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La giornalista ucraina Olesja Jaremčuk ha raccolto in un volume testimonianze e storie di persone appartenenti a quattordici minoranze etniche che vivono entro i confini dell’Ucraina. Grazie alla traduzione italiana di Claudia Bettiol, edita da Bottega Errante nell’ottobre 2022, Jaremčuk ci porta oggi alla scoperta della comunità rom ucraina di Torec’k, importante centro minerario dell’Ucraina orientale (oblast’ di Donec’k). Qui di seguito, un estratto de “Il barone Ol’ha Petrivna” tratto da Mosaico Ucraina. Viaggio dentro le molteplici identità di un popolo.
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L’insediamento rom di Torec’k è minuscolo se paragonato alla città di 70mila abitanti: dieci strade, più di duecento famiglie. Un mondo a sé, con una vita propria, al di fuori del tempo e dello spazio. Questa piccola città mineraria nella regione di Donec’k – fino al 2016 nota con il nome di Dzeržyns’k – dista quattro chilometri dalla linea del fronte. Questo spiega perché la gente del posto si guarda intorno con una certa ansia e sussulta a ogni suono acuto e improvviso. Di tanto in tanto, di notte, i bombardamenti riprendono.
«Di giorno non sparano» mi hanno avvertito, o forse rassicurato, prima che partissi per il mio viaggio.
Torec’k è una città priva di sentimentalismi: angoli retti, severità geometrica del paesaggio, vie che sembrano tracciate con il righello. Le arterie stradali ci portano dal cuore della città ai quartieri periferici. Uno di questi è chiamato “campo” o “ghetto”: il ghetto dei rom.
Al di là delle montagnole di detriti minerari, si scorgono delle case basse con tetti di ardesia, persiane colorate e staccionate di legno. Il territorio è abitato dai rom da diverse generazioni. Alcuni residenti di Torec’k evitano la zona, altri non hanno nemmeno idea che esista sebbene si trovi ad appena un chilometro dal municipio, e dall’altra parte della strada ci sia la stazione di polizia. Una comunità chiusa e isolata, che ha pochi contatti con il mondo esterno. Eppure, una donna è riuscita ad avvicinarsi a essa.
[…]
Dietro una recinzione
«Ho cominciato a lavorare con i rom occupandomi dell’educazione dei bambini» ricorda la nostra intervistata. «Ci sono madri che sono state in carcere, bambini che sono nati in prigione».
Il fatto che sia quasi impossibile imparare il romaní diventa un ostacolo alla comprensione e alla comunicazione reciproche. La comunità rom qui è molto chiusa, come in qualsiasi altro posto.
«Vivono “dietro una recinzione”» spiega l’attivista. «E finiscono per imitare qualsiasi cosa vedano al di fuori di essa. Noi abbiamo la mamma che ci insegna tutto, le maestre all’asilo, gli insegnanti a scuola, e così via. È la mamma che ci dice: questo lo puoi fare, questo no, puoi comportarti così, non puoi comportarti colà. Ma chi si occupa dell’educazione di un bambino rom, e cosa gli viene insegnato se le madri stesse non sono istruite? Una madre che è finita in prigione, il cui bambino viene cresciuto da una zia, uno zio o qualcun altro, cosa può sapere di come si vive? La “vita da zingaro”, così come siamo abituati a immaginarla, si rivela perciò come una difesa, una difesa che nasce dal rifiuto». Ol’ha ne è convinta.
Secondo l’attivista per i diritti umani, il primo passo che tutti dobbiamo fare è renderci conto che i rom hanno gli stessi diritti di qualsiasi altra persona.
«Innanzitutto dobbiamo accettarli, e mettere in pratica la Strategia nazionale sui rom».
Secondo la Strategia per la protezione e l’integrazione della minoranza rom nella società ucraina fino al 2020, ai rom dovrebbero essere garantiti la protezione legale e sociale, l’istruzione e l’assistenza sanitaria, nonché il miglioramento delle condizioni di vita. «Hanno lo stesso nostro diritto di accedere a tutte le risorse di cui anche noi disponiamo» sottolinea l’attivista.
Nello studio teatrale Jagori di Torec’k, Ol’ha Petrivna era solita organizzare per i bambini rom delle lezioni extracurricolari e facoltative presso la Scuola della gentilezza. La donna si recava al campo, entrava in ogni cortile, aspettava pazientemente che i bambini mangiassero, si lavassero, si mettessero le scarpe – oppure li lavava e li vestiva lei stessa – e poi li accompagnava a scuola.
«Io e i miei amici abbiamo creato la Scuola della gentilezza per insegnare ai bambini rom una cosa semplice: l’amore reciproco e per il mondo che li circonda. I bambini inizialmente erano disorganizzati, poco istruiti e mal vestiti. Avevano l’abitudine di dire parolacce, parolacce che manco gli adulti dicono» sospira tristemente. «Per darvi un’idea del livello dei bambini dai quattro ai vent’anni, vi racconterò di quando abbiamo loro proposto di giocare a “fazzoletto”. Si tratta di un gioco in cui si tengono per mano, in cerchio; il bambino che ha il fazzoletto dà un ordine, gli altri iniziano a correre mentre lui cerca di rifilare il fazzoletto a qualcun altro e via dicendo. Comunque, non appena abbiamo detto “mettetevi in cerchio” i bambini non avevano assolutamente idea di cosa fare perché non sapevano cosa fosse un cerchio: è assurdo no?».
Ol’ha ritiene che la spiegazione di tutto questo si trovi nella mancanza di sviluppo sociale dei bambini. Durante le sue lezioni insegna loro persino a sognare. La donna, infatti, è convinta che, se un bambino non sogna, possa cadere in depressione e finire così per fare uso di alcol o droghe, perché vivere diventa poco interessante.
Proprio per questo Ol’ha Petrivna ha iniziato a chiedere ai bambini rom che cosa sognassero. Ma non avevano sogni.
«Non erano in grado di pensare a nulla perché non hanno una memoria associativa. Cosa fa per esempio un farmacista, un giardiniere o, che ne so, un muratore? I bambini non ne avevano idea. Il problema è che davvero, come in un ghetto, vivono a porte chiuse e non comunicano con nessuno. Parlano romaní, a volte sentono qualche parola in russo, ma quando vengono a scuola tutto è in ucraino.
Ma facciamo un esempio. Una bambina di sei anni arriva a scuola e l’insegnante le dice: “Mettiti dei calzini caldi domani e prendi con te un ombrello perché faremo una gita in città e probabilmente pioverà”. I calzini, forse, ancora ancora sa cosa sono, ma l’ombrello? La bambina non ha idea di cosa sia perché a casa sua non ce n’è mai stato uno. Nella loro immaginazione non c’è nulla, tranne una mamma che fuma e urla contro tutti. Appena siamo arrivati al campo abbiamo visto subito come si divertivano i bambini. Sapete come giocavano? Prendevano la terra e se la lanciavano addosso» Ol’ha gesticola animatamente, cercando di controllare le sue emozioni. «È passato così tanto tempo, che anch’io stento a crederci».
«Come motivare i bambini ad andare a scuola, a imparare la disciplina e a socializzare?» si chiede l’attivista dopo una pausa. «Per esempio, Tanja va a scuola ma è diversa da tutti quanti e quindi non passa inosservata agli occhi degli altri bambini. Accanto alla figlia del direttore della miniera, che è conciata come una bambola, la bambina rom si sente umiliata e sminuita dai coetanei. I bambini rom abbandonano la scuola perché non hanno le stesse opportunità dei loro coetanei». Oggi, i genitori sentono maggiormente la responsabilità di fornire un’istruzione di qualità ai propri figli, ma questo non vuol dire che tutti i bambini rom siano corsi a scuola in fretta e furia, come se non aspettassero altro. Detto ciò, i progressi ci sono e sono significativi.
«È necessario cambiare l’approccio all’istruzione da parte degli insegnanti. Bisogna far sì che i bambini siano invogliati a studiare» riflette Ol’ha.
«All’inizio nessuno credeva in me» la donna fa una breve pausa. «Ora però i bambini vanno a scuola più spesso e più volentieri perché ottengono dei risultati: hanno imparato cosa sono la disciplina, l’ordine, l’educazione». Oggi i rom di Torec’k frequentano corsi di formazione, partecipano a tavole rotonde e presentazioni non solo nella loro città, ma anche a Kyiv o Černihiv; sono inoltre coinvolti nei progetti delle organizzazioni senza scopo di lucro ucraine International Renaissance Foundation e Ukrainian Helsinki Human Rights Union. Nel 2016, inoltre, undici attivisti rom sono diventati membri proprio di quest’ultima ONG.
«Come volontari collaborano nel distribuire aiuti umanitari, e non solo ai rom. Abbiamo creato l’ensemble chiamato Rom di Csenger, e un gruppo artistico giovanile rom, Červona trojanda (Rosa rossa). Sono convinta che l’arretratezza a livello sociale non sia colpa dei bambini o dei genitori. Per rompere questo circolo vizioso è necessario aiutare le nuove generazioni. Ho cercato di fare in modo che la comunità locale prestasse attenzione ai problemi dei rom. Oggi abbiamo anche dei rom che frequentano la chiesa e sono persone molto generose».
[…]
Fuori dal tempo
Visitando una casa rom dopo l’altra mi sembra ogni volta di entrare in un territorio incontaminato. Se non fosse stato per la compagnia del mio fotografo e la guida preziosa di Ol’ha Petrivna, probabilmente avrei avuto paura anche io: forse mi sarei tenuta ben più stretta la telecamera, avrei nascosto i soldi nelle tasche interne e mi sarei guardata intorno ogni due per tre per vedere se qualcuno mi stava seguendo; e forse avrei avuto paura a fissarli negli occhi perché, d’altronde, lo sanno tutti: “Non guardarli mai dritto negli occhi”.
«Dobbiamo smetterla di aver paura» dice Ol’ha. «Dobbiamo accettarli ed entrare in contatto con loro». Ed è proprio vero. Come può una comunità integrarsi in una società se si reagisce: a) con paura, b) con disprezzo, c) con odio? La vita di queste persone, come su un’isola deserta, si svolge fuori dal tempo.
Fino a pochi anni fa non si trovavano orologi nelle case dei rom perché non c’erano riunioni di lavoro, né questioni urgenti, né scadenze da rispettare. Quando i bambini non andavano a scuola, non c’era nemmeno bisogno di svegliarsi presto. Ora la sveglia è alle sette in punto perché alle sette e mezza bisogna essere in classe.
«Io devo svegliarmi ancora prima per accendere la stufa» ci confessa Kristina Hordijenko, leader della comunità rom. «Non c’è sempre legna da ardere. Le miniere sono state chiuse e non c’è carbone. Come si fa allora a riscaldare la casa? E come si fa a preparare un bambino per la scuola?».
Da tre anni c’è un orologio appeso alla parete, nell’abitazione di Kristina. Fa tic-tac insidiosamente, arrancando. L’intera famiglia si è riunita a casa della solista dell’ensemble Rom di Csenger. Sonja, Ljalja, Šura, Tanja, Zarina, come se si stessero scaldando l’una con l’altra, si siedono tutte vicine; accanto a loro c’è Julija, che possiede l’unico cavallo dell’accampamento che porta il nome di Tatarka.
«La cosa più importante che abbiamo capito» continua Kristina «è che c’è di più nella vita, oltre le nostre case. Abbiamo cominciato a renderci utili nella comunità, anche durante la guerra. Le nostre famiglie sono numerose, hanno molti figli, e la vendita di noci non permette di guadagnare abbastanza, inoltre gli assegni familiari sono spesso in ritardo di sei mesi: come campare, come cavarsela? Io un modo l’ho trovato: ci siamo offerti di pulire la città dalla spazzatura e le autorità ci hanno pagato con pacchi umanitari di prodotti alimentari. Ol’ha dice che la città è diventata pulitissima».
«Prima mi cacciavano dagli uffici degli enti pubblici» confessa Kristina. «Non si concludeva nulla, non mi rispondevano nemmeno. Ora tutto è cambiato in meglio. Se vedo che i funzionari non vogliono fare qualcosa secondo la legge, dico: “Adesso chiamo Ol’ha Petrivna”. E subito si trova una soluzione». La donna ride.
«Ora i bambini hanno la priorità. C’è povertà, ma guardate, c’è ordine ovunque».
Anche se è evidente che in casa manchino parecchie cose, sul pavimento i tappeti sono puliti e le tende alle finestre sono di organza, nuove di zecca. Qui abitano tre bambini, ma dopo i bombardamenti pure un fratello disabile si è trasferito dalla regione di Luhans’k. Il mobilio è composto solo da una sedia, un divano e un letto: qualcuno deve quindi dormire sulla sedia. In queste famiglie rom numerose non c’è la lavatrice, non ci sono né detersivi né soldi per i prodotti per la casa, tanto che a volte si è obbligati a scegliere: oggi compriamo il pane o il detersivo?
Grazie a Ol’ha Petrivna non ci sono più rom senza documenti, al campo, e le madri di queste famiglie numerose ricevono incentivi e sussidi sociali. L’attivista è riuscita anche a trovare una cerchia di persone che si è offerta di aiutare. Da poco i rom hanno la possibilità di sottoporsi a visite mediche, quattro di loro hanno già ottenuto la cittadinanza ucraina e oramai i gruppi di artisti rom sono autorizzati a organizzare eventi culturali; inoltre, circa centotrenta famiglie hanno ricevuto venti polli a testa e il denaro necessario per allevarli.
La bontà viene ripagata, aggiunge Ol’ha: «Quando mi sono ammalata, le ragazze rom sono venute a trovarmi a casa per darmi una mano: hanno lavato il pavimento e pulito le stanze; sugli scaffali della mia cucina le pentole brillavano come nuove da negozio. Mi sono commossa perché per me è questo il valore dell’amicizia».
Per una vita dignitosa
«La svolta è arrivata quando abbiamo organizzato la celebrazione “La felicità nei bambini” in occasione della festa delle mamme rom. Abbiamo fatto gli auguri a tutte le madri, ricoprendole di parole gentili, parole di onore e rispetto; le abbiamo ringraziate per essere delle eroine per i loro figli, e perché gli augurano sempre la felicità, augurio che si trasforma in una responsabilità costante per il futuro. Quando, infine, abbiamo regalato a queste mamme dei fiori, sono scoppiate tutte a piangere perché era la prima volta nella vita che qualcuno pensava a loro» ricorda l’attivista per i diritti umani.
«Il mio sogno dal 2013 è avere cinque rappresentanti rom al parlamento ucraino» condivide Ol’ha. «Quando mi chiedono perché proprio i rom, rispondo sempre che sono quattro volte più intelligenti degli altri popoli. Lo affermano gli scienziati, o forse è quello che vorrei che dicessero…» ride. «In cinque anni ne abbiamo passate di tutti i colori, sia cose belle che meno belle. Lesja, non puoi scrivere tutto, ma scrivi che noi viviamo in prima linea: non per la guerra, ma per una vita dignitosa nella nostra terra natale ucraina, dopo la vittoria».
A casa di Kristina le ragazze ci raccontano ogni sorta di cose: della tradizione rom di rapire le spose prima del matrimonio o di come la vergogna più grande nell’accampamento sia una treccia tagliata.
«E il barone? Avete un barone?» chiedo. «Barone? Il barone è Ol’ha Petrivna!»