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Rigorosamente friulana, Elisa Copetti si è specializzata in lingua e letteratura serbo-croata all’Università di Udine, dove ora è docente di lingua serba e croata. Traduttrice dal 2006, Elisa è anche una delle fondamenta di Bottega Errante Edizioni, per la quale si occupa della narrativa straniera. Ha tradotto autori e autrici provenienti dalla jugosfera anche per le case editrici Nutrimenti, L’Asino d’oro, Voland, Mimesis e altre.
L’ho scelto consapevolmente, però c’è stata anche una buona dose di caso, nel senso che io sapevo di voler studiare lingue e sapevo di voler uscire di casa. Poi però ho trovato a Udine un corso di Mediazione Culturale: alla mia epoca il piano prevedeva lo studio di almeno due lingue dell’area centro-est Europa e di una terza lingua.
Io volevo studiare russo, assolutamente, e sloveno. Sono andata alla presentazione del corso di sloveno e mi sono ritrovata davanti il docente visibilmente alterato (aveva un problema di gestione dell’alcol) e la lettrice che cercava in qualche maniera di rendere accattivante l’esposizione nonostante fosse evidente che lui era proprio fuori controllo. Al che una ragazza seduta accanto a me, la mia amica Jessica, con cui ancora non ci conoscevamo, mi ha detto: “Senti, c’è di là la presentazione di croato, andiamo?”. E ci siamo spostate. E là ho trovato invece tre docenti, di cui due adesso stanno lavorando con me all’università, per il corso che tengo, e mi sono detta: “È questo che io voglio studiare, questa cosa qui!”
E da lì ho cominciato, e otto mesi dopo ero a Zagabria. Perché come ho detto volevo provare a vivere altrove, e quindi ho sfruttato tutte le possibilità. All’epoca gli studenti di serbo-croato erano meno numerosi e non c’era tutta questa curiosità, le borse di studio erano poche ma bastavano. E io ero sempre via, in sostanza. Anche se non lontano.
Come ti sei avvicinata alla traduzione?
Alla traduzione credo di essere arrivata più o meno verso il terzo anno di studio, perché avevo Alice Parmeggiani, che è una grande traduttrice, come docente di letteratura serba e bosniaca. E lei ci apriva spesso delle finestrelle sulla traduzione. Ci faceva lavorare sui testi, poi ci dava delle indicazioni, dei consigli, ma sempre in modo molto soft, cioè non ci insegnava a tradurre, però ci faceva sperimentare diverse cose.
Lì ho scoperto che tradurre era un’operazione che mi dava soddisfazione, che mi piaceva tantissimo, soprattutto andare alla ricerca delle parole che non conoscevo, delle etimologie, queste cose un po’ da monomaniaci. Proprio il lavoro stesso sulla parola: è sempre una sfida trovare il corrispondente migliore.
Qual è stato il primo impatto con l’ex Jugoslavia?
Il mio primo impatto è antico perché abitando in provincia di Udine si andava a fare benzina in Jugoslavia di sabato, uno sì e uno no – perché l’altro sabato bisognava andare in piscina in Austria. Per dirti, a casa mia mi chiamano pupica, che è il diminutivo slavo di pupe, che in friulano significa “bambola”. Quindi in realtà non saprei dire qual è stato il primo impatto.
Però mi ricordo la prima volta che sono arrivata a Zagabria con la mia prima borsa di studio, mi ci hanno accompagnato i miei: nevicava, la città mi sembrava enorme, era bellissimo! E soprattutto avevo vent’anni ed ero libera di fare quello che volevo. Avevo questa borsa di studio di circa 90€ al mese che centellinavo, lo stesso budget delle mie compagne di corso polacche, lituane, con le quali ho ancora un legame. Insieme abbiamo vissuto in questa bolla dei vent’anni a Zagabria senza molti soldi, ma è stato tutto molto molto bello.
Parlaci della tua parola preferita in serbo-croato
C’è una parola che è utočište, significa “rifugio” e mi piace perché ha un suono pazzesco! Ci ho messo un sacco ad adattarmi a queste sonorità. E poi un cavallo di battaglia, sreća, che significa contemporaneamente fortuna e felicità. Secondo me dà proprio la chiave per capire un po’ questo fatalismo slavo e questo modo di affrontare le cose per cui se sei felice hai anche un po’ di fortuna, e se hai un po’ di fortuna sarai un po’ felice.
La parola secondo te più difficile e/o impossibile da tradurre dal serbo-croato è…
C’è una parola che si usa tanto in bosniaco che è merak, di origine turca, e sta per quell’insieme di cose magari piccole che ti danno benessere. È più un concetto astratto che una parola fisica, che si riferisce a qualcosa di oggettivamente concreto. Per me merak potrebbe essere fumare una sigaretta e bere un caffè e stare seduta su una poltrona comoda, magari con un po’ di silenzio.
Raccontaci della tua prima opera tradotta dal serbo-croato
Trattasi de La morte della piccola fiammiferaia di Zoran Ferić, che è un bravissimo autore croato, un giallista, con una bella scrittura, belle trame, belle ambientazioni. Uscì con la casa editrice Nikita, che esisteva nei primi Duemila a Firenze, ed era una branca della Barbès, che poi naufragò e rinacque in Clichy. Per Nikita c’era una editor slovena, con la quale sono ancora in amicizia, che selezionava dei titoli pazzeschi e aveva questa grazia di far esordire i traduttori. Ed è andata così, lei domandò disponibilità ad Alice Parmeggiani, che però non aveva tempo e rispose: “Chiedi a Elisa”.
Mi scontrai con la redazione perché secondo loro avevo uno stile troppo barocco, e avevo alzato il registro del romanzo. Avevano ragione. Sabina Tržan me lo spiegò e mi fece capire, e così io ricalcolai il percorso. Il libro era bello, ambientato sull’isola di Rab, per cui ho preso la macchina e ci sono andata, era lì vicino, per vedermi i luoghi, le cose… In questo è stato molto molto bello, e poi a lavorare con la redazione ho imparato tantissimo da quel barocco lì.
Qual è il tuo rapporto con gli autori che scrivono in serbo-croato?
Quando non sono morti e posso solo ammirarli nella loro vita passata, di solito è un rapporto molto buono, perché io tendo a sentirli molto spesso. Quando sono alla fine della traduzione comincio a fare una collezione di quelle cose che non ho capito, i dubbi, e chiedo. E loro di solito sono molto disponibili, mi rispondono per tempo, si fanno sentire, partecipano a questo dibattito con un buon piglio. Mi è capitato forse una volta sola di avere avuto un’autrice che proprio non voleva saperne di domande, ma perché era in una sua fase personale un po’ complicata.
Poi io ho sempre una persona che rilegge le mie traduzioni e le compara con il testo originale, una cosa che all’inizio non facevo e che invece a un certo punto ho cominciato a fare, indipendentemente da quello che mi offre la casa editrice, perché è un altro tipo di lettura ed è una sicurezza in più. Anche perché non sempre le redazioni con cui si ha a che fare hanno una sensibilità non tanto per la lingua originale, ma per il testo in traduzione, e se cadi male sulla revisione meglio riparare con qualche stratagemma.
Che genere traduci più spesso e/o quale genere ti interessa di più?
Sono partita con le traduzioni delle drammaturgie, che amo tantissimo, perché i dialoghi mi piacciono di per sé e mi vengono anche relativamente bene, quindi mi dà soddisfazione. Ho tradotto un po’ di narrativa; mi piacerebbe riprendere la traduzione della poesia, perché con gli anni ho visto che è proprio questo lavoro di precisione sulla lingua a darmi maggior soddisfazione. E poi io di carattere sono una centometrista, non una maratoneta, e perciò sui testi brevi rendo meglio.
Il nome di un’autrice o un autore che vorresti portare in Italia e/o che avresti voluto portare in Italia
Un tipo interessante che mi piace molto è un bosniaco che si chiama Almin Kaplan, ed è uno scrittore secondo me molto bravo, molto bosniaco, ma senza essere troppo ombelicale. Quello che al momento sto cercando è un romanzo con una bella trama ambientato nella Serbia contemporanea e scritto da un under 40. Faccio fatica a trovarne. Perché mi piacerebbe, per interesse mio, leggere qualcosa che sia più legato alla contemporaneità, all’urbanità di Belgrado. Sarà che mi manca un po’, e così almeno posso leggermela.
Perché dedicarsi alle cosiddette lingue “minori”? Vantaggi e svantaggi
Perché sono succose, piene di significato, non sono banali e non è quasi mai narrativa banale. Per le storie e i vissuti che raccontano. e poi perché ti portano in un altro sistema di significati, abbastanza diverso da quello a cui siamo abituati.
Traduttrice, interprete e scout letterario. S'interessa di letteratura, storia e cultura est-europea, in particolar modo bulgara. Ha vissuto e studiato in Russia (Arcangelo), Croazia (Zagabria) e soprattutto Bulgaria, dove ha conseguito la laurea in traduzione presso l'Università di Sofia “San Clemente di Ocrida”. Tra le collaborazioni passate e presenti East Journal, Est/ranei, le riviste bulgare Literaturen Vestnik e Toest, e l'Istituto Italiano di Cultura di Sofia. Nel 2023 è stata finalista del premio Peroto per la migliore traduzione dal bulgaro in lingua straniera e nel 2024 vincitrice del premio Polski Kot. Collabora con varie case editrici e viaggia a est con Kukushka tours.