Scrittore, traduttore e accademico serbo di origine ebraica, David Albahari è mancato il 30 luglio 2023. Per ricordarlo, lo scrittore Božidar Stanišić ha tradotto per Meridiano 13 alcuni suoi racconti. Questo è Pettirossi, pubblicato nella raccolta La pellegrina e nuovi racconti (1997).
Anche oggi, a colazione, proprio come ieri, mio figlio di nove anni appoggia lentamente il panino nel piatto, gli occhi gli si chiudono, le labbra si stringono, le guance si gonfiano, e lui incomincia a piangere. Piange, mi ha detto ieri, perché la primavera, anche se marzo sta per finire, non è ancora arrivata. Ha paura, mi ha detto, che i cicli ecologici di cui studia a scuola verranno sconvolti, e che non ci sarà abbastanza erba per i conigli né abbastanza conigli per i coyote. Ha anche paura, mi ha detto, che questa primavera, sempre ammesso che arrivi la primavera, non sarà in grado di interrare i semi di girasole nel nostro cortile sul retro, annaffiarli e vederli spuntare dal terreno e crescere.
Cerco, come ho provato ieri, di calmarlo con storie sull’inevitabilità dei cambiamenti della natura, su come ogni cosa abbia il proprio tempo, così com’è scritto nei libri antichi. Gli dico che dovrà imparare molte cose nella vita, ma che la pazienza forse è la più importante di tutte. Chi non impara ad avere pazienza, dico, prima o poi si farà del male, poi con la propria temerarietà farà del male; e infine, con la sua impulsività, farà del male agli altri.
Il ragazzo mi guarda. Dai suoi occhi pieni di lacrime capisco che non mi crede. Nemmeno io credo a me stesso (come da ragazzo, quando non sempre mi fidavo di mio padre). L’inverno è davvero così lungo che si sta lentamente, ma senza alcun dubbio, trasformando nell’ “inverno della nostra insoddisfazione”. Alla neve, che lo scorso ottobre ci aveva dato tanta gioia, e che ci godevamo mentre scricchiolava sotto i nostri piedi, ora diamo la colpa per ogni fallimento, anche il più piccolo, soprattutto per quelli che attribuiamo alla “vita in un paese straniero”. In effetti daremmo qualsiasi cosa solo per veder spuntare il primo gambetto di bucaneve. Sempre che qui crescano e sappiano come orientarsi sotto gli strati di neve.
Forse per questo, dice mia moglie, a causa di quella bianchezza immutabile, tutti i nostri conoscenti dalla “patria” parlano costantemente di un ritorno. Quando li si ascolta, si potrebbe pensare che nel posto lontano da dove veniamo non faccia mai freddo, che non nevichi mai, che le strade non gelino mai sotto i colpi di piogge ghiacciate.
L’inverno laggiù non dura mai così a lungo, dice il ragazzo, ne sono certo. E la primavera sembra primavera, aggiungo. Non devi preoccuparti che se strizzi gli occhi o sbadigli, la perderai di vista.
Mia moglie smette di imburrare il pane tostato, guarda prima me, poi il ragazzo, e dice: Cos’è questo? Complotto maschile?
Il ragazzo non risponde. Perso tra due lingue, non è più sicuro di nessuna delle due. Si asciuga con il dorso della mano la lacrima rimasta e si porta il panino alla bocca.
Anch’io taccio, anche se non a causa della lingua. Taccio per le immagini che mi perseguitano, per la precisione con cui ora, da qualche parte dentro di me, vedo ogni momento della mia vita, per la comprensione di cui non ho più bisogno, per la determinazione che ormai non posso più raggiungere. Nostalgia è un sostantivo femminile, dice mia moglie, ricordatevelo.
Non so cosa ciò significhi per te, dice il ragazzo, ma so esattamente dove sono tutti i giocattoli che non abbiamo portato.
E io so dove sono i miei libri, aggiungo.
Mia moglie posa il pane e il coltello sul piatto. E ora dovrei dire, dice lei, che so dove sono i miei mestoli, non è vero?
Penso che siano rimasti in cucina a Zemun[1], risponde il ragazzo.
Se pronunci solo un’altra parola, dice mia moglie a denti stretti, vedrai che ne ho portati comunque alcuni.
Colui che fugge dalla verità, dico, in realtà ritorna alla verità.
Come fai a sapere questo, ribatte lei, sei diventato un saggio cinese?
Questa è l’area degli stregoni indiani, rispondo. Forse potrei trasformarmi in uno dei loro totem.
Vorrei essere una tartaruga, dice il ragazzo.
Vedi, mi dice mia moglie, a causa delle tue storie nostro figlio non vuole più essere un essere umano ma un rettile.
Le tartarughe sono anfibi, rispondo agguerrito.
Dopotutto, cosa c’è che non va nelle tartarughe? Una volta la gente pensava che il mondo intero si poggiasse sulle loro spalle. Conosco persino la storia di un naufrago che viaggiò sulla corazza di una tartaruga gigante per giorni, finché l’animale non lo portò sulla terraferma. Dopotutto, quando li tenevamo nell’acquario, tu le nutrivi, cambiavi loro l’acqua e pulivi il loro piccolo castello.
Perché nessuno di voi voleva farlo, dice mia moglie. Sì, risponde il ragazzo, ma quando eravamo in gita a Čortanovci[2] e quando ci siamo imbattuti in una tartaruga giù alla sorgente, tu l’hai tenuta tra le braccia per tutto il tempo e le sussurravi qualcosa all’orecchio.
L’ho fatto, dice mia moglie, solo perché quando hai voglia di sussurrare, allora devi sussurrare.
Poco importa di chi sia l’orecchio.
Il ragazzo e io ci scambiamo uno sguardo.
Suppongo che, come me, abbia un presentimento: che la storia dell’orecchio e del sussurro sia davvero rivolta a me, ma poiché a differenza di me non si è ancora impigliato nella rete dei significati impliciti, è libero di tornare alla sua colazione. Io, invece, non riuscendo a ricordare il momento in cui le labbra di mia moglie hanno toccato i lobi delle mie orecchie, spingo via il piatto di prosciutto e formaggio, e mi alzo.
Cosa c’è, chiede mia moglie, hai perso improvvisamente l’appetito?
Non l’ho perso, dico, mentre dalla finestra guardo gli spessi strati di neve e ghiaccio, ma darei comunque qualsiasi cosa per una sola brioche salata da quel fornaio al mercato.
E il burek, dice mia moglie, ti ricordi quando andavamo a prendere il burek la sera e lui imprecava mentre ce lo porgeva dalla finestrella sulla porta?
Ancora una volta il mondo si trasforma in un menù. Ogni volta che ci troviamo di fronte ai ricordi sembra che tutta la nostra vita sia costituita da ciò che ci è sprofondato nello stomaco. Non riusciamo più a ricordare tanti volti, la maggior parte dei luoghi sono sbiaditi come vecchie cartoline, eppure ricordiamo bene tutti i crauti con carne affumicata, gli arrosti di maiale, i burek, gli strudel di noci e di papavero.
E chissà per quanto ancora avremmo impastato quella massa di ricordi, se una coppia di pettirossi non fosse atterrata sul vecchio salice del cortile. Li mostro a mio figlio. Gli ricordo come la scorsa primavera ed estate, dopo ogni pioggia, cavavano spessi lombrichi dalla terra umida. Non verrebbero, gli dico, se non fossero sicuri che quegli stessi deliziosi bocconcini presto saranno lì ad aspettarli.
Il ragazzo per un attimo è soddisfatto. Poi torna serio. E se invece, chiede, si sbagliassero?
Lo consolo e dico che la natura non inganna mai. Gli prometto che, se l’inverno dura, compreremo vermi e lombrichi e daremo da mangiare ai pettirossi, proprio come con i granelli nutrivamo i passeri durante i mesi invernali.
Questo lo calma. Si mette il berretto in testa, si carica lo zaino in spalla e se ne va a scuola. Dalla finestra lo vedo fermarsi sotto il salice e guardare i pettirossi. Le sue labbra si muovono, dice loro qualcosa. Posso immaginare come li conforta ora, come si sente, come se fosse ancora una volta il padrone degli eventi nel mondo che lo circonda.
Un giorno dovrò dirgli che questo “inverno della nostra insoddisfazione” può durare molto più a lungo e che lo scioglimento della neve e del ghiaccio non deve segnarne la fine. L’amaro è un sapore che va sentito, non importa se uno vive ad Alberta o in Serbia. Ed è per questo che con voce alta vorrei invitarlo a continuare a imparare quel linguaggio non umano di animali e piante, a non cercare amici migliori. A differenza di noi, non sanno che esiste il bene e il male, la ricchezza e la perdita, il potere e la supremazia. Per loro l’inverno è solo un aspetto del mondo, uguale a tutti gli altri, e non c’è scienza migliore di quella, figliolo.
E, come se cogliesse i miei pensieri, si gira e mi saluta.
Traduzione dal serbo: Božidar Stanišić
[1] Zemun è la maggiore municipalità della città di Belgrado. Sorge alla confluenza del fiume Sava nel Danubio e ha una popolazione di circa 166 000 abitanti. (N.d.T.)
[2] Čortanovci è un insediamento in Serbia, nel comune di Inđija, nel distretto di Srem. (N.d.T.)
In ricordo di David Albahari, di Božidar Stanišić
David Albahari (1948 — 2023) è stato uno scrittore, traduttore e accademico serbo di origine ebraica. Ha scritto principalmente romanzi e racconti che sono spesso di carattere autobiografico. È stato un membro dell’Accademia delle arti e delle scienze serba (SANU).
Nasce il 15 marzo 1948 in una famiglia di origine ebraica a Peć. Studia letteratura e lingua inglese a Zagabria e pubblica la sua prima raccolta di racconti, Tempo di famiglia nel 1973. Diventa popolare con il suo quarto libro Descrizione della morte, per il quale ha ricevuto il Premio Andrić nel 1982.
Nel 1991 diventa presidente dell’Unione dei comuni ebraici della Jugoslavia e inizia a occuparsi anche dell’evacuazione della popolazione ebraica da Sarajevo. Nel 1994 si trasferisce con la famiglia a Calgary, in Canada, e torna in Serbia nel 2012.
Durante i suoi cinquant’anni di esistenza come letterato serbo ha ottenuto non solo il riconoscimento indiviso della critica, ma anche un numero piuttosto elevato di lettori. È un fenomeno interessante: tra i lettori in Serbia (come anche in ex Jugoslavia) è difficile trovare un lettore che non abbia un’opinione manifesta sull’opera di Albahari: da un lato, ci sono diversi estimatori della sua prosa, per i quali rappresenta un vero scrittore di culto, mentre dall’altro, c’è un gruppo un po’ più ristretto di lettori per i quali la marcata complessità delle sue opere creano una resistenza piuttosto forte.
Ha pubblicato dodici raccolte di racconti, tredici romanzi e tre libri di saggi, per i quali ha ottenuto diversi premi letterari.
Le opere di Albahari sono state tradotte in francese, tedesco, inglese, ebraico, polacco, italiano, macedone, sloveno, albanese, slovacco, ungherese e diverse altre lingue.
È mancato, dopo una lunga malattia, il 30 luglio 2023. Viene giustamente considerato uno dei Nobel mancati.
Opere di David Albahari tradotte in italiano:
La morte di Ruben Rubenović, introduzione di Milorad Pavić, traduzione di Silvio Ferrari, Hefti, Milano 1989.
Il buio, traduzione di Augusto Fonseca, Besa, Nardò 2006.
Goetz e Meyer, traduzione di Alice Parmeggiani, Einaudi, Torino 2006
L’esca, traduzione di Alice Parmeggiani, Zandonai, Rovereto 2008
Zink, traduzione di Alice Parmeggiani, Zandonai, Rovereto 2009
Ludwig, traduzione di Alice Parmeggiani, Zandonai, Rovereto 2010
Sanguisughe, traduzione di Alice Parmeggiani, Zandonai, Rovereto 2012