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In Italia siamo ancora in pieno hangover da elezioni, alle prese con nuovi equilibri politici e discussioni sul prossimo governo. Nel frattempo, a pochi chilometri dal nostro confine orientale, un paese balcanico si appresta, domenica 2 ottobre, ad affrontare un’elezione molto importante: la Bosnia ed Erzegovina. Non tanto per i possibili risultati, che salvo sorprese dovrebbero confermare l’assetto di potere degli ultimi trent’anni, quanto soprattutto per le implicazioni in termini di politica estera che riguardano direttamente anche l’Unione Europea.
Il ventre molle dell’Europa?
Il 2 ottobre i cittadini bosniaci saranno chiamati a eleggere i membri della presidenza tripartita (uno serbo, uno croato e uno bosgnacco, rappresentante dei bosniaci musulmani), il parlamento federale e il governo delle due entità costitutive del paese: la Republika Srpska, a maggioranza serba, e la Federazione della BiH, a prevalenza musulmana e croata.
Dalla fine della guerra nel 1995 la Bosnia ha vissuto uno stallo perenne, sia a livello politico-istituzionale che socio-economico. Tra i paesi più poveri d’Europa, la Bosnia deve fare i conti con un sistema politico fortemente etnonazionalista dove le spinte secessioniste, provenienti soprattutto dai gruppi serbi e croati, minacciano costantemente di ricacciare il paese in una spirale di violenza incontrollata. Una situazione che rischia di diventare esplosiva anche a causa dalle continue ingerenze delle grandi potenze internazionali, Russia e Turchia su tutte, a cui l’Unione Europea, sulla carta il principale attore regionale, non è in grado di contrapporre una politica lungimirante capace di produrre effetti positivi concreti.
La guerra in Ucraina, la forte influenza russa e l’instabilità globale dovuta alla crisi energetica e alla messa in discussione dell’ordine internazionale degli ultimi decenni fanno della Bosnia un terreno di scontro, al momento solo politico, capace di diffondere preoccupazione e nervosismo tra le cancellerie europee.
Un nervosismo resosi palese già prima dell’invasione russa dell’Ucraina, quando il membro serbo della presidenza tripartita, Milorad Dodik, ha attuato una serie di misure volte a indebolire lo stato centrale in favore della Republika Srpska, mettendo in crisi la già precaria unità statale. Le misure, adottate alla fine del 2021 e contrarie agli Accordi di pace di Dayton del 1995, hanno riguardato il boicottaggio delle istituzioni federali, dopo l’introduzione di una legge che vieta la negazione del genocidio di Srebrenica, e l’adozione di una risoluzione per la costituzione di un esercito serbo-bosniaco e di un disegno di legge per l’istituzione di un proprio sistema giuridico.
Misure che hanno spinto analisti e politici europei a parlare apertamente di rischio conflitto, come sostenuto da Christian Schmidt, l’Alto rappresentante per la Bosnia ed Erzegovina, in un rapporto alle Nazioni Unite a fine 2021.
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Al di là delle tensioni interne, per capire l’importanza di queste elezioni è necessario analizzare la posizione della Bosnia nello scacchiere internazionale.
Il leader dei serbo-bosniaci e candidato alla presidenza della Republika Srpska, Milorad Dodik (Alleanza dei Socialdemocratici Indipendenti, SNSD), è senza dubbio il protagonista su cui si concentrano le maggiori attenzioni. Dodik è un personaggio di lungo corso della politica bosniaca: a partire dal 1998 ha ricoperto per due volte il ruolo di primo ministro della Republika Srpska (1998-2001, 2006-2010), due volte quello di presidente della RS (ininterrottamente dal 2010 al 2018) e una volta quello di membro serbo della presidenza federale (2018-oggi). In questi anni si è fatto riconoscere per le sue posizioni sempre più nazionaliste, volte a rivedere in chiave ulteriormente etnocentrica l’attuale assetto istituzionale, per la sua dichiarata ostilità verso la componente musulmana e l’integrità territoriale (per quanto articolata) della Bosnia ma anche per la sua estrema vicinanza a Vladimir Putin.
L’ultimo incontro tra i due risale al 20 settembre scorso a Mosca, dopo che il leader serbo-bosniaco aveva sostenuto senza mezzi termini la guerra russa contro l’Ucraina. Durante l’incontro, Putin ha augurato la vittoria al suo alleato nella speranza “che la posizione delle forze patriottiche sarà rafforzata, il che ci consentirà di sviluppare ulteriormente una cooperazione fruttuosa e reciprocamente vantaggiosa”. Non a caso Dodik ha deciso di candidarsi alla presidenza della RS e non di quella federale, dove la partita si giocherà tra Željka Cvijanović (SNSD) e Mirko Šarović (Partito Democratico Serbo, SDS). In un altro incontro avvenuto a giugno con Putin, Dodik aveva paragonato le repubbliche separatiste di Donec’k e Luhans’k alla Kraijna durante le guerre jugoslave degli anni novanta.
In totale contrapposizione con le decisioni dell’Unione Europea, le cui richieste per l’avanzamento del processo di adesione prevedono anche l’allineamento alla sua politica estera, Dodik si è detto pronto a discutere della costruzione di un gasdotto diretto a Banja Luka, capitale della Republika Srpska, e di due centrali elettriche alimentate col gas fornito dalla russa Gazprom.
Per la sua politica disgregatrice dei già fragili equilibri interni alimentata da continue rivendicazioni secessioniste e per la sua estrema vicinanza a Putin, Dodik era già stato sanzionato dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna all’inizio di quest’anno.
Di segno quasi diametralmente opposto sono invece le posizioni del membro bosgnacco, Šefik Džaferović (Partito d’Azione Democratica, SDA) che all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha ribadito il sostegno della Bosnia, “posizionata nella parte giusta della storia”, alla risoluzione che condanna l’invasione russa dell’Ucraina. Questo non ha però impedito a Džaferović di criticare duramente l’ONU, incapace di prevenire o fermare una nuova guerra come accadde già con il suo paese nel 1992. Džaferović non sarà però ricandidato alla presidenza tripartita, lasciando spazio a Bakir Izetbegović, già membro bosgnacco della presidenza dal 2010 al 2018 nonché figlio di Alija Izetbegović primo presidente della Repubblica di Bosnia ed Erzegovina e autore nel 1970 della cosiddetta Dichiarazione Islamica, un programma politico sulla creazione di una nazione islamica in Bosnia.
Altro terreno di scontro tra la componente bosgnacca e Dodik è il rapporto con la NATO, presente nel paese con la missione EUFOR. Osteggiata dal rappresentante serbo-bosniaco, per il leader bosgnacco la presenza dell’Alleanza Atlantica “è molto importante per la pace e la stabilità […] e ha il diritto e l’obbligo di schierare le sue forze in Bosnia”.
Condanna dell’invasione russa e sostegno al processo di integrazione euro-atlantica della Bosnia sono state espresse chiaramente anche dal terzo membro della presidenza, il rappresentante croato-bosniaco Željko Komšić (Fronte Democratico, DF) che, in caso di vittoria, ricoprirà per la quarta volta quel ruolo. Komšić sarà sfidato da Borjana Krišto, rappresentante del partito nazionalista HDZ-BIH, partito gemello dell’Unione Democratica Croata (HDZ).
I rapporti con la Turchia
Non c’è solo la Russia però ad avere un occhio di riguardo per questa zona di Europa. Da sempre i Balcani sono considerati una regione strategica per la Turchia che non ha mai dimenticato la lunga dominazione ottomana e che può contare su fortissime relazioni culturali con la Bosnia. Basta viaggiare per il paese per rendersi conto, ad esempio, delle innumerevoli moschee e centri religiosi ricostruiti o ristrutturati grazie al sostegno economico, pari a circa 350 milioni di euro negli ultimi venticinque anni, della TIKA (Agenzia di cooperazione e coordinamento turca). Così come è piuttosto frequente imbattersi in gruppi di turisti turchi in visita nel paese, in una sorta di “turismo religioso” volto a rafforzare la visione di una lunga e comune storia.
Dal punto di vista economico, gli investimenti turchi più importanti riguardano la costruzione, dal grandissimo valore simbolico, dell’autostrada Belgrado-Sarajevo e quelli nel settore industriale (circa 305 milioni di euro), passando per la cooperazione nel settore bancario con il recente accordo tra la Partecipation Banks Association of Turkey (TKBB) e la Bosna Bank International (BBI), a sua volta partecipata da istituti finanziari di Abu Dhabi e Dubai.
Sul piano politico, Erdogan sta giocando lo stesso ruolo che è riuscito a ritagliarsi nel conflitto russo-ucraino: quello di mediatore tra le parti. Ad inizio settembre, il presidente turco si è recato in visita in Bosnia dove ha incontrato tutti e tre i membri della presidenza. In quell’occasione ha ribadito la volontà di aumentare i propri sforzi per fare favorire la pace, la stabilità e lo sviluppo della Bosnia anche grazie ad un ulteriore aumento della cooperazione economica. Un intervento accolto favorevolmente dal membro bosgnacco Džaferović. Erdogan può inoltre vantare una forte e diretta amicizia con tutta la famiglia Izetbegović, iniziata con il padre Alija e continuata con il figlio Bakir e con la figlia di quest’ultimo Jasmina, di cui il presidente turco è stato persino testimone di nozze.
Un po’ remissivo Dodik che ha parlato di Erdogan come di un “grande leader e uomo di stato” apprezzandone l’approccio volto a non imporre soluzioni calate dall’esterno, “qualcosa – secondo il leader serbo-bosniaco – che potrebbe essere un esempio per molti altri, soprattutto occidentali che vengono qui un po’ arrabbiati, per darci lezioni su come organizzare la nostra società”.
E l’Unione Europea?
In tutto questo, l’Unione Europea che fa? La Bosnia ed Erzegovina ha ufficialmente presentato la domanda di adesione all’UE nel febbraio 2016, dopo un processo iniziato nel 2005 con l’avvio dei negoziati per la firma dell’Accordo di Stabilizzazione e Associazione (ASA). Da allora il percorso è stato lastricato di tante buone intenzioni ma pochi concreti passi in avanti, sia per gli scontri interni al paese sia per l’incapacità dell’Unione di offrire una prospettiva adeguata e un valido contributo alla risoluzione dei principali problemi economici del paese. Questo ha causato la diffusione di un clima di scetticismo verso il processo di integrazione che, secondo un sondaggio del dicembre 2021, è ancora piuttosto alto (85%) ma in netto calo rispetto al 97% del 2020.
A complicare le cose concorre anche la superficialità con cui l’Unione ha spesso trattato la Bosnia. Una dimostrazione palese si è avuta con il summit di Bruxelles dello scorso 23 giugno quando Moldova e Ucraina hanno ottenuto lo status di “paesi candidati” al contrario di Sarajevo, completamente ignorata nonostante attenda una risposta dal 2016. Una timida apertura è stata fatta dal presidente francese Emmanuel Macron che si è detto pronto a discutere delle sollecitazioni della Slovenia.
Per l’Europa la Bosnia rappresenta però un alleato fondamentale. In questi anni infatti, il paese ha giocato un ruolo centrale nella gestione dei flussi migratori verso l’Unione. Il paese balcanico ha ottenuto ingenti finanziamenti per bloccare i migranti ai confini e ridurre gli arrivi in territorio europeo, trasformandosi così in un vero e proprio “stato cuscinetto”. Nonostante il “lavoro sporco” delle autorità bosniache, questo non è stato sufficiente per ottenere la massima fiducia da parte dei partner europei.
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La sovranità e l’autonomia della Bosnia vengono messe a dura prova anche dalla presenza di una figura particolare: l’Alto Rappresentate, un’autorità istituita dagli accordi di Dayton per supervisionare il rispetto degli accordi di pace. All’Alto Rappresentate sono riconosciuti i cosiddetti “Poteri di Bonn” che gli permettono di dare esecuzione a decisioni vincolanti qualora le amministrazioni locali si dimostrassero incapaci o restie ad agire e persino di rimuovere funzionari pubblici che abbiano violato gli impegni degli accordi di Dayton. Negli ultimi mesi, il tedesco Christian Schmidt, attuale Alto Rappresentante, ha utilizzato questi poteri per bloccare una legge, considerata incostituzionale, sul trasferimento di alcuni beni demaniali alla Republika Srpska.
Il vero scontro si è però manifestato sulla riforma elettorale. Uno scontro, a dire il vero, ormai ultra decennale. L’attuale sistema, frutto degli Accordi del 1995, è uno dei più complicati al mondo con quattro diversi livelli istituzionali. Negli ultimi tredici anni, ben quattro sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo hanno dichiarato il sistema elettorale bosniaco “discriminatorio” nei confronti di coloro che non appartengono o non si riconoscono nei tre principali gruppi etnici. Per superare lo stallo dovuto all’incapacità di porre rimedio alla discriminazione nei confronti degli “altri” gruppi, Schmidt aveva minacciato un suo intervento diretto imponendo alcuni cambiamenti alla legge elettorale.
La proposta dell’Alto Rappresentante prevedeva che nei cantoni in cui una delle nazioni costituenti (serbi, croati e bosgnacchi) abbia meno del 3% di residenti, non venga eletto alla Camera dei popoli alcun rappresentante di quella nazione. Questa opzione è apparsa a molti come il tentativo di accontentare la parte croata più nazionalista che da anni denuncia una sotto-rappresentazione nelle istituzioni dovuto al fatto che il membro croato della presidenza viene di fatto votato anche dai bosgnacchi (appartenenti alla stessa Federazione). Dopo alcune manifestazioni di piazza nel mese di luglio, da parte dei bosgnacchi preoccupati di veder diminuito il proprio peso elettorale, Schmidt è stato costretto a ritirare la proposta e limitarsi ad attuare solo alcune misure “tecniche” come il finanziamento di circa 6,5 milioni di euro necessari per lo svolgimento delle elezioni.
I problemi economici
A livello interno, le elezioni del 2 ottobre rischiano di essere l’ennesimo “giro a vuoto” per la risoluzione di alcuni problemi atavici che attanagliano la società bosniaca. In primo luogo l’altissimo tasso di disoccupazione che, secondo i dati dell’Ufficio di Statistica nazionale rilasciati ad agosto, si attesta al 17,4%. Non se la passa bene neppure chi un lavoro ce l’ha, con uno stipendio medio netto che non supera i 570 euro mensili.
Un altro dato significativo, che restituisce l’immagine di un paese economicamente arretrato e in cui il rapporto tra politica e società è ormai completamente deteriorato, è quello sulla corruzione percepita. Secondo la classifica del 2021, rilasciata da Transparency International, la Bosnia si posiziona addirittura al 110esimo posto a livello globale con un dato in continuo calo dal 2012.
Continue tensioni etniche, una politica basata su una gestione del potere clientelare, corruzione e povertà hanno provocato negli ultimi anni un vero e proprio esodo da parte di molti giovani. L’ultimo rapporto delle Nazioni Unite dell’agosto scorso mostra come la Bosnia sia il paese al mondo con il calo demografico più consistente. Dal 2013 ad oggi circa 500 mila persone hanno lasciato il paese, di cui 170 mila solo nel 2021, su una popolazione attuale di circa 3,5 milioni di persone. Un dato che potrebbe addirittura essere sottostimato rispetto alla reale portata del fenomeno.
Le ultime elezioni amministrative hanno registrato un primo, lento ma significativo, cambio di prospettiva con la sconfitta clamorosa in alcune città importanti dei partiti etnonazionalisti al potere da trent’anni. Le elezioni del 2 ottobre si terranno però in un clima in parte diverso e non è detto che, anche a causa dell’articolato sistema elettorale, le forze progressiste e democratiche riescano a confermare quanto fatto appena due anni fa.
Di certo, queste elezioni non riguarderanno solo la Bosnia ma avranno ripercussioni politiche anche per l’Unione Europea e tutti i Balcani. Un’escalation interna così come una sempre più stretta alleanza con soggetti poco affidabili come Putin ed Erdogan rischiano di ricacciare il paese in un vicolo cieco piuttosto pericoloso.
Dottore di ricerca in Studi internazionali e giornalista, ha collaborato con diverse testate tra cui East Journal e Nena News Agency occupandosi di attualità nell’area balcanica. Coautore dei libri “Capire i Balcani Occidentali” e “Capire la Rotta Balcanica”, editi da Bottega Errante Editore. Vice-presidente di Meridiano 13 APS.