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Ironia e riferimenti al passato, tanto mitizzato e tanto temuto dell’Unione Sovietica ma non solo, spesso si mischiano quando si parla della repressione dei prigionieri politici nella Belarus’ di Aljaksandr Lukašenka.
C’è una barzelletta, rimaneggiata per diversi contesti e citata in una differente versione anche dal filosofo sloveno Slavoj Žižek, che narra della condizione delle carceri sovietiche, e in qualche modo della società tutta: prima di essere rinchiuso, un detenuto ha stabilito un codice per comunicare all’esterno attraverso le lettere spedite ai propri familiari; tutto quello che viene scritto con inchiostro blu è da intendersi come messaggio onesto e veritiero, mentre le parole vergate in inchiostro rosso sono da intendersi come interventi della censura dei secondini e non corrispondono dunque ai pensieri reali di chi si trova in cella; finalmente, arriva una prima missiva in blu che recita: “Qua in prigione va tutto bene, il cibo è fantastico e i letti e le stanze estremamente comodi. L’unico problema è che è impossibile trovare dell’inchiostro rosso”.
È quanto raccontano, ridendo con una punta di amarezza, alcune delle persone che hanno lasciato il paese e si impegnano a mantenere i contatti con chi invece ancora si trova nelle carceri bielorusse in seguito alle proteste di massa del 2020.
«La situazione sta peggiorando sempre di più, tanti detenuti muoiono nell’indifferenza internazionale», dice A. – membro del collettivo Solidarity Postcard Atelier, che si occupa di spedire lettere e cartoline di solidarietà a chi è in prigione per motivi politici. Studente universitario all’epoca delle manifestazioni, originario di una piccola città del sud-est del paese, ora è emigrato a Kaunas, in Lituania (sono oltre 60mila i cittadini bielorussi emigrati nella piccola repubblica baltica, un numero che è andato crescendo esponenzialmente dal 2023). «Sappiamo anche che una lettera non aiuterà di certo le persone a uscire di prigione, ma si tratta di un gesto piccolo e concreto, in un certo senso dovuto. Per chi è dentro è importante ricordarsi come è la vita fuori. Parliamo loro con un tono neutro di quali libri abbiamo letto ultimamente, di com’è il clima e l’atmosfera nelle città… scrivere di politica o chiedere informazioni specifiche non passerebbe la censura».
Al momento l’associazione per i diritti umani Viasna96 conteggia 1.386 prigionieri politici in Belarus’, fra i quali 166 individui di sesso femminile (se confrontati con il totale degli abitanti del paese siamo a 151 ogni milione, un numero estremamente più alto che in Urss, 12 ogni milione, o in Russia, 5 ogni milione). Nel corso degli anni, sono stati registrati oltre 4mila casi di questo genere e alle contestazioni di quattro anni fa (che hanno segnato un’esplosione di dissenso nei confronti di Lukašenka, al potere dal 1994, sorprendente e inaspettata per grado di partecipazione e diffusione) è seguito un aumento della repressione e delle violazioni dei diritti umani.
Non sono infrequenti le testimonianze di torture e pestaggi, molte persone vengono spostate in isolamento – condizione che ha inoltre delle conseguenze sulla loro cerchia di familiari e amici, morsi dal timore e dall’impossibilità di ottenere informazioni sui propri cari in carcere.
In generale, stando alle testimonianze di chi è passato attraverso la detenzione, parrebbe esistere anche una finalità “correttiva” del sistema di repressione, volta a scoraggiare le manifestazioni di dissenso e la contestazione del potere. Così scriveva il militante anarchico e politologo Mikałaj Dziadok, arrestato per la prima volta nel 2015 e ora nuovamente in cella, nel suo The Colors of the Parallel World, una raccolta di testi autopubblicati che costituiscono probabilmente l’unica descrizione organica dell’universo penitenziario nella Belarus’ post-indipendenza: «Il risultato sarà sempre il medesimo: una persona uscirà di prigione essendo diventata da cima a fondo una persona corrotta, priva di scrupoli e senza alcuna convinzione morale. Nella sua percezione del mondo i confini fra bene e male risulteranno sfumati. Tutto questo rappresenta il risultato del lavoro messo in atto dal cosiddetto “dipartimento operativo dell’istituzione penale”».
In misura più lieve, si tratta della stessa esperienza attraverso cui è passato anche A.: il suo “processo” è durato circa cinque minuti, ci dice, ed era finalizzato a fargli firmare un documento che attestava la sua volontà a non prendere più parte a nessuna protesta; così pure per le altre persone detenute con lui, che venivano ammassate in cella (“era agosto, il caldo e il sovraffollamento facevano sì che fosse difficile respirare”) e a cui veniva negata qualsiasi possibilità di comunicazione con l’esterno.
Per tanti, allora, l’unico esterno possibile diventa l’estero – in moltissimi casi la Polonia (paese che ospita la più grande diaspora bielorussa, fra le 100mila e le 150mila persone), o la Lituania e altri paesi dell’area baltica, ma anche l’Ucraina nonostante la guerra. Al punto che esistono effettivamente, pure a livello formale, due Belarus’: la dittatura di Lukašenka, che sembra sempre più integrarsi con la Russia di Putin, e il governo in esilio di Svjatlana Cichanoŭskaja, assieme a una società civile eterogenea e composita che o prova a cambiare lo stato di cose da lontano oppure cerca di lasciarsi tutto alle spalle e integrarsi in un’altra realtà.
«La condizione di emigrante comunque è uno stress in sé», afferma A. «In un certo senso, senza voler esagerare nulla, l’attività di scrittura delle lettere per i detenuti svolge a volte una funzione terapeutica. Il solo fatto di ritrovarsi fra membri della diaspora permette di aprirsi, di condividere paure e prospettive, insomma di confrontarsi. Ma non si tratta esclusivamente di persone bielorusse: organizziamo incontri aperti a tutta la comunità cittadina, fra cui ci sono anche ucraini e russi, per far meglio capire la nostra situazione».
Incontri con la diaspora bielorussa
All’incrocio di due vie del centro di Kaunas, giusto all’inizio delle salite che conducono all’iconica e peculiare Chiesa della Resurrezione – gargantuesco e svettante edificio in cemento armato, che venne trasformato in una stazione radio durante il periodo sovietico – il primo piano di una casupola in legno prende da circa otto anni il nome di “Emma”. È un piccolo centro sociale, ritrovo di un sindacato indipendente e di diversi attivisti della zona nonché provenienti da diverse diaspore come A., intitolato in onore di Emma Goldman, la rivoluzionaria e femminista russa naturalizzata statunitense che era nata appunto nell’ex-capitale della Lituania (allora una provincia dell’impero zarista). Forse è l’unico luogo della città dedicato a questa figura, dal momento che non ci sono strade monumenti o targhe che la ricordino (solo, qualche mese fa, un progetto artistico).
Memoria simbolica e interrogativi del presente ancora una volta si uniscono: per un’organizzazione indipendente a difesa dei diritti sul lavoro (attiva soprattutto con corrieri del cibo e professori) non è secondario richiamarsi a una tradizione socialista molto spesso dimenticata o stigmatizzata, che può essere rappresentata da Emma Goldman ma anche all’esperienza del sindacato ebraico del Bund (che a Kaunas tenne il suo terzo congresso), sia come rivendicazione di un’appartenenza ma pure come tentativo di rilettura e rivalutazione del recente passato del paese. Alcune delle contraddizioni attuali in termini di salari e sistema welfaristico, infatti, derivano dalle privatizzazioni di aziende e proprietà avvenute dopo la fine del regime comunista, così come dalla difficoltà di ricostruire capacità di mobilitazione sindacale nel mutato contesto degli anni Novanta e seguenti.
Ha scritto in un recente articolo Jurgis Valiukevičius, uno dei leader del sindacato: «Oggi tendiamo a dimenticarci che la promessa di indipendenza non coincideva con la promessa di un capitalismo sfrenato e di una transizione a un nuovo sistema economico. La privatizzazione delle aziende, la liberalizzazione dei prezzi e tutte le altre trasformazioni economiche sono comunque state segnate da conflitti, resistenze e, in ultima istanza, dalla sconfitta di lavoratori e lavoratrici». Sempre a Kaunas – città il cui sindaco Visvaldas Matijošaitis è proprietario di diverse compagnie, peraltro al centro dell’attenzione perché secondo alcune inchieste avrebbero continuato a commerciare verso la Russia anche dopo l’invasione dell’Ucraina, nonostante le sanzioni – ha avuto luogo per esempio uno sciopero particolarmente famoso e duro, presso la fabbrica Inkaras agli inizi degli anni Duemila.
Il senso primario della lotta degli attivisti bielorussi e delle attiviste bielorusse è chiaro, e viene a volte riassunto con un altro motto di spirito: «Ci sono stati più capi di stato bielorussi in Israele che in Belarus’», con riferimento ai numerosi politici dello stato ebraico originari dei territori dove ora sorge la piccola repubblica post-sovietica, retta invece praticamente sempre da un solo uomo dopo la sua indipendenza. Detto altrimenti:
è impossibile immaginare qualsiasi sviluppo alternativo nel paese se prima non finisce il regime di Lukašenka e non vengono ripristinate delle libere elezioni.
A riannodare il filo aneddotico della battuta, ci si imbatte in un’ulteriore suggestione simbolica: il percorso che ha condotto in Palestina una figura come Menachem Begin, per esempio, è partito proprio da una prigione “bielorussa”. Una targa in oro sulle mura del complesso carcerario Lukiškės di Vilnius, chiuso definitivamente nel 2019, ricorda ancora la detenzione dell’ex-primo ministro ed ex-ministro della difesa israeliano – avvenuta nel 1940 per mano sovietica, continuata durante l’occupazione nazista e infine terminata con l’accordo Sikorski-Majskij che liberò i prigionieri appartenenti all’armata polacca per la formazione di un nuovo battaglione da impiegare contro l’esercito hitleriano (battaglione dal quale appunto Begin disertò per proseguire il progetto sionista a cui aveva aderito fin da giovane).
L’edificio, dedalico e inquietante insieme di caseggiati, piazzali interni, segrete e fili spinati su cui si innalza anche la chiesa ortodossa di San Nicola, si trova a due passi da un’ansa verdeggiante del fiume Neris da un lato e dalla piazza centrale della capitale lituana dall’altro.
Pure in questo caso, di fronte al palazzo del governo, un’altra ex-prigione domina lo spazio: è la vecchia sede dei servizi segreti durante l’Unione Sovietica i cui detenuti, i dissidenti e i criminali di ieri, sono diventati gli eroi di oggi. Sulle grosse pietre che ne compongono la base architettonica sono incisi i nomi più importanti: l’indipendenza del paese assume la valenza di una fuoriuscita dal carcere (la famosa metafora della Russia, e poi dell’Urss, come “prigione delle nazioni”, o dei popoli, che oggi con l’invasione dell’Ucraina ha assunto nuovamente rilevanza), in una forma di nation-building che possiede dunque un’evidenza concreta oltre a quella più propriamente storico-discorsiva.
«Lukašenka ha imprigionato tutta la società», afferma, di metafora in metafora, Taciana Niadbaj – poetessa e presidente del PEN-Belarus’, l’associazione internazionale di sostegno agli scrittori e alle scrittrici, che è stata dichiarata illegale nel paese nel 2021 (e che è stata presieduta, fra gli altri, dalla premio Nobel Svjatlana Aleksievič). «Molte persone se ne sono andate, chi è rimasto ha molta paura e tutti sanno che sarebbe un suicidio scendere in strada a protestare. Non è proprio più possibile organizzare eventi o manifestazioni di massa, l’opposizione che è rimasta all’interno del paese è entrata quasi interamente in clandestinità».
Niadbaj, che aveva già subito un arresto nel 2006, vive oramai da dieci anni all’estero, principalmente in Polonia (dove si è trasferita la sede del PEN-Belarus’). Ma durante le proteste del 2020 – come diversi altri membri della diaspora – si è recata a Minsk per prendere parte a quello che sembrava essere l’occasione definitiva del cambiamento, il frutto di anni di lotta e impegno. «Quando la nostra organizzazione ha iniziato a operare negli anni Novanta subito ci siamo interessati alle condizioni dei diritti umani e dei diritti dei prigionieri politici», prosegue la presidente del PEN. «Ma l’intento più ampio era in un certo senso quello di “riparare la società” e fare in modo che si creassero le condizioni per un miglioramento generale del paese. Eravamo fiduciosi. Nel 1994 abbiamo avuto le nostre prime elezioni democratiche come paese indipendente. Poi, cosa è successo? Sono iniziate le falsificazioni e la repressione e, dal mio punto di vista, il dato di fondo è che in Belarus’ ha vinto il populismo perché non c’era sufficiente educazione presso la società, non c’era sufficiente pensiero critico, non c’era una vera diversità politica all’interno della classe dirigente».
Niadbaj pronuncia questa parole mentre la sua figura si riflette lievemente sui vetri dell’ipermoderna “corte” dell’hotel Mariott, sulla sponda opposta al centro storico di Vilnius. Un gioco di getti d’acqua e specchi, a pochi passi dalla desolazione del vecchio cimitero ebraico che ora è nient’altro che una spianata di cemento con qualche erbaccia, segnalato da modesti cartelli commemorativi che invitano al rispetto, alle cui spalle adombra il decrepito palazzo dello sport sovietico in stile brutalista. Nel nuovo edificio trova la propria sede il Centro per i diritti umani in Belarus’, una delle non poche istituzioni che fra la Lituania e la Polonia (ma anche Germania e altri paesi) servono da “basi” per l’opposizione all’estero.
A Vilnius, anche, l’Università European Humanities è in vivace luogo di accoglienza per molte persone che si trasferiscono dalla Belarus’. In un certo senso, complici i recenti avvenimenti che stanno portando in questo luogo non solo bielorussi ma anche ucraini e russi, è come se la capitale lituana stesse acquisendo nuovamente la sua identità “di frontiera”, che nel corso del tempo le ha fatto cambiare molti nomi e “reggenti”: Wilno in polacco, Wilna in tedesco, Vilné o Wilne in yiddish, Vilnius in russo e nella forma attuale.
Nel corso del tempo, corsi e ricorsi storici si moltiplicano. A Vilnius, per esempio, passò gli ultimi momenti della sua vita e morì fucilato lo scrittore e rivoluzionario Konstanty Kalinowski, che guidò la nota “insurrezione di gennaio” del 1863 contro le forze zariste e che è poi diventato un simbolo del nazionalismo bielorusso e di parte dell’opposizione a Lukašenka, tanto che il battaglione di bielorussi e bielorusse che combattono ora a fianco dell’Ucraina porta il suo nome.
Anche dalla Lituania alcuni dei membri della diaspora mantengono i contatti con chi si trova ad aiutare militarmente Kyiv, nella speranza esplicita che una sconfitta di Putin porti al cambiamento di regime pure a Minsk. Anzi, lo scorso novembre nella capitale ucraina si è svolta una conferenza organizzata dal battaglione Kalinowski che aveva l’intento di delineare il modo in cui potrebbe avvenire un tale cambio di regime.
L’Ucraina, per parte sua, mantiene un atteggiamento ambiguo e non ha ancora mostrato di riconoscere pienamente l’opposizione bielorussa all’estero (il primo incontro fra Zelens’kyj e Cichanoŭskaja è avvenuto solo a marzo dell’anno scorso) e non tutti vedono di buon occhio il legame politico che si sta creando fra il battaglione Kalinowski e il governo di Kyiv. Insomma, l’obiettivo comune è abbastanza condiviso ma le prospettive per il futuro restano oltremodo incerte.
In un saggio contenuto nell’ultimo numero cartaceo di New Eastern Europe, il politologo Pavel Usau spiega come in Belarus’ potrebbero darsi numerosi scenari di transizione del potere che non necessariamente sfocerebbero in una situazione democratica, bensì in una sorta di post-lukašismo: il consolidamento di un controllo esterno da parte della Russia; il trasferimento del potere a qualcuno dei successori politici di Lukašenka, come per esempio uno dei suoi figli; oppure la formazione di un governo di stampo oligarchico.
In questo senso, prosegue l’autore, «la prolungata e stabile esistenza del regime di Lukašenka avrà un impatto estremamente negativo (cosa che già si sta rendendo evidente) sulla natura del funzionamento delle strutture dell’opposizione che si trovano all’estero. Tali strutture, dall’Ufficio di Svjatlana Cichanoŭskaja, il Consiglio di Coordinamento dell’opposizione e il Gabinetto Unitario per la Transizione, sono stati creati fra il 2020 e il 2022 e nessuno di essi è pronto politicamente e finanziariamente per operare fuori dal paese sul lungo periodo. L’evidente dipendenza dal sostegno finanziario dei partner occidentali e la sfida per mantenere la propria integrità strutturale, già messa in discussione da conflitti interni, scandali e divisioni, influenzerà negativamente l’immagine dell’opposizione e il suo supporto presso la società bielorussa».
Chiaramente, l’invasione russa dell’Ucraina di due anni fa ha sparigliato le carte a livello globale, e in particolar modo per le nazioni che si trovano a stretto contatto sia geografico che politico con il conflitto. Nel caso della Belarus’, si è generata una sorta di ambiguità per cui il regime di Lukašenka è di fatto co-aggressore assieme all’esercito di Putin, ma non direttamente implicato nelle operazioni belliche.
L’opposizione all’estero e la popolazione bielorussa in generale hanno dunque acquisito uno status ambivalente, per cui sono percepite come alleati naturali nello sforzo di resistenza di Kyiv ma allo stesso tempo subiscono un certo stigma che li assimila ai russi o che comunque li ritiene anch’essi responsabili delle scelte di Lukašenka. «A livello personale, non ho mai sperimentato ostilità aperta da parte della società lituana», racconta M., sviluppatore disoftware e giornalista – che ha scelto Vilnius come luogo per sfuggire alla repressione, dopo aver passato parte del suo tempo anche in Ucraina. «Dal governo, però, arrivano segnali molto contrastanti: da un lato, si ribadisce che si sostiene la popolazione bielorussa nella sua lotta per la democrazia, ma dall’altro si rendono più difficili le procedure per il permesso di soggiorno, si controllano le frontiere e viene messa in campo una retorica fortemente securitaria. Addirittura è stato evocato lo spettro del litvinismo (una forma di irredentismo bielorusso che reclama dei diritti storici su alcune terre lituane, N.d.A.) come potenziale pericolo, nonostante si tratti di un’ideologia estremamente marginale presso la popolazione bielorussa. Insomma, sono sempre di più le persone che stanno rinunciando a stabilirsi qui e naturalizzarsi, perché non si sentono accolte e perché diventa sempre più difficile a livello burocratico».
La Lituania, la diaspora bielorussa e l’Europa
Fra Kaunas e Vilnius, per strada e nei locali, all’idioma autoctono si aggiunge una piccola babele di lingue slave che è la diretta conseguenza dei conflitti che si svolgono nell’area – lacerata fra la democrazia in guerra di Kyiv, l’autoritarismo espansivo di Mosca e il populismo repressivo di Minsk. È l’occasione per inaspettate collaborazioni e alleanze, per uno sforzo di comprensione reciproca, ma anche il segno, forse, di una crescente parcellizzazione e approfondimento delle diversità.
Dallo scorso marzo, in Lituania, è diventato Ministro della difesa nazionale Laurynas Kasčiūnas, un politico di estrema destra da anni al centro dell’attenzione per via delle sue visioni euroscettiche, in alcune occasioni addirittura antisemite e per i suoi collegamenti passati con le forze neonaziste tedesche di Alternative für Deutschland (di recente espulso dal gruppo politico europeo di Identità e democrazia). Fra i suoi provvedimenti, c’è stato quello di istituire dei gruppi di difesa paramilitare e civile (Komendantūros) a livello delle municipalità territoriali. In generale – anche come reazione alle numerose “provocazioni” messe in campo dalla Russia (negli ultimi tempi: i disturbi di segnali dei Gps dei voli sopra il territorio di Kaliningrad, il cambiamento improvviso dei confini marittimi nel Mar Baltico e la continua crisi dei rifugiati in transito dalla Bielorussia…) – sembra crescere la diffidenza e la chiusura, i confini vengono blindati.
Il “trauma demografico” delle piccole società baltiche si riattiva e si riaffaccia con maggior forza la questione di come preservare le proprie peculiarità identitarie (l’ipotesi di chiudere gradualmente le scuole russe, per esempio, è nuovamente presente nel dibattito parlamentare lituano).
Ma ancora tutto ciò non ha condotto a spaccature vere e proprie e la quotidianità, unita a un diffuso consenso sull’orientamento europeista e liberista del paese, pare smussare e livellare ogni tensione.
Il tempo, però, passa senza cambiamenti significativi e fra i membri della comunità bielorussa sono in pochi a essere ottimisti verso il futuro. «È proprio difficile immaginare un futuro», puntualizza A.
A volte, è facile sentirsi abbandonati: dopo la grande attenzione mediatica di quattro anni fa, le persone hanno continuato a essere arrestate e magari a morire in carcere nell’indifferenza generale. Ho l’impressione che in Europa non si comprenda il prezzo della propria libertà e della propria sicurezza. D’altra parte, noi bielorussi e i nostri rappresentanti politici non siamo forse in grado di spiegare bene quale sia il senso della nostra lotta e quali siano le dinamiche più importanti, dentro e fuori dal paese.
Intanto cresce il divario fra chi si trova all’estero e chi no. Scemano le possibilità di contatto e di collaborazione, al desiderio di cambiamento si sovrappongono difficoltà economiche, timori per i propri familiari, diffidenze reciproche. Opporsi alle incarcerazioni di massa per i bielorussi oggi significa anche fare i conti con se stessi e il proprio percorso, evadere il labirinto di prigioni personali.
giornalista pubblicista, collabora con diverse riviste e diversi siti on-line, occupandosi principalmente di quanto si muove a livello politico e sociale in area est-europea e anatolica. Ha scritto di proteste femministe in Polonia, dell’elezione del primo sindaco comunista eletto in Turchia, di compagnie teatrali clandestine in Bielorussia e di cosa vuol dire fare informazione indipendente in Transnistria.