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La messa in discussione dell’ordine geopolitico nato dal crollo del blocco comunista in Europa è una realtà di fatto dopo l’invasione russa dell’Ucraina del febbraio 2022. L’aggressività russa suscita timori per i paesi di eredità sovietica “contesi”, Moldova e Georgia in primis. Ma le speculazioni di una escalation politica o addirittura militare dei conflitti irrisolti riguardano anche lo spazio balcanico.
La questione del nazionalismo serbo nei Balcani non ha mai smesso di esistere, ma oggi trova linfa vitale nel clima di polarizzazione tra l’asse euro-atlantico e quello variamente russofilo che permea lo scontro politico in tutto il continente, e ancora di più nelle zone di confine tra quelli che possiamo ricominciare a chiamare i due blocchi: i paesi cosiddetti “in transizione” verso la democrazia e l’economia di mercato.
La faglia bosniaca
Lo spettro nazionalista della Grande Serbia viene agitato in particolare da Milorad Dodik, Presidente della Republika Srpska (RS, lett. “Repubblica serba”), una delle due entità che compongono la Bosnia ed Erzegovina. La RS nasce nel 1995 dagli accordi di Dayton, il processo negoziale che pose fine alla sanguinosa guerra civile che dilaniò il paese e che lasciò in eredità l’attuale complessa architettura istituzionale della Bosnia ed Erzegovina.
Dodik è al potere ininterrottamente dal 2006, come primo ministro della RS (2006-2010), poi come presidente della RS (2010-2014), come membro serbo della presidenza tripartita di Bosnia ed Erzegovina (2018-2022) e oggi nuovamente alla presidenza della RS, e porta avanti da tempo un’agenda più o meno apertamente secessionista, con il sostegno di Mosca e il supporto cauto di Belgrado.
Nella speranza di cavalcare l’onda di un successo russo in Ucraina per revisionare l’ordine regionale nei Balcani, Dodik ha ulteriormente alzato il tiro delle provocazioni a partire da novembre 2023, quando ha esplicitamente invocato una sorta di riunificazione dei popoli serbi di Bosnia ed Erzegovina, Kosovo e Montenegro in un unico stato serbo. Nei mesi successivi le minacce del leader serbo-bosniaco si sono sprecate e hanno conosciuto un momento di particolare intensità in reazione alla Risoluzione Onu presentata da Germania e Rwanda volta a istituire l’11 luglio come giornata del ricordo del genocidio di Srebrenica.
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La leadership politica di Belgrado e Banja Luka (il capoluogo della RS) ha fatto risuonare i campanelli d’allarme e gridato allo scandalo davanti al tentativo di apporre lo stigma di “nazione genocida” al popolo serbo, proprio come era accaduto nel 2015 di fronte a una proposta simile presentata alle Nazioni Unite da Londra. Dodik ha minacciato un “ritiro dal processo decisionale della Bosnia ed Erzegovina”, con Belgrado che gli ha fatto eco nelle parole di Ana Brnabić, speaker del parlamento serbo e tre volte prima ministra del governo serbo: “Non dobbiamo pensarla allo stesso modo [governo serbo e RS] ma saremo sempre insieme. Più le cose si faranno difficili, più lo saremo”. In realtà il testo, anche a seguito di emendamenti proposti dal Montenegro, si limita a condannare il negazionismo del genocidio, sottolineando la non applicabilità del concetto di responsabilità collettiva di un crimine.
Giovedì 23 maggio 2024, nonostante le rinnovate minacce secessioniste da parte di Dodik e una massiccia campagna mediatica contro la proposta promossa su giornali e social media dal governo di Belgrado, l’Assemblea Generale dell’Onu ha approvato la risoluzione con 84 voti a favore e 19 contrari, tra cui, oltre alla Serbia, Ungheria e la Federazione Russa.
La RS conta oggi 1 milione e 120mila abitanti. L’ultimo censimento ufficiale disponibile, risalente al 2013, racconta che più di 970 mila abitanti della RS si dichiarano di etnia serba (ufficio statistico RS). Si tratta di circa il 30% della popolazione complessiva del paese, centinaia di migliaia di famiglie usate politicamente come un martello da politici nazionalisti che hanno interesse a mantenere alta la tensione per capitalizzare consenso e mantenere il proprio feudo elettorale.
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Il Kosovo nel ciclone
Un quadro non dissimile riguarda i serbi residenti nel Kosovo del Nord. Circa 45mila serbi vivono nella municipalità di Nord Mitrovica, parte della città a nord del fiume Ibar, un numero che sale a 100-120mila includendo i distretti rurali di Leposavić, Zubin Potok e Zvečan. Il Kosovo ha dichiarato unilateralmente la propria indipendenza nel 2008, disconosciuto in Europa da Serbia, Russia e altri cinque Paesi (Spagna, Grecia, Slovacchia, Romania e Cipro).
Minoranza di fatto, i serbi del Kosovo vivono in un’entità amministrativa bicefala, dove le istituzioni kosovare e serbe coesistono di fatto senza riconoscersi reciprocamente. Scuole e ospedali sono integrati nel sistema serbo, ma la polizia è controllata da Pristina, specie dopo la defezione dei serbi dalle forze dell’ordine kosovare avvenuta nel 2022.
Ogni tentativo da parte del governo centrale di uniformare le leggi del paese, limitando l’autonomia delle istituzioni serbo-kosovare, si trasforma quindi in uno scontro politico con Belgrado. Accadde nel 2021, quando la decisione di Pristina di non permettere la circolazione nel Paese di targhe serbe, in risposta a un provvedimento speculare di Belgrado, ha dato il via a una escalation politica e militare tra il governo del Kosovo e i serbi del Nord. Nei due anni successivi si sono susseguiti scontri tra popolazione serba e forze dell’ordine kosovare, che hanno coinvolto persino le forze di peacekeeping Nato (Kfor) stanziate nella regione.
L’episodio più grave è avvenuto nel settembre 2023, quando nei pressi di Banjska (Zvečan) uno scontro a fuoco tra paramilitari serbi e polizia kosovara ha provocato quattro morti in totale. Nella stessa direzione va la decisione di febbraio 2024 della Banca centrale di Pristina di vietare in tutto il paese i pagamenti in dinari, valuta serba con cui molte famiglie residenti nel Nord del Kosovo ricevono stipendi o pensioni attraverso banche e previdenza sociale serbe.
Quella del Kosovo è la più critica tra le tre faglie su cui si sviluppa oggi la questione della “grande Serbia” (Kosovo, Republika Srpska e Montenegro). Sicuramente è la più aperta dal punto di vista geopolitico, come emerge dalla recente discussione circa l’ingresso del Kosovo nel Consiglio d’Europa (CoE). A fine marzo, infatti, la Commissione Politica e Democrazia dell’assemblea parlamentare in seno al CoE ha raccomandato di estendere al Kosovo la giurisdizione del Consiglio, la più grande organizzazione per i diritti umani d’Europa, e di conseguenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo.
Il governo di Belgrado ha risposto con durezza a questo ulteriore riconoscimento: il presidente serbo Vučić, seguito da Brnabić, ha minacciato un’uscita della Serbia dal Consiglio. Due settimane dopo, l’assemblea parlamentare del CoE ha approvato la mozione di ingresso del Kosovo con 131 voti a favore, 29 contrari e 11 astensioni. Una rappresentante della Serbia ha concluso il proprio intervento dichiarando che “il Kosovo era, è e sarà sempre Serbia. Questa è la volontà del popolo serbo”.
In qualche modo Dunja Simonović Bratić ha avuto ragione, dal momento che in vista del voto definitivo, affidato ai ministri degli Esteri dei paesi membri, le possibilità di un successo di Pristina appaiono risibili. I governi di Francia, Germania e Italia hanno infatti raffreddato gli entusiasmi ponendo come condizione per l’ingresso di Pristina nel CoE dei “passi concreti” verso la costituzione di una “Associazione delle Municipalità Serbe” (Asmm). La Asmm è al centro dei negoziati mediati da Unione Europea tra Kosovo e Serbia in vista di una futura integrazione, ed è generalmente malvista da Pristina che teme il costituirsi di una Republika Srpska in casa.
Crisi evitata, quindi. Senza entrare nel merito degli sforzi necessari da entrambe le parti per la normalizzazione delle relazioni tra Serbia e Kosovo, è inevitabile registrare una vittoria di Belgrado, in uno schema talmente chiaro da spiegarsi da solo: minaccio 100, per ottenere 10.
Stato di allarme?
Impennate nel livello di tensione politica non sono inedite nei Balcani. Nel caso della Bosnia, gli eccessi verbali da parte di Milorad Dodik sono di fatto una modalità istituzionalizzata di parlare alla propria base etnica/elettorale, coordinata soprattutto con il leader croato-bosniaco Dragan Čović. In Serbia, lo spettro irredentista in Kosovo viene sventolato da Vučić per mobilitare un consenso in cui si iniziano a intravedere alcune crepe, come dimostrato dalle proteste di dicembre a seguito della sua poco trasparente vittoria elettorale. Tenere la questione irrisolta, poi, serve a Belgrado come grimaldello per tenere aperte le porte verso l’Ue senza sacrificare la relazione privilegiata con Mosca e Pechino.
Lo status quo conviene quindi a tutti i leader serbi nella regione, con l’eccezione forse delle formazioni politiche filo-serbe in Montenegro che devono riguadagnare uno spazio politico da cui sono state escluse per vent’anni. Ci sono però due fattori da tenere in considerazione. Che la retorica strumentale di certi politici senza scrupoli possa avere degli effetti perversi è fatto noto. Generalmente, il risultato di aizzare il fuoco dell’etnonazionalismo è che ci sarà sempre qualcuno disposto ad andare un passo più in là.
È già successo in Serbia. Inoltre, in particolare i serbi del Nord Kosovo, vivono di fatto una privazione dei propri diritti, in balia di uno scontro politico in cui chi li dovrebbe tutelare, cioè i partiti filo-serbi e il governo di Belgrado, sacrifica il loro benessere per ottenere credito politico. Per usare le parole di una ragazza serba intervistata dalla BBC: “noi non siamo nemmeno pesci piccoli, siamo plancton”.
L’altro fattore è Vladimir Putin. Una destabilizzazione dell’area balcanica andrebbe relativamente a vantaggio di Mosca, che darebbe del filo da torcere all’Unione Europea senza aprire una seconda crisi vicino ai propri confini. Le relazioni di Putin con Dodik e Vučić sono forti, ma non solo: i movimenti ultra-nazionalisti di cui sopra si rifanno direttamente a Mosca, con cui hanno talvolta legami diretti. Inoltre, è ampiamente dimostrata l’influenza del Cremlino nel sistema mediatico dei Balcani, in particolare in Serbia.
In questo contesto, Aleksander Vučić, Milorad Dodik e il patriarca della Chiesa Ortodossa Serba Porfirije hanno chiamato un’assemblea dove annunciare “importanti decisioni sulla sopravvivenza del popolo serbo”. Inizialmente prevista per domenica 5 maggio, in occasione della Pasqua ortodossa, poi rimandata a dopo il voto Onu su Srebrenica, l’assemblea è stata descritta da alcuni commentatori come un Gazimestan depotenziato, in riferimento al grande evento propagandistico tenuto da Slobodan Milošević nel 1989.
Se da una parte la comunità internazionale ha smussato uno dei due temi più caldi, quello del Kosovo nel Consiglio d’Europa, il voto del 23 maggio a New York ha naturalmente gettato benzina sul fuoco della la retorica incendiaria di Dodik, che tra un annuncio di secessione e l’altro ha però rassicurato che intende presentarsi alle prossime elezioni amministrative in RS regolate dalla commissione elettorale centrale del paese.
In definitiva, aspettiamo che la crisi passi, per prepararci alla prossima. Con solo una certezza: che per chi fa della crisi la ragione della propria esistenza politica, nessuna condizione sarà mai sufficiente per spegnerla.
*Laureato in Sviluppo Locale e Globale all’Alma Mater di Bologna, coltiva negli anni la passione per le periferie globali, con lo sguardo sempre rivolto ad Est. Coordinatore del desk Caucaso presso Osservatorio Russia, oggi risiede in Montenegro, dove lavora in progetti di cooperazione internazionale con la Croce Rossa Italiana