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Resto interdetto per un eterno secondo e mi guardo intorno nel buio che circonda l’ingresso del Soma Book Station, il locale di Pristina dove la persona che devo incontrare mi ha dato appuntamento. La mia sorpresa non viene dal fatto che mi parla in italiano, visto che ci siamo scritti nella mia lingua dopo un breve passaggio dall’inglese: piuttosto dalla proprietà della sua grammatica, dalla sicurezza della sua pronuncia. Ci stringiamo la mano e confermo che sono proprio io, dissimulando il lieve ma inevitabile disagio che mi assale ogni volta che per lavoro ho a che fare con persone abissalmente più giovani di me. Gjergj non può avere più di venticinque anni e il fatto che sia responsabile delle attività operative di una digital factory non è particolarmente sorprendente, in un paese dove l’età media dei circa due milioni di abitanti non arriva a trentuno.
In via di sviluppo
Mi fa strada in questo bel locale che, pur definendosi sciaguratamente gastropub, sembra una versione in piccolo della biblioteca di Dublino, con meno libri e più vinili. Mi pare di avvertire nell’aria una strana atmosfera, come di energia trattenuta, tenuta a bada con attenzione; forse è il vivere a metà reso obbligatorio dalla pandemia, che qui si combatte senza mascherina ma imponendo il coprifuoco alle ventidue (misura che serve anche a risparmiare energia, quindi doppiamente utile; cercare kilowattora sufficienti a far fronte ai bisogni di un paese povero e arretrato a prezzi abbordabili è la principale occupazione del governo kosovaro, insieme al costante presidio armato del confine con la Serbia). Di povertà e di arretratezza, peraltro, si vedono pochi segni in questo scorcio della capitale, a due passi dal grande albergo a cinque stelle diretto da un italiano di Lecco e da un paio dei principali edifici governativi che sono stati i miei primi punti di contatto con la città.
È sufficiente però fare pochi passi per trovarle senza fatica. Conosco pochi luoghi dove l’espressione “in via di sviluppo” risulta così tangibile: la stazione ferroviaria è una casetta diroccata e coperta di graffiti nella quale non si vede traccia né di orari né di treni (mi dicono che ce n’è uno che copre la novantina scarsa di chilometri che separano Pristina da Skopje in tre ore: posso solo fidarmi), il più grosso parcheggio che dà sull’area pedonale del Bulevardi Nënë Tereza è un grande sterrato costellato di buche e pozzanghere, la piazza che ospita la statua equestre di Skanderbeg (l’eroe nazionale albanese, onorato qui per proprietà transitiva) è spesso popolata da una dozzina scarsa di cani randagi e in generale tutto – le scarpe che si vedono ai piedi delle persone, i chioschi di pannocchie, i marciapiedi, i palazzi della prima periferia, gran parte delle vetrine, gli autobus – mi sembra piccolo e dimesso, segnato dai graffi del tempo e dalle ristrettezze, come se alla città e al paese che essa rappresenta al mondo mancassero le forze, e con queste la fiducia di potercela fare.
Ovviamente non mancano le oasi, Soma è una di queste e Gjergj ci si muove dentro con naturalezza. Una volta seduti partiamo dall’approfondimento delle presentazioni reciproche, lasciando sullo sfondo le questioni lavorative che sono il vero motivo per cui mi sono stati passati il suo nome e il suo numero di telefono. Gioco abbastanza presto la carta che ho imparato essere il più efficace passepartout per vincere la diffidenza timida e aggressiva di tante persone che vivono in questa parte del mondo, soprattutto quella di matrice albanese: racconto dei posti che conosco, infilo qualche pronuncia più o meno corretta, trovo il modo di ricordare uno scrittore indigeno, faccio riferimenti alla situazione politica locale citando il nome di un ministro oppure una notizia di cronaca recente e in generale faccio capire che provo – come è vero – un interesse genuino per il paese nel quale mi trovo, che quel paese mi piace per il semplice motivo che esiste (anche se non elaboro il concetto, almeno non così presto: c’è un limite anche allo sfoggio di originalità e apertura mentale).
L’approccio funziona anche con Gjergj: “Complimenti, non conosco nessuno che va a Mitrovica senza esserci costretto, non credo di conoscere italiani che sanno dove sia” mi dice ed è evidente che non sta reagendo come potrebbe fare un anziano, il quale considererebbe le mie parole un omaggio doveroso alla misconosciuta nobiltà della sua terra: piuttosto, lo fa mischiando apprezzamento per la mancanza di condiscendenza tipica del cittadino del ricco occidente e una specie di sorpresa per il tempo che ho investito nel saperne di più di questo buco del culo del mondo (non sono parole mie, né lo penso né mi permetterei mai di dirle: ma so che lo pensa lui) senza aver motivo di attendermene un ritorno concreto.
Gjergj è un ascoltatore attento, di quelli che si concentrano su chi parla senza pensare al proprio turno sul palco. E però a me interessa lui, mi incuriosisce questo giovane manager, snello e minuto, che brilla di un’eleganza di modi che non ha nulla di artefatto. È nato e cresciuto in Albania, dove resta la sua famiglia di origine e dove ha vissuto fino al momento del diploma. L’italiano con il quale mi ha accolto e stupito lo ha imparato, come moltissimi suoi connazionali, grazie alla nostra televisione: poi il destino lo ha portato a lavorare per un’azienda di Milano e con questo ha chiuso il cerchio. “Come sei arrivato in Kosovo?” gli chiedo, perché mi sembra una scelta curiosa anche per uno che parte dalla provincia albanese. La sua spiegazione mi chiarisce quello che ho avuto sotto gli occhi passando da Prizren a Lipljan a Mitrovica senza essere però capace di esprimerlo compiutamente: c’è un pezzo di Kosovo che sta solo a Pristina, fatto di certi palazzi, certe vie e certe persone che con il resto del paese non c’entra nulla. Non c’entra con le moschee ricostruite con i fondi turchi, i negozi che vendono uniformi dell’Uçk per bambini, i pranzi dei goodfellas accompagnati da avvocati silenziosi ai quali ho partecipato con curiosità pari alla cautela, non c’entra con le campagne infinite e apparentemente disabitate, le lapidi ai bordi delle strade, gli intonaci sfiniti.
Half a mile away
Quel pezzo di città, che è più un’idea che un luogo fisico, ambisce a far parte di un mondo che non è quello che lo circonda da vicino – e parzialmente ci riesce. È l’Half a Mile Away di Billy Joel, fatto di università statunitensi, hub tecnologici, aziende straniere che delocalizzano alcune loro attività sapendo di trovare cervelli istruiti e mani capaci a basso costo. È fatto di automobili tedesche, uffici di alti funzionari governativi nei quali la bandiera più grande posta alle spalle della scrivania in mogano non è quella del Kosovo e nemmeno quella dell’Unione Europea bensì quella americana, grandi viali intitolati a Bill Clinton e George Bush. È fatto di loghi, film, musica, aerei, passaporti, app. È qui ma non si sente a casa, è qui ma vorrebbe essere da un’altra parte: e siccome non è facile essere e non essere al tempo stesso, chi lo abita crea una bolla, cerca di non uscirne mai e fa in modo di guardare fuori il meno possibile.
Quando le persone mi chiedono come mi chiamo a volte rispondo onestamente, ma altrettanto spesso dico Michael o John, Albert o Henry, perché in questo modo evito la domanda successiva, che è: da dove vieni? — Mi chiedo sempre perché le persone vogliono saperlo. Me lo chiedono perché sono sinceramente interessati al mio paese d’origine o per esprimere giudizi su di me? Perché una cosa è dire a qualcuno che sei svedese, tedesco o inglese e un’altra è dire che sei turco o iraniano. Solo molto raramente il paese di origine di qualcuno non ha alcun significato.
Non è farina del mio sacco: sono parole che ho trovato per caso – definizione che uso in mancanza di parole migliori e più precise, dato che quel caso si avvera troppo frequentemente per considerarlo davvero tale – mentre rimettevo insieme gli appunti su Gjergj.
Le ha scritte – e anche questa non riesce a sembrarmi una coincidenza – Pajtim Statovci, uno scrittore kosovaro emigrato in Finlandia al seguito della famiglia in fuga prima dello scoppio della vera carneficina. La consapevolezza che la propria origine non solo non è irrilevante ma agli occhi altrui diventa una specie di cattivo marchio di fabbrica pare accompagnare chiunque si incontri nel triangolo di Europa che sta fra Tirana, Pristina e Skopje. Capitali di paesi che si svuotano ogni giorno di più, nei quali chi resta – forse consapevole che all’estero non sempre la vita scorre serena e senza problemi: anzi – se ne ha la possibilità prova non tanto a cambiare il mondo ma a far parte della sua migliore versione locale possibile, che per essere tale vuole e deve essere “altro”. Non so quali siano i motivi profondi che portano alla costruzione quotidiana di questo stile di vita: il mio primo pensiero corre inevitabilmente alla guerra, al fatto che in queste terre per troppo tempo (un tempo ancora molto recente) “la vita è diventata crudele, e la gente s’è abituata all’idea che il corpo di un morto non sia più un corpo umano ma solo l’immagine del corpo di un morto. Le donne stuprate, gli uomini assassinati e i bambini maltrattati non sono più donne stuprate e uomini assassinati né bambini maltrattati, ma resoconti di tutto questo”, come scrive Statovci in un altro suo libro. Ma ho visto e toccato con mano qualcosa di molto simile durante i mesi che ho trascorso a Shanghai e mi chiedo se poi, al netto delle pulizie etniche, non avvenga lo stesso tra Quarto Oggiaro e l’Isola, tra via Bolla e City Life a Milano. Non ho risposte.
Gjergj è un abitante di quel mondo. Lo ha scelto, in modo consapevole: ha deciso di trasferirsi in un paese più arretrato del suo perché ha visto il brillìo di una controintuitiva pepita di possibilità, ha intuito con chiarezza l’opportunità che è una delle due facce della medaglia chiamata “in via di sviluppo” e ha scommesso. È venuto a studiare in un’università privata che fa parte del Rochester Institute of Technology e grazie a quel titolo di studio ha trovato lavoro nel settore della produzione di media digitali. Passa metà del suo tempo con i ragazzi e le ragazze della digital factory che dirige per conto di un’azienda italiana e l’altra metà online con gente – soprattutto clienti e fornitori, immagino e spero anche qualche amico – sparsa per mezza Europa.
L’esperanto di una generazione
“Vieni, ti porto a mangiare in un bel posto” mi invita dopo aver finito la birra. Lasciamo il centro, attraversiamo la parte est della città, passiamo di fronte all’ingresso del campus che Gjergj ha frequentato da studente. Mi racconta della fidanzata, della mamma ancora viva che non si vuole spostare dall’Albania, di come sta cambiando il mix dei prodotti e dei servizi della cui realizzazione è responsabile. Mi scopro a pensare che potremmo essere ovunque, e potremmo essere chiunque. Entriamo a Gërmia Park, una specie di oasi naturalistica ai piedi dei monti Rodopi. “Non è un posto troppo raffinato ma si mangia bene, anche piatti locali” mi dice, aggiungendo la più classica delle garanzie: “Lo chef è un mio amico”.
Il ristorante è un locale grande, normalmente rumoroso (cioè accettabile da un italiano medio e insopportabile per chiunque venga da oltre Chiasso), pieno di famiglie giovani e gruppi di amici. Sulla strada verso le vetrate della cucina Gjergj saluta una bella signora bionda che insegue un bambino di non più di due anni: “Abbiamo studiato insieme, lei si occupa di real estate” mi spiega e aggiunge, facendo un cenno con la testa verso il piccolo che corre in mezzo ai tavoli, “ha voluto fare un figlio subito”. Lo dice di sfuggita ma non è difficile sentire nelle sue parole una specie di incredulità rassegnata, come se non riuscisse a capacitarsi che una ragazza giovane, capace, brillante e con un’ottima istruzione decida di diventare madre per scelta e non per costrizione, obbedendo a convenzioni pietrose che appena fuori dalla città – ma probabilmente anche al suo interno, in quella parte che Gjergj non frequenta – sono ancora la base della vita sociale.
Poco dopo, dalla cucina esce un ragazzone alto che pur avendo la stessa età mostra dieci anni più di Gjergj, fasciato di un bianco-chef immacolato ma non pretenzioso. Veniamo presentati in italiano, una stretta di mano rapida ma cordiale; poi assisto a un paio di minuti di conversazione per me assolutamente surreale, dato che parte in inglese – “how are you doing”, “busy, you know”, “you look good” – vira sull’albanese che riconosco ma non capisco, torna all’inglese per uno scambio su comuni conoscenze e termina passando nuovamente all’albanese e all’abbraccio dei saluti. Una volta seduti al tavolo non riesco a non chiedere a Gjergj perché due amici della stessa matrice culturale e linguistica si parlano mischiando l’inglese alla propria lingua madre. Vedo che è sorpreso dalla mia domanda, come se avesse messo a fuoco la bizzarria del comportamento solo ora e per la prima volta: “Oddio, non lo so, siamo abituati così” mi risponde stringendosi nelle spalle. Insisto, gli chiedo se quel “siamo” indica lui e il suo amico del quale mi sono perso il nome nel brusio del locale oppure un gruppo più ampio di cui loro fanno parte. “Noi giovani” mi dice quasi confuso, e in quell’aggettivo sostantivato ritrovo ancora il pezzo di mondo, fisico e mentale, abitato da Gjergj, dai suoi amici, dai suoi colleghi, da gente – quanta? non lo so – che come lui appartiene a quel gruppo etereo di espatriati in casa propria che quando esce dai confini del proprio stato non si sente e non viene avvertito come straniero, almeno fino al momento in cui qualcuno chiede “da dove vieni?”.
Passo tutta la sera, fino a quando mi riaccompagna all’ingresso del Teatri Kombëtar dove gli chiedo di lasciarmi per poter fare una passeggiata digestiva rientrando in albergo, a osservare affascinato una persona che non ha nulla di caratteristico, e che proprio per questo lo è al massimo livello. In Gjergj non ritrovo uno solo dei cliché che accompagnano gli umani di queste terre: vedo invece un giovane europeo, identico a quelli di Milano e Norimberga e Oslo e Leeds, che parla la stessa lingua, ascolta la stessa musica, mangia lo stesso cibo, guarda le stesse serie, fa lo stesso lavoro usando gli stessi strumenti; vedo il figlio di una generazione infinitamente diversa dalla mia, che perdendo molte delle specificità che caratterizzavano i suoi genitori e i suoi nonni diventa particolare a modo suo. In lui vedo rimbalzare i miei pregiudizi e cascare nel vuoto le mie attese da Lonely Planet: è passato il tempo in cui potevi pensare di guardare all’abitante di un paese come a un pecorino di fossa, un esemplare a denominazione di origine controllata e protetta che garantisse genuinità, tradizionalità, specificità culturale. Non che questo non sia più possibile in assoluto: sono passato per troppe campagne albanesi e macedoni e bosniache e rumene, periferie dell’Europa che spera di contare ancora, per non sapere che c’è almeno un Dritan ancora impelagato negli anni Cinquanta del suo villaggio di campagna per ogni Gjergj che ordina poke a domicilio per mangiarlo sul divano guardando The Bear. I due non sono in lotta, ma spesso l’uno vuole essere come l’altro e l’altro non vuole essere come l’uno: di chi sarà il futuro non lo so, posso solo augurarmi di riuscire a vederlo senza alzare il sopracciglio, senza provare nostalgia.
Si guadagna da vivere come marketing manager di un’agenzia di comunicazione. Conosce e frequenta i Balcani per motivi professionali e personali da una quindicina d’anni e ha scritto due libri: Zona di alienazione su Čornobyl’ e Il Tunnel sul suo viaggio in Bosnia.