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Sergio Tavčar ricorda Dražen Dalipagić

di Sergio Tavčar*

Purtroppo sabato scorso abbiamo avuto la bruttissima notizia della scomparsa di Dražen “Praja” Dalipagić e mi è stato chiesto da più parti di scrivere qualcosa per ricordare questo straordinario campione che, lo dico con orgoglio, è stato anche, posso dire, quasi un amico, tanto che un paio di anni fa, quando andai a Belgrado a presentare la traduzione in serbo del mio libro sul basket jugoslavo, volle essere presente anche se già all’epoca si parlava con preoccupazione del suo non proprio brillante stato di salute.

Il ricordo di Sergio Tavčar e… Boša Tanjević

Tantissime notizie e aneddoti su Praja che non conoscevo me li ha raccontati alla fine dello scorso anno Boša Tanjević quando siamo andati in macchina con Marko Ban (per chi non lo sapesse a suo tempo fortissima ala alta dello Jadran e poi anche in Serie A con Desio e Pistoia) a Nova Gorica per la giornata di chiusura dello straordinario torneo giovanile che ogni anno organizzano lì che vede protagonisti centinaia di giovanissimi cestisti, ragazzi e ragazze, che provengono da tutte le parti dell’ex Jugoslavia e del quale noi tre siamo regolari testimonial.

L’occasione per parlare tantissimo di Praja era stata data purtroppo dalla notizia che lo stesso Boša aveva ricevuto dai suoi amici belgradesi e che riportavano la ferale notizia che il cancro di cui era vittima aveva ormai avuto la meglio sulla sua fortissima tempra e che era solo questione di tempo su quando sarebbe venuta la notizia che abbiamo avuto sabato scorso. E dunque su molte cose che dirò, se non siete d’accordo o comunque commetto qualche errore fattuale o cronologico (non è facile seguire Boša quando parla in serbo-croato a mitraglia), rivolgetevi direttamente a lui alla prossima sconvenscion.

A proposito, inciso: sempre in quell’occasione Boša raccontò un divertente aneddoto che si riferiva al periodo in cui lui stesso era ammalato di cancro e che vorrei riferire perché mi sembra fantastico. Mentre era nella fase più acuta della terapia c’era una grande manifestazione cestistica e lui era ancora allenatore della Turchia. Chiese allora al suo terapista (un luminare di Sarajevo amico suo e tifoso di basket) se e per quanto avrebbe potuto interrompere i trattamenti per essere presente. La risposta fu fulminante:

Sì, puoi anche farlo, però ricordati sempre che hai quattro falli e giochi in trasferta!

Gli inizi della carriera di Dražen Dalipagić

Tornando a Praja il mio primo impatto che ebbi con lui ce l’ho ancora in mente in modo vivido, filmico quasi. Chi ha letto i miei libri saprà che la prima stagione di campionato della quale feci le classiche telecronache delle cinque del pomeriggio fu quella del 1971-72, poco più di mezzo anno dopo i miei esordi quale telecronista di hockey.

In estate si era parlato tantissimo sui giornali del caso di questo ragazzo ormai ventenne (età ormai più che matura per un giocatore di basket secondo i canoni jugoslavi dell’epoca) che dopo un’oscura carriera quale giocatore di una miriade di sport, principalmente calcio, aveva deciso a 18 anni di dedicarsi al basket nella sua natia Mostar nella locale Lokomotiva. 

Su di lui aveva messo gli occhi nientemeno che l’onnipotente Partizan, squadra in mano all’allora selezionatore della nazionale jugoslava Ranko Žeravica che voleva assolutamente, a tutti i costi, portare il giovanotto a Belgrado. Non solo, ma la Federazione bosniaca di basket si oppose con tutte le forze al trasferimento e alla fine a decidere fu un arbitrato della Federazione nazionale, nella quale, come sotto ogni latitudine, vincono sempre quelli che difendono i poteri delle sedi centrali, se anche della capitale tanto meglio.

Si parla di Dražen Dalipagić anche nel libro Jugobasket di Alessandro Toso. Quando la pallacanestro vincente fu sinonimo di spirito collettivo e disciplina

Noi esterni seguimmo tutta la vicenda con molto scetticismo, in quanto ci sembrava che una tale battaglia all’ultimo sangue per prendere un giovanotto di vent’anni che mai prima nessuno aveva ancora visto in nessuna selezione giovanile (e ti credo, giocava a tutto meno che a basket) fosse più che altro una specie di tenzone simbolica nella quale il potere centrale ribadiva la sua superiorità a prescindere dal reale valore del giocatore per il quale si era combattuto.

Comincia il campionato e una delle prime partite ad andare in TV è Olimpija-Partizan al Tivoli di Lubiana. Casa televisiva madre, trasferta breve, come racconto nel secondo libro Prijon imbarca me e Sandro per andare a fare la telecronaca sul posto. Fra l’altro penso che fosse una delle primissime partite di campionato (la prima in assoluto non me la scorderò mai, fu l’amichevole pre-Europei a Umago fra Jugoslavia e Gillette nella quale vidi Krešo Ćosić fare cose che non credevo possibili) che commentavo sul posto e non dal tubo.

Ero curiosissimo di vedere questo fenomeno che per noi era in pratica una specie di fantasma, in quanto non sapevamo neanche che aspetto avesse, ma per tutto il primo tempo la mia curiosità non poté essere soddisfatta, in quanto il ragazzo non entrò neanche in campo. Ecco, mi dico, era come pensavo, hanno fatto una battaglia puramente politica, chissà che brocco è! Finisce il tempo, le squadre vanno in spogliatoio, ma uno del Partizan rimane in campo e comincia a fare esercizi fisici e tiri a canestro sotto la guida del vice coach. Guardo il numero e mi accorgo che si tratta proprio del “famoso” Dražen Dalipagić.

(Giganti del Basket Anno XXII – n° 14)

Guardo e non posso credere a quello che vedo. Il giovanotto ha quasi due metri, ma ha un fisico assurdo, asciutto, ma che appare quasi sagomato al tornio con i muscoli che si vedono benissimo quando si tendono. Pazienza questo. Poi si mette a correre palleggiando. Una scheggia. Non solo, ma si arresta di colpo su una moneta, si alza… si alza… e rimane lì per un po’ di tempo. Poi parte un tiro di una pulizia tecnica impossibile di solito a insegnare neanche sotto tortura (all’epoca, con quattro squadre di ragazzini che allenavo, sapevo benissimo di cosa parlavo), immaginarsi per uno che giocava seriamente a basket solamente da due anni. Ciuff, ovviamente.

Poi, sempre più difficile, comincia a fare terzi tempi partendo da poco oltre metà campo, arriva nei pressi della linea del tiro libero, si alza e da tre-quattro metri comincia a tirare ganci da ben oltre i tre metri e mezzo di altezza, in quanto sono ganci senza alcun tipo di parabola, semplicemente dall’alto verso il basso. E capisco di colpo le solidissime ragioni di Žeravica e della Federazione bosniaca. Dopo questo riscaldamento finalmente entra. Segue strage degli innocenti con l’Olimpija che proprio nulla può fare per arginarlo. Parto da Lubiana veramente scosso, perché, come detto, non credevo a quanto avevo visto dal vivo.

Un ricordo di Dan Peterson

Il resto è ovviamente storia, che tutti quanti conoscete, soprattutto quelli che avete avuto la fortuna di vederlo giocare a Udine, Venezia e Verona. Ricorderò sempre l’entusiasmo con il quale mi parlava di Dalipagić Tonino Zorzi quando lo allenò a Venezia ricordando soprattutto quando giocò con la gamba praticamente rotta un’importantissima partita di Coppa Korač sopperendo in modo decisivo alle “distrazioni” di Spencer Haywood che aveva un tantino ecceduto nei suoi exploit notturni proprio il giorno prima della partita.

Un altro aneddoto significativo me lo raccontò Dan Peterson. Lui un anno fu il coach di una delle due squadre assemblate per la partita delle stelle e nella sua squadra c’era anche Praja che prima della partita chiese di poter giocare il meno possibile, in quanto non si sentiva particolarmente bene. A metà del secondo tempo la sua squadra stava perdendo, principalmente perché nell’altra compagine c’era un giocatore che nessuno riusciva a marcare. Dan si sente battere sulla spalla. È Praja che gli dice:

Coach, quello ci sta facendo un mazzo così. Mi faccia entrare che lo difendo io, così vinciamo.

Dan, come tutti, era convinto che gli jugoslavi non sapessero difendere, ma, perso per perso, lo fa entrare. Risultato: avversario totalmente cancellato e partita vinta.

Lezione da trarre: primo, i campioni odiano perdere, anche se si tratta di una partita senza nulla in palio. Secondo: contrariamente a quanto recita il famoso slogan americano (che oggi nell’NBA farebbero bene a seguire almeno un tantino) dell’attacco che vende i biglietti e della difesa che vince le partite, la mentalità jugoslava (e di converso anche mia) era convinta esattamente dell’opposto, e cioè che si difende solo quando l’attacco non funziona (se difendo come un ossesso che forze avrò poi in attacco per fare loro del male? E poi io gioco per divertirmi, non certamente per sgobbare).

Dello stesso autore leggi anche Sergio Tavčar racconta TeleCapodistria

Da ciò le famose battute di Dalipagić (che per lui erano tutto meno che battute, ma semplicemente la verità rivelata nuda e cruda) che alla domanda sul come mai il suo avversario diretto avesse segnato venti punti rispondeva:

E io quanti ne ho segnati?” “36” “E allora è 16 a 0 per me, cosa mi venite a parlare?

L’anno dopo il suo esordio al Partizan arrivò dal Borac di Čačak un altro ragazzo, dal nome di Dragan Kićanović. Si verificò il classico caso di due galli, ambedue con un ego esorbitante, nello stesso pollaio e i due, come è facile arguire, non furono mai amici, ma il rispetto in campo non mancò mai e riuscirono a coabitare senza problemi sia nel Partizan che in Nazionale. Anzi, per Praja l’arrivo di Kića fu una specie di liberazione. Quando si trattava di rinnovare il contratto era Kića che andava per primo a negoziare e a litigare con i dirigenti. Poi veniva Praja che diceva semplicemente: “Quanto voglio? Esattamente quello che avete dato a Kića” e il discorso finiva lì.

“Passo ora a quanto mi ha detto Boša…”

Passo ora a quanto mi ha detto Boša, CT della nazionale jugoslava nella stagione ’80-’81 e poi comunque nel giro della nazionale. È stato molto interessante ascoltare di un torneo giocato in America contro una selezione di fortissimi giocatori di college e sulla grande impressione che fece Praja su un ragazzino di North Carolina del quale si parlava molto bene, tale Michael Jordan, e sul suo leggendario provino con i Boston Celtics, sul quale Aldo Giordani ironizzò in modo abbastanza sguaiato su Superbasket. Dan Peterson mi ha confermato che Red Auerbach lo stimava moltissimo e che ogni volta che ne parlavano rimpiangeva il fatto di non averlo potuto trattenere.

Le regole dell’epoca dell’NBA, che si considerava ancora un empireo celeste nel quale i giocatori non americani anelavano di entrare a ogni costo, prevedevano che uno che veniva da fuori doveva per forza firmare un primo contratto alla paga da rookie. Al che Praja sbottò: “Ma per chi mi prendete? Sono Mister Europa e qui vedo che dei brocchi paurosi prendono il triplo di quello che offrite a me! Vergognatevi per avermi insultato in questo modo!”. Fece le valigie e se ne tornò in Europa con il primo aereo.

L’ultimo torneo di Dražen Dalipagić

Il suo ultimo grande torneo internazionale al quale partecipò furono i Mondiali in Spagna del 1986. Aveva 35 anni ed era considerato per gli standard jugoslavi ormai un nonnetto (poi giocò a 40 anni a Verona, ma gli standard italiani, vedi giocatori tipo Boni, sono diversi). Mi ricordo che ero a Oviedo e che per arrivare dal mio albergo al palazzo dello sport c’era una bella camminata di circa un quarto d’ora che facevo sempre con piacere.

Bisognava anche percorrere il viale sul quale c’era l’albergo con le squadre, sorvegliato all’esterno giorno e notte dalla polizia. Di fronte c’era una tipica taverna asturiana, per intenderci quella nella quale versano il sidro tenendo il vaso almeno un metro sopra il bicchiere. Cammino guardando lo schieramento delle forze d’ordine davanti alla porta dell’albergo quando sento alle spalle: “Sergio, dove vai?” Mi giro e vedo seduti comodamente a un tavolo a sorseggiare il sidro Praja e Rašo Radovanović, grandi amici e all’epoca compagni di squadra a Venezia. “Come avete fatto a eludere i poliziotti?” chiedo stupito. “Sergio, non ti dimenticare che siamo balcanici!” fu la risposta.

Come giocò quel campionato Praja? Dopo la storica sconfitta contro l’URSS in semifinale (dopo la quale, me l’hanno raccontato, per cui non so se è vero, per poco non uccideva Divac in spogliatoio) fu il protagonista assoluto della finalina per il terzo posto contro il Brasile gareggiando con Oscar a chi segnava di più e sbagliava di meno, portando la Jugoslavia al bronzo e terminando così nel migliore dei modi una leggendaria carriera internazionale.

Non ce ne saranno più di giocatori e persone così. Sarò a tre quarti età, ma ringrazio la sorte di essere della stessa generazione di quei campioni totalmente irripetibili. I giovani di oggi non hanno la più pallida idea di cosa si siano persi. Riposa in pace, amico mio. Te la meriti tutta.

Articolo pubblicato originariamente sul blog di Sergio Tavčar.


*Sergio Tavčar è stato per decenni la voce di TeleCapodistria, cronista sportivo, o per dirla come il titolo del suo libro (BEE, 2022), L’uomo che raccontava il basket.

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