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El’mira Kakabaeva è una scrittrice, femminista e attrice culturale che, in seguito all'invasione russa dell'Ucraina, è rientrata nel natio Kazakhstan e ora propone corsi di scrittura decoloniale per sole donne, incentrati in particolare sul recupero della memoria orale famigliare. Il corso ha una durata di sei settimane e raccoglie in genere tra le 10 e le 15 iscrizioni. L'abbiamo intervistata.
Puoi raccontarci qualcosa di te, della tua formazione, delle tue attività e interessi?
Sono cresciuta in Kazakhstan e la mia prima laurea è in giornalismo, dopo la quale ho lavorato a lungo in ambito pubblicitario. Tuttavia, già durante gli studi, nel 2002 se non erro, ho partecipato ad alcuni corsi offerti dal fondo Musaget di Almaty dedicato ai giovani scrittori e in quel momento sono emerse le mie prime ambizioni di diventare scrittrice. Il progetto era davvero ottimo e la sua fondatrice, Olga Markova, si può dire che abbia gettato le basi della nuova letteratura kazaka di lingua russa.
Come dicevo, lavoravo in ambito pubblicitario e nel 2014 mi sono trasferita a Mosca. Lì nel 2018 sono entrata in contatto con la piattaforma Write like a Grrrl (WLAG) e con le organizzatrici del progetto, Sveta Luk’janova e Saša Šadrina, la quale poi ha anche fondato la casa editrice No Kidding Press. Insomma, lì ho seguito dei corsi, sono entrata a far parte di un gruppo di confronto su vari temi e poi sono diventata io stessa insegnante di alcuni corsi offerti da questa piattaforma. Nel frattempo, collaboravo con vari progetti di formazione come project manager o coordinatrice. Dopodiché ho deciso di andare all’estero a studiare e così per un anno ho vissuto in Israele dove ho frequentato un corso in Risoluzione dei conflitti. Lì mi sono interessata alle scienze sociali e perciò poi mi sono iscritta a un corso di Antropologia sociale alla CEU di Vienna.
Mi sono laureata nel 2021 e in quel momento mi sono ritrovata a far parte di quel “ghetto per migranti” in Unione Europea: dovevo capire cosa fare, come ottenere i documenti, il permesso di soggiorno, decidere se restare o meno. Si è aperto un nuovo capitolo della vita per me e quando poi ho deciso che avrei fatto domanda per il visto sono tornata a Mosca per completare la richiesta. Era gennaio 2022. In febbraio è iniziata la guerra e me ne sono andata. Sicuramente a spingermi è stata la guerra, ma un’esperienza che mi ha colpita nel profondo erano state le proteste scoppiate ad Almaty dal 2 al 7 gennaio: stavo giusto volando verso Almaty il giorno in cui sono scoppiate; quando sono atterrata, tutte le strade della città erano bloccate, non si poteva lasciare il centro. Questo è stato il primo evento che mi ha fatto sentire da vicino questa situazione di crisi; c’era da chiedersi cosa fare, cosa sta succedendo, chi siamo. Forse, le proteste di gennaio, considerata la realtà kazaka, hanno avuto un impatto più profondo su di me [rispetto allo scoppio della guerra]. A ciò si è aggiunta la guerra.
Quando sono tornata in Kazakhstan mi sono ritrovata in un limbo: aspettavo i documenti e mi sono resa conto che avrei aspettato a lungo e avrei dovuto trovarmi qualcosa da fare, ma che non fosse un lavoro a tempo indeterminato. Così ho deciso di fare quello che mi piace fare e ho lanciato un corso di WLAG secondo l’ottica che interessa a me: nel 2018 ho iniziato a scrivere un saggio sui miei nonni, sulle loro memorie, riflettendo sulle loro esperienze. Così ho lanciato un corso a partire da questa mia riflessione ed è risultato di interesse per le persone.
Ho avuto modo di ascoltare il tuo intervento TEDx che si è tenuto ad Astana lo scorso 4 dicembre [qui il testo originale in russo], durante il quale hai in effetti descritto queste tue attività e la tua storia personale. Ma per chi non è esperto di queste tematiche, come possiamo spiegare in breve la differenza dell’approccio decoloniale rispetto a quello postcoloniale?
Mi baso sulle letture dei lavori di Madina Tlostanova e, inoltre, su questi temi, compreso il femminismo, ho seguito un corso alla CEU, durante il quale abbiamo letto alcuni dei testi fondamentali. Sulla base delle mie letture e dei miei studi, ma anche delle mie impressioni personali, ciò che distingue il discorso decoloniale da quello postcoloniale è il fatto che quest’ultimo si concentra molto sul concetto di trauma, sull’ingiustizia, sulla violenza, temi sui quali propone una riflessione costante. E questo discorso è un po’ ciclico, chiuso attorno a colpevole e vittima. Si pone poi un problema quando si ha a che fare con situazioni in cui la vittima a sua volta diventa oppressore: le scienze sociali hanno osservato che talvolta, una volta uscite da una situazione di subalternità e oppressione, le vittime danno vita a loro volta a strutture di oppressione rispetto ad altri.
Del discorso decoloniale a me sono piaciuti alcuni specifici concetti, come quello sviluppato da Madina Tlostanova e da Chela Sandoval attorno ai cosiddetti “trickster”, ovvero persone che, a seconda delle condizioni in cui si trovano, sopravvivono sfruttando delle “maschere” che il sistema stesso offre loro pur di continuare a cercare il proprio spazio di sopravvivenza.
Da bambina semplicemente la Kamčatka mi sembrava un posto fantastico, mitico, irreale; ragionandoci però da adulta, ho pensato che è una regione molto distante dal Kazakhstan: come sono riusciti a raggiungerla? In fondo, dunque, loro non hanno fatto altro che sfruttare l’infrastruttura stessa dell’Unione Sovietica: sono scappati dal potere sovietico sfruttando quello stesso potere sovietico. E questa è una forma di “tricksterismo”.
Un altro concetto che a me piace molto è quello di resistenza come “ri-esistenza” proposto dall’antropologo colombiano Adolfo Albán Achinte. È un concetto molto vicino a chi si occupa di arte e dopotutto lo stesso Achinte è un pittore. È una resistenza che si basa anche sulle percezioni artistiche e funziona persino a livello fisiologico: pensiamo a quante impressioni e memorie può far scaturire un odore, un profumo, che può far piangere oppure può far ridere. Questo amplia lo spazio per fare qualche cosa che vada oltre l’afflizione, per inventare qualcosa di nuovo che è quello che cerco di fare io durante i miei corsi. Ci occupiamo in particolare di scrittura decoloniale perché vogliamo superare questa afflizione e provare a creare un nuovo mondo, una realtà alternativa che potrebbe essere possibile.
Un approccio più attivo e non puramente riflessivo, insomma. Nello specifico, da quale tipo di colonizzazione proponi una decolonizzazione?
Ci sono alcune partecipanti al corso che scrivono molto, ma quando poi leggi i loro testi percepisci quanto siano influenzate dalla letteratura sovietica e da quella russa.
Io stessa, ad esempio, ho frequentato scuole dove la lingua veicolare era il russo e lì conoscere le regole della lingua russa, così come conoscere la letteratura russa, rappresenta quello standard cui adeguarsi per chi non è di madrelingua russa.
Anche se inconsapevole, questo approccio imperialistico (benché sappiamo che attorno al concetto di “impero” e “colonia”, nella loro applicazione alla Russia, si sia aperto un grande dibattito) è visibile già se osserviamo la lingua che viene utilizzata dalle persone per descrivere le proprie idee ed emozioni nei testi letterari che producono. Le formule che si leggono sono piuttosto standard, prese dalla letteratura russa e sovietica. E questo non è quello che si ha voglia di leggere nella letteratura kazaka odierna. Credo che sia ormai passato così tanto tempo che questo sia qualcosa che possiamo superare, anche nella letteratura kazaka di lingua russa. Certo, è un problema che si incontra oggi anche nella letteratura russa stessa, così come nelle altre letterature post-sovietiche. Non posso dire di aver visto moltissimi esempi simili nella letteratura che viene pubblicata oggi in Kazakhstan, ma quelli che si osservano sono ben visibili. Ad esempio, prendiamo alcune descrizioni dell’aspetto di qualche personaggio femminile o di qualche bambino: “le sue guance paffute e gli occhi strabici”. È chiaro che l’espressione “occhi strabici” è una forma di descrizione acquisita, per la quale occorre lo sguardo dell’altro. Da qui inizia il lavoro di scrittura decoloniale. Da qui si prosegue nello sviluppo di un pensiero più critico, di una percezione più consapevole anche del materiale sul quale si lavora, si ragiona su come dialogare con i propri parenti, su come evitare di capitalizzare sulle loro esperienze, come non auto-esotizzarsi e non esotizzare l’esperienza della propria famiglia. Chiaramente è una questione aperta, non ho risposte pronte, ma cerchiamo di rispondere tutte assieme.
Questo tentativo di decolonizzare la propria scrittura avviene dunque attraverso un approccio consapevole, attraverso la discussione di questioni scomode, attraverso la ricerca collettiva di una risposta a queste domande. Non sono io a dire come fare per evitare di esotizzare se stessi. Non offro istruzioni. Mi sembra che l’approccio decoloniale di per sé non presenti istruzioni, non ci sono; ci sono sensazioni intuitive volte a una ri-esistenza.
Quello che dici mi ricorda da vicino un concetto di Madina Tlostanova che apprezzo molto, quello di “colonialità della conoscenza”. Il discorso postcoloniale è stato criticato da alcuni studiosi per l’occidentalizzazione della terminologia stessa e della cornice concettuale che propone nell’analizzare le più diverse situazioni di subalternità e oppressione nel mondo. Cosa che invece, come sottolinei anche tu, l’approccio decoloniale non fa, presentandosi privo di istruzioni. Come ti rapporti a questa “colonialità della conoscenza”? Il discorso decoloniale è di aiuto?
Certo, la decolonizzazione della conoscenza parte già dal fatto che noi ci basiamo su storie orali. In genere, i testi stampati vengono percepiti come qualcosa di più forte e significativo rispetto al racconto orale. Io stessa ho fatto un percorso in questo senso: da bambina quando mi raccontavano di mio nonno in Kamčatka pensavo si inventassero tutto. Poi questa storia mi ha inseguita ed è venuto fuori che il cugino di mio padre aveva partecipato a quel viaggio, era diventato etnografo e ne aveva scritto un articolo. Soltanto quando ho avuto questa testimonianza in forma testuale ho iniziato improvvisamente a credere a questa storia.
Ma proprio qui c’è spazio per riflettere: perché si ricordano qualcosa in questa maniera? Poteva forse essere andata diversamente? Ha senso forse sentire anche qualcun altro? Io qui non parlo a livello scientifico, ma a livello artistico, letterario. La decolonizzazione della conoscenza passa anche attraverso una maggiore fiducia nei nostri parenti più anziani, nelle loro esperienze.
Le partecipanti del tuo corso di scrittura sono soltanto donne. Come mai?
In primo luogo, è dovuto al fatto che il corso nasce come progetto di WLAG, cui prendono parte solo donne. E poi è legato alla creazione di uno spazio sicuro. Io non ho mai avuto bisogno di uno spazio sicuro, perché sono sempre stata capace di far sentire la mia voce, di discutere, eccetera. Ma ho notato che altre persone vivono tutto diversamente: hai presente quelli che stanno seduti in silenzio all’angolo e che poi sono coloro che tirano fuori le idee e le storie più forti?
È una missione quella di far sentire capace di dire la sua anche chi in genere si vergogna e ha paura di esprimersi. Dopotutto, WLAG è basato sull’offrire supporto a chi vuole imparare a scrivere, è pensato per gli aspiranti scrittori alle prime armi come corso elementare.
Quando parliamo di esperienza famigliare, io personalmente sento la necessità culturale di parlare di più di esperienza femminile. Nella tradizione kazaka, così come avviene in realtà in molte altre culture, si usano gli alberi genealogici e ogni persona deve conoscere i nomi dei suoi sette antenati: devi semplicemente imparare i nomi dei membri delle sette generazioni che ti precedono. Tuttavia, la scrittura dell’albero genealogico segue un modello patrilineare. Solo ora che sono adulta e ho studiato antropologia riesco a capire perché sia così, ma ricordo che quando avevo sedici o diciassette anni, non appena ho visto il libretto del nostro albero genealogico, mi sono sinceramente indignata perché io lì non c’ero.
Credo che il fatto che ci occupiamo di storie famigliari e che proviamo a farlo concentrandoci in particolare sulle storie femminili sia un moto consapevole verso la memoria dell’esperienza femminile. Si tratta di storie spesso intime, mentre quelle maschili parlano di qualche vittoria o realizzazione. Le storie femminile talvolta sono storie di violenza o di qualcosa che non si è realizzato, parlano ad esempio della morte di un figlio. Sono più emotive e drammatiche. Per questo mi pare che l’unione di questi due approcci [quello orale e quello al femminile] risulti molto utile. Ciononostante, ci sono anche uomini che vorrebbero partecipare e lavorare sulle loro storie famigliari, ma mi tocca dir loro di no.
Le partecipanti al corso si auto-identificano come femministe?
Io questo non lo chiedo. Credo che ci siano donne di vario genere: ci sono quelle che esprimono una posizione apertamente e consapevolmente femminista, in quanto attiviste o ricercatrici; ci sono quelle che semplicemente si rapportano alle proprie storie famigliari con rispetto e vogliono trascriverle, ma che non si pongono la questione del femminismo e che probabilmente non si identificano come femministe.
Hai ricevuto delle critiche rispetto al corso?
No, nessuno ha espresso indignazione.
Come viene recepito il femminismo in Kazakhstan oggi? Sappiamo che in epoca sovietica la questione femminile non è stata risolta e la sottomissione delle donne, pur cambiando forma, è se possibile peggiorata, lasciando delle conseguenze in tutto lo spazio post-sovietico, con delle differenze da contesto a contesto. C’è una chance per il femminismo nel Kazakhstan di oggi?
La questione femminista in Kazakhstan e in tutta l’Asia centrale è molto interessante e nella mia tesi di master ho proprio lavorato in questa direzione, concentrandomi sulle donne in politica in Kazakhstan e sulle strategie che impiegano per portare avanti i loro obiettivi politici in un contesto da un lato autoritario, dall’altro patriarcale.
In Kazakhstan in particolare si osserva una situazione interessante. Convenzionalmente mi riferisco a due ondate di femminismo. La prima è legata ai programmi offerti dalle organizzazioni internazionali in seguito alla nostra indipendenza [dall’Urss], dopo la quale ci furono molte iniziative di questo genere. Quell’ondata di femminismo si è occupata attivamente di darsi una struttura, creando associazioni femministe, conducendo ricerche su temi di genere nelle università. Lo stato andava incontro a queste iniziative. In inglese si parla di State feminism quando nella politica compaiono delle donne, quando si introducono delle politiche al femminile e si affrontano questioni di genere. Tutto ciò è cambiato profondamente, gli anni Novanta e oggi sono come due mondi diversi. Le riflessioni di allora esistono anche oggi, quelle femministe non sono scomparse, continuano a lavorare in campo sociale.
Per come la vedo io, la differenza sta nel fatto che se negli anni Novanta non c’era internet e le persone avevano accesso a queste conoscenze attraverso i programmi delle organizzazioni internazionali, attraverso le borse di studio e i viaggi, attraverso fondazioni come quella di Soros, negli anni Dieci è emerso un femminismo più aperto grazie a internet e a programmi internazionali più aperti. È un femminismo leggermente diverso: non è più uno State feminism, ma un femminismo dal basso (grassroots) che si occupa di problematiche sociali, di violenza domestica, che è il tema forse più rilevante oggi, ma anche di identità di genere. Sono comparse molte iniziative LGBT+. È un femminismo un po’ diverso e le femministe di oggi si lamentano del fatto che sia più facile ricevere un finanziamento per campagne contro qualche specifica tradizione culturale come il “rapimento della sposa” che per la difesa dei diritti delle persone transgender. Per le organizzazioni internazionali occidentali, la questione transgender è meno rilevante rispetto a questioni culturali che, viste attraverso lo sguardo occidentale sull’Oriente, risultano terribili. Certo, non discuto che siano terribili. Il tono e i temi del discorso sono cambiati.
Inoltre, è interessante sottolineare che mi sembra che il femminismo sia proprio delle culture urbane, delle comunità cittadine, delle città grandi. Cosa succede a livello regionale, nelle città minori e nelle campagne? Lì occorre andare a vedere. Credo che vi si troverà una società più patriarcale, la vita lì è più difficile, ma ci sono anche casi in cui a livello amministrativo locale ci sono donne che cercano di cambiare qualche cosa. Dubito che si auto-identifichino come femministe, ma sono donne che vogliono cambiare qualcosa a livello sociale. Su questo tema ha scritto delle cose interessanti Syjnat Sultanalieva, una ricercatrice kirghiza, che ha di recente pubblicato un libro in cui descrive il femminismo dell’Asia centrale attraverso degli strumenti analitici da lei elaborati. Afferma che ragionando sempre solo in termini di colonia, di colonizzato e colonizzatore non c’è una via d’uscita. Dopo aver dialogato direttamente con attiviste a livello locale sia nelle città che nelle regioni, ha compreso che per queste donne tutto questo nostro discorso decoloniale non è rilevante, non si sentono delle vittime; hanno un lavoro, ma hanno anche una famiglia da sfamare e non c’è un forte contrasto tra queste due sfere. Lei definisce tale modo generale, collettivo di percepire questo paradosso come un “nomadismo” mentale, concettuale, secondo il quale per raggiungere i propri obiettivi si sfruttano tutte le possibilità che sono date, senza applicare un qualche approccio mentale preimpostato.
È molto interessante, non conoscevo questo libro. C’è però un legame tra il discorso decoloniale e il femminismo, a prescindere da quanto osservato da questa ricercatrice. Come lo vedi questo legame?
Sento a me più vicino il femminismo intersezionale della cosiddetta terza ondata femminista. Anche nelle scienze sociali si discute del fatto che c’è un concetto convenzionale occidentale di femminismo che viene importato nei paesi del terzo mondo o “Global South”, dove secondo i criteri del femminismo occidentale molte cose sono considerati inaccettabili. La missione internazionale è quella di “salvare le donne dell’Oriente”, “salvare le donne dall’oppressione”. Da questo punto di vista, mi piace molto il libro della ricercatrice iraniana Haleh Afshar, Islam and Feminisms, in cui analizza i diritti delle donne, il loro diritto all’eguaglianza e a professare allo stesso tempo la propria fede. Messa in termini semplici, Afshar afferma che l’islam è una religione dell’interpretazione, ovvero è basato su un libro che va letto, interpretato e i cui fondamenti vanno tramandati.
Ciò che dice l’autrice è che bisogna semplicemente dare da leggere il Corano alle donne in modo che siano loro stesse a interpretare ciò che sta scritto. Mi sembra un’idea semplice quella di dare alle donne la possibilità di scegliere da sole sulla propria vita e permettere loro di scegliere da sole che cosa per loro costituisce un problema. Per le donne del Medio Oriente la questione forse non sta nell’hijab, ma altrove. Ho seguito una lezione interessante all’università in cui si parlava di tutti questi tentativi [di liberazione delle donne] nel passato: in Uzbekistan ci fu ad esempio la campagna chiamata Hujum[in epoca staliniana] durante la quale bruciavano i burqa (paranja); l’insegnante inoltre diceva che l’Occidente era “ossessionato” dal burqa, dal velo, ma questa è solo una parte della storia. Oltre a bruciare i burqa, ci furono anche forme più coercitive e violente volte a cambiare la vita delle persone in Asia centrale.
Queste riflessioni mi ricordano molto quando sono stata in Iran qualche anno fa. In aereo pensavo a quanto mi avrebbe dato fastidio dover portare il velo, ma quando poi sono arrivata mi sono resa conto che la questione non sta tanto nel velo, che le forme di oppressione sono ben altre. Anzi, proprio in Iran ho potuto osservare come le donne al contrario hanno saputo ricavarsi un proprio posto ben visibile nella società, soprattutto se confrontate con altre situazioni in altri paesi islamici.
Ho ancora un’ultima domanda, forse critica: il corso è dedicato alla scrittura decoloniale, ma la lingua che utilizzate è quella russa. Non è forse contraddittorio?
Sì, questa è una grande questione e si riallaccia a quanto dicevo all’inizio sul fatto che molti scrivono in russo utilizzando delle espressioni classiche prese dalla letteratura russa. Noi cerchiamo di discuterne, cerchiamo di capire cosa farci, dato che la necessità espressiva c’è e nessuno ha il diritto di sottrarci questa nostra necessità. E questa necessità possiamo colmarla nella lingua che ci è più vicina, quella che conosciamo meglio. Ci sono anche persone che scrivono in inglese, io stessa a un certo punto sono passata all’inglese: ad esempio, quel testo sui miei nonni lo sto scrivendo in inglese.
Ciò che vorrei fare con la lingua russa è utilizzarla così come è più utile a noi e utilizzarla con il nostro approccio. Questi testi possono non essere puliti e corretti in maniera ideale dal punto di vista della grammatica, magari c’è qualche virgola fuori posto o qualche parola è usata in modo scorretto: va tutto bene, non è un problema, non voglio ripulire i testi che ricevo e che sono scritti in un russo sbagliato. Penso che l’utilizzo del russo in questo aspetto personale, intuitivo – perché dopotutto non tutti conoscono il russo così bene da poter scrivere in maniera perfetta – sia comunque una forma di libertà: utilizziamo la lingua russa così come ci è comodo.
Ne parliamo molto durante il corso e le partecipanti stesse sentono la necessità o il desiderio di inserire nel testo delle parole nella loro lingua madre, ad esempio, quando si riporta il discorso diretto dei parenti: spesso la generazione più anziana parla nella lingua madre [in kazako] e loro hanno la possibilità di trascrivere il dialogo nella lingua madre. Si pone però poi una seconda domanda: traduciamo? Anche qui l’autrice ha libertà. C’è chi non vuole tradurre e vuole lasciare il testo così com’è: va bene così, perché il testo incontra lettori diversi e ognuno legge livelli diversi del testo. Io che sono kazaka e russofona leggerò il testo su due livelli, comprendendo entrambe le lingue, mentre chi non capisce il kazako leggerà il livello che gli sarà accessibile e se avrà voglia si ingegnerà per tradurre. C’è poi chi traduce con cura tutto e va bene anche cercare di essere accessibile a tutti. C’è stata qualche partecipante che, come reazione, si è messa a studiare il kazako. Io stessa vorrei conoscerlo bene al punto da poter scrivere in kazako, ma il kazako letterario è chiaramente molto complesso.
Dottoressa di ricerca in Slavistica, è docente di lingua russa e traduzione presso l’Università di Trieste, si occupa in particolare di cultura tardo-sovietica e contemporanea di lingua russa. È traduttrice, curatrice di collana presso la casa editrice Bottega Errante ed è la presidente di Meridiano 13 APS.