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Raramente si pensa all’espansionismo russo in Asia Centrale come a una storia di colonialismo dal Caucaso all’Estremo Oriente e di imperialismo: negli ultimi anni, però, gli autori e gli studi decoloniali hanno dimostrato che la Russia zarista e l’Unione Sovietica hanno alterizzato le popolazioni e le nazioni conquistate attraverso narrative coloniali. Oggi, in molti paesi post-sovietici questo passato è messo in discussione dall’attivismo e, spesso, da artiste e artisti contemporanei.
“Da Tabriz sorga il Sole d’Oriente mostrando il suo volto”: Jalal ad-Din Rumi, tra i più grandi mistici del sufismo, in una delle sue poesie dedica queste parole d’amore al sole che sorge, tanto amato dai popoli attraverso le geografie, le culture, la storia. Ex Oriente Lux dicevano nell’antica Roma – per i cristiani, da est arrivavano i Magi in visita a Gesù appena nato, e così nel corso del tempo molti saperi, tecniche, innovazioni hanno viaggiato fino all’Occidente e ne sono diventati parte.
Una fascinazione, quella dell’Occidente per l’Oriente, che ha fatto presto a trasformarsi in pretesa di controllo, dominio, sottomissione; non c’è voluto molto perché la colonizzazione delle Americhe investisse anche l’Africa, il bacino del Mediterraneo e l’Asia, il subcontinente indiano e le coste del Giappone e della Cina, finendo per delineare uno spazio “selvaggio”, “incivile”, “arretrato”.
Il Sud del mondo alla ribalta
Già a partire dagli anni Settanta, durante e dopo la guerra del Vietnam, accademici e sociologi dei cosiddetti “paesi in via di sviluppo” hanno cominciato a ragionare sul processo di definizione dell’Altro da parte dello sguardo occidentale: la filosofa indiana Gayatri Chakravorty Spivak pubblicherà nel 1988 Can the Subaltern Speak?, un testo fondamentale perché mette in discussione ciò che fino a quel momento le società occidentali avevano ignorato, ovvero l’eurocentrismo culturale, insistendo sulla necessità di ribaltare questa prospettiva e dare la possibilità alle persone e alle comunità “subalterne” e per motivi politici o identitari di avere finalmente voce in capitolo nel dibattito internazionale.
Nascono così gli studi post-coloniali, che mettono a fuoco le problematiche della contemporaneità attraverso le scienze sociali.
È grazie a pubblicazioni come Provincializzare l’Europa di Dipesh Chakrabarty, uscito nel 2000, che gli ambienti accademici occidentali si rendono conto che relativizzare è importante: non una storia ma storie diverse, non una sola dinamica ma tanti processi che in un modo o nell’altro concorrono a plasmare il mondo come lo vediamo.
Certo, dal 1978 – anno della sua uscita – Orientalismo di Edward Said non ha smesso di essere un punto di riferimento per chi si occupa di questo campo, così come lo stesso Immaginando i Balcani di Maria Todorova di una ventina d’anni più tardi: se oggi ci rendiamo conto che non esiste un solo Oriente ma tanti est, dalla “Balcania” al Vicino Oriente, dal Medio all’Estremo Oriente messi a punto dallo sguardo occidentalizzante ed eurocentrico è grazie a questi autori e alle loro ricerche.
Ma come la mettiamo se a esser discussa è la natura della storia politica e sociale della Russia zarista e poi sovietica, mai pienamente accolta nel consesso dell’eurocentrismo?
Lezioni di colonialismo e imperialismo russo
Le espansioni a est realizzate dalla Russia a partire dal Seicento non sono ancora studiate a sufficienza dal punto di vista delle identity politics e delle conseguenze che il processo ha determinato per gli abitanti della Siberia e del Caucaso, dell’Asia Centrale e delle regioni lungo il confine con la Cina, alcune oggi indipendenti e altre ancora parte della Federazione Russa.
In un testo disponibile in rete che s’intitola The Futures of Russian Decolonization, la studiosa e artista Anna Engelhardt fa notare i limiti della teoria postcoloniale se applicata allo spazio dell’ex Unione Sovietica, tanto più se si considera che la Russia è stata considerata un’entità statale a metà tra il Nord e il Sud del mondo e questo dai tempi del Grande Gioco, quando Pietroburgo si contendeva Iran e Afghanistan con Londra.
A questo proposito, conviene notare la differenza tra l’espansionismo zarista e quello sovietico, e il tipo di controllo che esercitavano sui popoli dell’enorme territorio d’Eurasia: il mondo accademico in genere considera l’impero russo come una potenza coloniale, mentre per l’Unione Sovietica preferisce il termine “imperialismo”.
La parola “colonialismo” si riferisce di solito all’occupazione fisica e al controllo diretto di territori da parte di una potenza straniera, con l’obiettivo di sfruttarne le risorse economiche e controllare la popolazione; del resto, finché gli zar restano al comando conquistano parecchi territori attorno alla Russia, con insediamenti, imposizione della propria lingua e cultura e sfruttamento delle risorse. Non è un caso che lo storico Aleksandr Etkind, nel suo Internal Colonization: Russia’s Imperial Experience (2011), parli di “colonizzazione interna”, riferendosi al modo in cui l’Impero russo colonizzava non solo territori esterni, ma anche le proprie aree interne periferiche.
“Imperialismo”, invece, è un concetto più ampio che riguarda l’espansione dell’influenza e del controllo di uno Stato su altri territori o popoli, non necessariamente attraverso la colonizzazione diretta. Può avvenire attraverso mezzi politici, economici o culturali – nel celebre saggio L’Imperialismo, fase suprema del capitalismo del 1917, era Lenin in persona a definirlo come una fase particolare del capitalismo, in cui il capitale si espande in cerca di mercati esterni e opportunità di investimento, comportando una dominazione globale.
Se i paesi satelliti dell’Europa orientale erano di fatto sotto il controllo sovietico, con regimi comunisti fedeli a Mosca, il rapporto dell’Urss con le sue repubbliche è abbastanza complesso da descrivere: in linea di massima, si può considerare una forma di imperialismo economico e ideologico, che lasciava spazio anche al colonialismo interno soprattutto nelle regioni dell’Asia Centrale ed Estremo Oriente.
C’è da tener presente che pure quella di post-sovietico è una definizione di comodo, e la generalizzazione è dietro l’angolo; d’altra parte, Engelhardt sostiene che quando negli anni Novanta studiose e studiosi come Ihar Babkov, Marko Pavlyšyn e Oksana Zabužko avevano provato ad applicare un approccio postcoloniale allo studio delle società dell’Unione Sovietica ormai disgregatasi, all’inizio erano stati presi poco sul serio dal mondo universitario russo. Qualche anno dopo le cose cominciano in parte a cambiare: il critico ucraino Vitalij Černec’kyj pubblica Mapping Postcommunist Cultures: Russia and Ukraine in the Context of Globalization nel 2007.
Nello stesso periodo il filosofo argentino Walter D. Mignolo propone un superamento degli studi post coloniali; a suo avviso, c’è bisogno di parlare di decolonialità, per guardare con occhi nuovi alla questione e superare la mentalità colonizzante ancora presente nelle strutture sociali e di conoscenza.
Decolonialità, insomma, come processo di liberazione culturale che cerca di valorizzare saperi, culture e prospettive del Sud globale, spesso marginalizzate dalla narrazione occidentale dominante: questo vuol dire smantellare pure il concetto di identità imposto dal colonialismo, che ha creato categorie razziali e le ha inserite in gerarchie, influenzando il modo in cui le persone vedono se stesse e gli altri.
(De)colonialità e arte contemporanea post-sovietica
E proprio di decolonizzazione dello sguardo si occupa Madina Tlostanova, femminista e docente universitaria di origini uzbeke e circasse che a riguardo ha le idee molto chiare; quello russo era ed è colonialismo, ma nel discorso accademico e pubblico non è considerato tale perché, per l’Occidente, la Russia è sempre stata un Secondo Mondo, mai alla pari con il Primo.
L’impero russo e più avanti l’establishment sociopolitico sovietico hanno alterizzato le popolazioni sottomesse, i loro corpi, le identità locali e le società, spesso distruggendo tradizioni antiche e la cultura immateriale. Per Tlostanova, insomma, la galassia post-comunista altro non è che “il Sud povero” del Secondo Mondo russo. Le arti visive e la creatività sono il mezzo che i cittadini eurasiatici sfruttano di più per fare attivismo e affrontare il presente, non meno urgente del passato; ne parla sempre Tlostanova in What Does It Mean to Be Post-Soviet? Decolonial Art from the Ruins of the Soviet Empire, del 2023.
Di artiste e artisti post-sovietici politicamente impegnati ha scritto anche Sara Raza, curatrice di stanza a New York che nel 2022 ha pubblicato un progetto che mescola fanzine, grafica e saggistica: Punk Orientalism: The Art of Rebellion si concentra sul Caucaso e l’Asia Centrale e ne presenta le scene artistiche, oltre a includere artisti provenienti dall’area persiana e turca, nonché da zone di contatto con l’Unione Sovietica.
Per Raza, un’opera del genere è “punk” in quanto atto sovversivo: verso il mercato dell’arte occidentale e le sue logiche, verso il pensiero eurocentrico e un sistema di valori ormai datato, verso una cartina geografica dove troppe nazioni sono state considerate una semplice periferia. Punk Orientalism non è solo un libro, ma un progetto di ricerca che si occupa di mostre, seminari e pubblicazioni tanto negli Stati Uniti quanto nell’Eurasia post-sovietica, non diversamente da un collettivo come Slavs and Tatars.
Particolarmente interessanti sono le artiste e gli artisti della scena contemporanea kazaka: ad esempio Erbossyn Meldibekov, classe 1964, nei suoi lavori esplora il cambiamento delle identità culturali e la distruzione dei monumenti storici in Asia Centrale.
Family Album è una collezione di fotografie dove la famiglia dell’artista posa accanto a monumenti nazionali nel corso del tempo, dall’epoca sovietica fin dopo l’indipendenza del Kazakhstan; grazie a queste immagini, Meldibekov evidenzia come tanto le persone quanto i monumenti abbiano subito trasformazioni profonde, dovute agli anni che passano e alle circostanze umane, storiche, politiche.
Almagul Melinbayeva (1969) è nota per film e video che esplorano l’intersezione tra tradizione, modernità ed ecologia nel suo paese natale: in Transoxiana Dreams, una ragazza attraversa la regione del Lago d’Aral, un tempo fertile e oggi devastata per la cattiva gestione delle risorse sotto l’Urss – un viaggio metaforico verso la rinascita e il recupero di un’identità perduta.
Certamente in Occidente la strada da fare è ancora lunga, ma le premesse per una consapevolezza nuova sull’Eurasia ci sono tutte: solo in Italia, in questo 2024 sono state due le occasioni per avvicinarsi a questi popoli e culture, grazie all’arte e all’antropologia.
Al Museo MART di Trento, Sciamani. Comunicare con l’invisibile ha offerto una prospettiva unica sullo sciamanismo in Mongolia, Tibet e nelle regioni russe; che l’Unione Sovietica considerasse le pratiche sciamaniche come una condizione psichiatrica, di disturbo mentale, la dice lunga sull’atteggiamento del governo sulle popolazioni oppresse e conquistate.
Anche il MAO – Museo d’Arte Orientale di Torino ha proposto qualcosa di davvero speciale; fino all’inizio di settembre e con più allestimenti, Tradu/izioni d’Eurasiaha ribadito l’importanza di ricordarci le interazioni e gli scambi del Mediterraneo con l’Asia Centrale: un team curatoriale d’eccellenza ha messo in dialogo tappeti caucasici, manufatti tradizionali e opere d’arte contemporanea, il tutto con un programma ricco di conversazioni, performance e spunti di riflessione. Ex Oriente Lux!
È un ricercatore e divulgatore indipendente; si occupa di decolonialità e culture visuali nello spazio del Nuovo Est, in particolare post-ottomano ed eurasiatico. Oltre che per Meridiano 13, scrive regolarmente su Meridiano 13, Est/ranei - Letteratura, cinema e culture dell'Europa orientale e Antinomie - Rivista di scritture e immagini. È anche contributing editor dell'edizione digitale di Harper's Bazaar Italia e, dall'aprile 2024, fa parte dello staff di Lossi 36 - Weekly Highlights from Central Europe to Central Asia. Oltre a tenere seminari e insegnare nelle scuole superiori, è stato consulente di ricerca e catalogazione per l'Archivio Ico Parisi, l'Archivio Mario Radice e l'Archivio Heidi Bedenknecht-De Felice.