta di disorientamento: dal punto di vista linguistico, il film è interamente in lingua azera, ma continuamente doppiato con una voce fuori campo in georgiano; sotto l’aspetto visivo, invece, vi appaiono paesaggi medievali, elementi moderni e riferimenti a eventi contemporanei (come il pogrom contro gli armeni di Sumgait avvenuto a inizio 1988).
Il film venne presentato alla Biennale di Venezia nel 1988 e Paradžanov poté essere presente per la prima volta in questa città, con cui immediatamente sentì una speciale affinità estetica. Qui ebbe modo di incontrare tutte le persone che lo avevano sostenuto e con cui era in contatto da molti anni, a cui portò in dono alcuni oggetti provenienti dai vari paesi del Caucaso. In tale occasione, Enrico Ghezzi realizzò il documentario Due ore in una stanza con Gianni e Paradjanov, una conversazione tra il regista e lo slavista Giovanni Buttafava.
Un altro fatto importante è che a Venezia Paradžanov incontrò pure il Professor Boghos Levon Zekiyan con cui si recò sull’isola di San Lazzaro degli Armeni: in tale modo, poté apprezzare un tassello fondamentale della diversità culturale veneziana e sentirsi ancora più a casa.
I quattro film più famosi di Paradžanov sono caratterizzati da una sensibilità etnografica nei confronti del patrimonio materiale e immateriale delle antiche comunità etniche dei Carpazi e del Caucaso. Non si trattava per lui solo di una forma di ispirazione estetica: come il regista affermò, intendeva “trasmettere una ‘visione folcloristica’ senza la patina museale – riportare tutti questi splendidi ricami, rilievi, piastrelle, alla loro fonte creativa, combinarli in un unico atto spirituale” (dal suo saggio “Perpetual Motion”).
L’opera di Paradžanov costituisce un prezioso tributo alla coesistenza multietnica e alle forme di ibridazione culturale in queste terre di confine eurasiatiche, in opposizione alle interpretazioni tragiche e monolitiche dell’identità che sono state, e purtroppo sono ancora, prodotte in questi luoghi.
Nel celebrare microcosmi polifonici di culture minoritarie e di frontiera, questi film riflettono i modelli di resistenza di queste comunità e dello stesso Paradžanov alle politiche sovietiche di omogeneizzazione che imponevano un concetto artificiale di popolo sovietico calato dall’alto.
Indubbiamente, la realtà multisfaccettata del regista, vissuta in numerose ramificazioni geografiche, culturali e persino linguistiche, è stata un’arma a doppio taglio che ha rappresentato al tempo stesso la sua più grande fonte di ispirazione e il suo più grande problema politico.
Antropologa e ricercatrice di origine italo-messicana-levantina. Attualmente ricercatrice post-doc presso il dipartimento di Sociologia dell'Università di Ljubljana. I suoi temi di ricerca, che si ripercuotono anche sulla sua scrittura non accademica, riguardano la diaspora, i confini, la diversità culturale e le minoranze etnolinguistiche, con una predilezione particolare per l’area balcanica. Quando messa nelle giuste condizioni, parla più o meno fluentemente una dozzina di lingue e ne legge almeno altre cinque (romeno, russo, portoghese, un po’ di romanì e mandarino), grazie al suo bagaglio genealogico multiculturale e ai numerosissimi soggiorni di ricerca e studio all’estero finanziati da diversi enti nazionali ed internazionali.