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La crisi abitativa degli sfollati dell’Abcasia

Sin dall’inizio dell’invasione russa su larga scala dell’Ucraina, migliaia di russi e ucraini si sono trasferiti in Georgia. La pessima gestione dell’ondata di rifugiati da parte del governo di Tbilisi ha riportato alla luce la questione ancora aperta degli esuli dall’Abcasia. Inoltre, ha contribuito alla riscoperta della storia di quegli edifici scomparsi, o sul punto di scomparire, in cui da decenni gli sfollati dell’Abcasia sono costretti a vivere in condizioni aberranti.

Edifici fatiscenti e false promesse

L’Abcasia è la regione più a nord-ovest della Georgia, confinante con le province russe di
Krasnodar e Karačaj-Circassia. Nel 1992 la proclamazione della sua indipendenza portò allo scoppio di una guerra sanguinosa: lo scontro tra le forze separatiste di Sukhumi, supportate dall’esercito russo, e i georgiani provocò numerosi massacri. Il conflitto si concluse nel 1993 con l’esodo di più di 250mila georgiani. Nel tempo, l’Osce ha riconosciuto sia le violenze che l’emigrazione forzata come atti di pulizia etnica, mentre la Georgia sostiene che si sia trattato di un genocidio vero e proprio.

Leggi anche: Una lingua caucasica poco conosciuta: l’abcaso

Tale guerra è una ferita talmente profonda nella memoria storica del paese che ogni anno, il
giorno dell’anniversario della caduta di Sukhumi, il 27 settembre, vengono organizzate delle
manifestazioni. Nel 2023, in occasione dei trent’anni della ricorrenza, gli organizzatori (tra cui i
principali rappresentanti dell’opposizione al partito di maggioranza, Sogno Georgiano) hanno
innalzato
davanti al parlamento di Tbilisi cartelloni con la descrizione dei crimini dei generali
russi durante il conflitto in Abcasia; alcuni di questi ufficiali, tra l’altro, ora combattono per
Putin in Ucraina.

In seguito, hanno proiettato un breve documentario sui massacri e sulle testimonianze delle persone sopravvissute, mentre rappresentanti tra gli esuli sventolavano l’antica bandiera georgiana con questo slogan:

La riconciliazione inizia con la verità: per il riconoscimento del genocidio dei georgiani in
Abcasia

sfollati dell’Abcasia
Manifestanti sventolano l’antica bandiera della Georgia in occasione
dell’anniversario della caduta di Sukhumi (Meridiano 13/Sofia Mischi)

A differenza dei rifugiati, di cui si occupa la comunità internazionale, la responsabilità per gli
sfollati interni spetta ai loro governi. Nel 1993, la Georgia era indipendente da soli due
anni e aveva risorse molto limitate. Per cui, quando centinaia di migliaia di persone si
ritrovarono improvvisamente senza casa, il governo offrì loro rifugio in hotel, sanatori e
studentati sovietici, sia funzionanti che abbandonati.

Alcuni furono ospitati a Zugdidi, in un sito industriale dismesso, altri nel complesso di sanatori a Tsqaltubo, vicino a Kutaisi. A molti venne dato rifugio a Tbilisi, negli hotel Kartli, vicino al “mare di Tbilisi”, e Iveria, in centro città. Questa decisione si basava sull’idea che la loro permanenza sarebbe stata temporanea, e che l’Abcasia sarebbe ritornata presto sotto il controllo georgiano. Così non accadde. Nonostante ciò, per anni il governo georgiano alimentò le speranze dei profughi, concentrando la discussione politica sulla rivendicazione dei territori persi nel conflitto, invece che sull’elaborazione di politiche di integrazione degli esuli nella società georgiana.

La convinzione, supportata anche dal governo abcaso in esilio, era che agire sulla loro inclusione sarebbe stato come ammettere che l’Abcasia fosse perduta per sempre. Nel mentre, gli sfollati che non avevano parenti o conoscenti a cui appoggiarsi furono costretti a vivere nei loro alloggi temporanei, ormai in sfacelo, praticamente privi di supporto economico da parte dello stato. I profughi inoltre ricevevano in media solo una somma irrisoria di 17 lari (neanche sei euro) al mese.

Il progetto “Rifugiati nel loro stesso paese” descrive bene le condizioni degli esuli in una serie di
interviste: per esempio, Veriko Ekhvaia racconta di come al suo arrivo, negli stabili abbandonati
di Zugdidi, non ci fossero nemmeno le finestre. Negli anni, la sua famiglia è riuscita a costruirsi
un appartamento vivibile, ma la loro condizione è rimasta sempre in bilico e senza prospettive,
vicini al confine che ricordava loro la guerra e la casa perduta.

A Tsqaltubo, invece, i rifugiati erano stati inizialmente ospitati in sanatori ancora funzionanti, che ben presto furono però lasciati a se stessi; nonostante ciò, gli abitanti continuarono a utilizzare gli edifici.

Anche a Tbilisi, gli sfollati si ritrovarono in condizioni aberranti: nel Kartli, addirittura, negli anni si è aperta una crepa talmente grande che è stato soprannominato “Titanic”. Il divario sociale tra i nativi della città e i georgiani d’Abcasia crebbero a tal punto che i profughi furono esclusi dalla vita comunitaria, “nonostante osservassero le tradizioni e la religione di ogni altro georgiano”, e l’etichetta di “sfollato” divenne ben presto talmente carica di pregiudizi, che le persone cominciarono a rinunciare ai pochi privilegi loro dati dallo stato (come non pagare la retta del
bus), per non essere considerati cittadini di seconda classe.

Una tenda nuova in un edificio fatiscente di Tsqaltubo (Meridiano 13/Sofia Mischi)

Il caso Iveria, in breve

L’Iveria, soprannominato “campo profughi verticale”, è un luogo unico nel suo genere e merita
un approfondimento. Dal momento che solitamente i luoghi d’accoglienza per gli sfollati si
trovano in periferia, è quantomeno inusuale la posizione dell’hotel nella piazza più importante
della città, quella della Repubblica. All’inizio degli anni Duemila, molti ricercatori stranieri si
sono interrogati sul valore simbolico della sua presenza, dal momento che l’edificio metteva in
bella mostra le difficoltà dello stato nella gestione degli sfollati.

Dopo la Rivoluzione delle Rose del 2003 e la caduta di Eduard Shevarnadze, gli sfollati
speravano che il nuovo presidente, Mikheil Saakashvili, si prodigasse per migliorare finalmente
le loro condizioni di vita. Invece, la situazione non è cambiata. Nel 2004 fu indetta a
sorpresa un’ingiunzione di sfratto per tutti i residenti dell’Hotel Iveria. Lo stabile, infatti, era stato
venduto qualche anno prima a dei privati, il Silk Road Group, per ristrutturarlo come hotel di lusso.

Secondo il governo georgiano, tale operazione avrebbe ricostruito l’immagine del centro
città. Inoltre, il gruppo di investitori si era reso disponibile per ricompensare adeguatamente gli
sfollati sfrattati, cosa che sarebbe stata impossibile per le casse dello stato. In cambio, Saakashvili
offrì supporto per “problemi tecnici” quali la schedatura degli sfollati, l’inventario dei beni e
l’intervento della polizia. Naturalmente, la reazione degli abitanti dell’Iveria fu di grande shock e
rassegnazione:

Né il governo della città né quello abcaso si sono mai ricordati di noi per dodici anni. Ora,
invece, si sono fatti vivi per registrarci nel mezzo della notte, per trovare tutti. Me ne andrò di
sicuro. Preferirei vivere ovunque, tranne che qui.

Lo sfratto dall’Iveria ci renderà di nuovo degli sfollati. È un’umiliazione continua.


In pochi mesi, lo sgombero fu completato e l’hotel fu demolito: nel 2008, ha riaperto come un
Radisson di lusso. E degli sfollati si è persa notizia. Di recente, sullo sfondo della guerra in
Ucraina e del suo impatto sulla Georgia, la storia dell’edificio ha assunto una nuova rilevanza,
come simbolo del dialogo incompiuto tra lo stato e il popolo, e delle fallacie del sistema abitativo
georgiano.

L’Hotel Iveria negli anni Novanta (origins.osu.edu)

Solo nel 2007 il governo georgiano ha approvato una strategia completa di aiuti per
incrementare la qualità di vita dei rifugiati. Il programma di riforme si concentrava sulla
risoluzione del grave tasso di disoccupazione degli esuli e sulla loro crisi abitativa. La strategia
prevedeva lo spostamento graduale degli sfollati in nuove costruzioni e, successivamente, la
riqualifica degli edifici fatiscenti.

Tuttavia, le misure adottate dal governo risultarono presto inadeguate quando il conflitto del 2008 con l’Abcasia e l’Ossezia del Sud, sempre appoggiate dalla forza militare russa, causò una nuova ondata di sfollati interni. Se a molti esuli degli anni Novanta (“i vecchi sfollati”) le nuove ostilità confermarono il loro status a lungo termine, per i nuovi profughi fu difficile accettare la loro condizione, per cui ancora oggi incolpano sia il governo georgiano, che il regime russo.

A Tsqaltubo, per esempio, un’anziana signora di nome Tanja guida i turisti per le rovine del sanatorio Metallurgist, dove vive con altre famiglie, e molto spesso impreca contro Putin, sputando per terra con disprezzo.

sfollati dell’Abcasia
Tanja mostra il sanatorio Metallurgist a Tsqaltubo (Meridiano 13/Sofia Mischi)


A seguito del conflitto del 2008, il governo georgiano ha infine stabilito nel 2013 una graduatoria per l’assegnazione di nuovi alloggi, in base al reddito di ogni famiglia e alle condizioni di vita nella residenza attuale, oltre che alla presenza di pensionati, veterani, disabili o deceduti durante i due conflitti. Ancora una volta, però, i provvedimenti sono risultati inefficaci, e troppe poche famiglie all’anno ricevono i documenti necessari per trasferirsi.

Tra gli sfollati la disillusione nei confronti del governo è cresciuta sempre di più, tanto che l’opinione comune è che i partiti strumentalizzino le condizioni degli esuli per ricevere voti in campagna elettorale. Sul sito Fact check della Georgia si possono trovare analisi precise sulle promesse non mantenute dagli esponenti politici e in particolar modo da Sogno georgiano, partito di maggioranza dal 2012.

Nel 2019, l’Associazione dei giovani avvocati georgiani (GYLA) ha rilevato che per il 74% degli sfollati ancora nei rifugi le condizioni di vita sono ancora difficili e servizi essenziali come le strutture mediche e i trasporti sono inaccessibili. Un rapporto del Centro di monitoraggio degli sfollati interni del 2020 ha invece dimostrato come, ancora una volta, gli sfollati siano lasciati all’oscuro di come vengano prese le decisioni dai vertici istituzionali.

Nonostante il governo abbia effettivamente fornito dimore ai profughi, le proteste degli esclusi
sono diventate, di anno in anno, sempre più estreme: nel 2017, numerose persone a Zugdidi
hanno iniziato uno sciopero della fame. Una donna, Dali Shonia, si è addirittura cucita la bocca,
affermando che se la sarebbe scucita se le avessero dato un appartamento. Dopo anni di
manifestazioni a vuoto, nel 2021 il cinquantaduenne Zurab Chichoshvili si è suicidato per
portare l’attenzione della società civile sulle condizioni del Kartli, che già nel 2015 era stato
dichiarato pericoloso per vivere.

“Stava lottando per avere una casa”, ha detto un vicino. “Sua figlia stava per venire a trovarlo,
e avete visto la stanza. Come si può vivere in un posto del genere?”

Due registi, Tamar Kalandadze e Julien Pebrel, stanno producendo un documentario su questa
vicenda e le condizioni degli edifici e degli sfollati. Nel 2022, è invece uscito un breve
documentario, Tsqaltubo di Toby Andris, in cui si racconta di una coppia a cui viene assegnato
un appartamento, improvvisamente negato ancor prima che i due inizino a fare le valigie. Viene
sollevato anche il tema di cosa sia ‘casa’, cioè la comunità di sfollati e amici più che il sanatorio o
la Georgia.

Il (non) futuro degli sfollati dell’Abcasia


La drammatica vicenda dei profughi, quindi, si collega strettamente con l’annosa questione degli
edifici, endemica in Georgia: vi è infatti il rischio che anche le costruzioni con un certo valore
storico scompaiano, una volta trasferiti tutti gli sfollati. Nonostante vi siano progetti di
riqualificazione di alcuni stabili ora occupati, in Georgia purtroppo nulla è regolamentato.

A Tsqaltubo, ad esempio, solo due sanatori monumentali sono stati trasformati, ma in resort di
lusso; quelli lasciati allo sfacelo, per ora, sono invece mete privilegiate per il turismo urbex
sull’architettura sovietica. Nonostante la questione dei territori contesi dell’Abcasia e l’Ossezia del Sud sia sempre centrale nel discorso pubblico, i rifugiati, abbandonati come i luoghi stessi che occupano, sono ad essi legati in modo indissolubile.

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Sofia Mischi
Sofia Mischi

Studentessa del master in East European and Eurasian studies (MIREES) presso l’università di Bologna. S’interessa della storia, politica e cultura dello spazio post-sovietico, specialmente nel Caucaso. Ha vissuto sei mesi a Tbilisi, e per un breve periodo a Mosca.