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Locandina del film e cortile del Salk Institute for Biological Studies di San Diego (Elaborazione grafica da Wikimedia)
Nonostante la valanga di nomination e i numerosi premi ricevuti, il film The Brutalist è affossato da non poche pecche a livello di sceneggiatura e trama. E oltretutto, per ambientazione storico-temporale, non tratta affatto di brutalismo.
Il regista Brady Corbet – con questo film che in redazione abbiamo avuto l’occasione di vedere – fallisce clamorosamente nel rappresentare l’architettura che egli stesso definisce brutalista, ma che di brutalista non ha nulla. Il film mescola confusamente elementi architettonici di movimenti diversi (Bauhaus e brutalismo), senza mai cogliere l’essenza degli stessi. Il risultato è un’estetica incoerente, che tradisce il titolo stesso dell’opera.
Eppure, i temi affrontati non potrebbero essere più interessanti e importanti, anche se emotivamente indigesti: l’Olocausto, l’identità ebraica, il sogno americano, l’esperienza degli immigrati, la natura dell’arte e della bellezza. Ma anche sul piano narrativo, la trama si perde in un racconto frammentario e superficiale. Il tema di Israele, per esempio, viene introdotto senza mai essere sviluppato, aleggia timidamente, lasciando la sensazione di un discorso incompleto e privo di direzione.
In sintesi, The Brutalist è un film che non riesce né a parlare d’architettura né di identità, fallendo su entrambi i fronti. “Non c’è niente di più irritante per gli appassionati di quando il mainstream cerca di ritrarre il loro mondo di nicchia e fallisce”, scrive il New York Times, che consiglia l’ascolto di un podcast sul film di tre importanti critici di architettura americani intitolato Why the Brutalist is a Terrible Movie.
Pubblichiamo quindi la traduzione in italiano dell’articolo scritto da Aneta Vasileva, docente di storia e teoria dell’architettura all’Università di Ingegneria Civile e Geodesia di Sofia, originariamente apparso in bulgaro sulla testata online Toest.
Il fraintendimento The Brutalist
Inizierò in modo diretto. Questo film è talmente sbagliato che non merita neanche un articolo, tantomeno premi, ma poiché ne ha ormai collezionati non pochi (compreso il Leone d’Oro a Venezia e qualche Golden Globe) ed è stato uno dei principali favoriti per l’Oscar come miglior film. Eccovi qualche motivo per lasciarlo perdere.
Ovviamente sono al corrente che in pratica tutti gli architetti lo hanno già visto. In fin dei conti spuntano così di rado film con architetti come protagonisti. Io personalmente l’ho visto a novembre, a una delle due proiezioni nell’ambito del festival Kinomania. La sala era piena di architetti, che poi in silenzio ne sono usciti confusi. Speravo che il film sarebbe rimasto lì, tra le episodiche proiezioni dei festival, senza sfilare per le sale cinematografiche dei centri commerciali bulgari, e nemmeno soltanto a Sofia. Ma guardate cosa fanno comunicazione aggressiva e qualche premio immeritato.
Questa è soltanto una piccola parte di ciò che non va nel film, che mostra anche ciò che non va per principio nella concezione della gente (e di Hollywood) di cosa sia l’architettura e di cosa facciano gli architetti.
La storia è banale
Un architetto modernista ungherese (Adrien Brody), diplomato alla Bauhaus e sopravvissuto all’Olocausto, emigra negli Usa dopo la fine della Seconda guerra mondiale per scontrarsi con il sogno americano. Tra peripezie, umiliazioni, lavori nell’edilizia e drammi personali prova a terminare l’edificio della sua vita nella provinciale Pennsylvania – una sorta di ambizioso centro culturale con teatro, scuola e cappella in uno, in memoria della madre del milionario locale Lee Van Buren (Guy Pearce).
Un architetto del genere in realtà non è mai esistito, ma la storia è una combinazione di molte figure note allo sfinimento. Scommetto che il copione è stato scritto con l’intelligenza artificiale, alla quale sono state date in pasto le parole chiavi “architettura”, “dramma”, “qualcosa di figo e popolare” e ha riversato un mucchio di cliché per ottenere una rappresentazione caricaturale di tutto ciò che di più noto c’è nella professione.
Innanzitutto abbiamo la Bauhaus, perché è famoso il tragico destino della più influente scuola di architettura e design tedesca, creatrice del volto moderno del design del XX secolo e chiusa da Hitler nel 1933. Il nostro tragico eroe László Tóth è diplomato alla Bauhaus, ovviamente, e diventa il più famoso architetto modernista prima della guerra: evidentemente a una tenera età. È ebreo, come diversi di coloro che hanno terminato e insegnato alla Bauhaus. Anche se lui emigra non dalla Germania nazista (così come – avete indovinato – gli architetti della Bauhaus), bensì dalla già socialista Ungheria del 1947, dopo essere sopravvissuto in un campo di concentramento.
Un fatto storico è che la salita al potere di Hitler in Germania e la definitiva chiusura della scuola obbliga gran parte degli studenti e insegnanti della Bauhaus liberali e scomodi ai nazisti a lasciare il paese. Così le idee della scuola tedesca e del modernismo moderno raggiungono molti paesi, compresi gli Usa.
In America però il nostro protagonista è povero, incompreso ed emarginato.
E qui la linea sulla Bauhaus si esaurisce già. Perché è attestato che tutti gli emigrati della Bauhaus negli Stati uniti sono ben accolti e danno forma alla cultura architettonica americana per decenni. Insegnano in prestigiose università, progettano edifici importanti e creano il modernismo globale di massa, ovvero il cosiddetto stile internazionale. Il nostro protagonista invece si rivela un modernista emarginato nella Filadelfia postbellica, in cui il modernismo si costruisce già dagli anni Trenta del XX secolo e dove gli studi architettonici con piacere avrebbero accolto il più talentuoso modernista emigrato. E invece. Il copione qui prende un’altra, inaspettatamente drammatica direzione. László non progetta edifici. Realizza mobili, lavora nei cantieri, poi come disegnatore tecnico, ma rimane povero ed emarginato. Finché non incontra il suo ricco mecenate.
Poi abbiamo Aza. Il grande architetto visionario e individualista, che distrugge ogni cosa lungo il suo cammino, convinto della propria ragione. Qui senza dubbio The Brutalist attinge con forza da un altro terribile film che ha per protagonista un architetto: La fonte meravigliosa (1949), tratto dall’omonimo romanzo di Ayn Rand. Howard Roark è anche lui un incompreso architetto modernista che rifiuta con forza appalti per grattacieli, violenta donne e fa esplodere complessi residenziali. Ma almeno è interpretato da Gary Cooper.
E infine abbiamo la Biennale di Venezia, l’evento più influente nel mondo dell’architettura, in cui gli architetti hanno la loro speciale biennale dal 1980 a oggi, ogni due anni. Proprio lì e proprio nel 1980 il nostro fittizio architetto modernista László Tóth riceve il primo riconoscimento pubblico grazie a una speciale mostra in suo onore. Solo che (per tornare ai fatti) la prima Mostra Internazionale di Architettura della Biennale curata da Paolo Portoghesi ha per tema La presenza del passato e per lo più teorizza e legittima il post modernismo architettonico degli Ottanta, quella giocosa inclinazione al collage dell’epoca. In un evento del genere spazio per una mostra di un vecchio modernista con l’atteggiamento da eroe partito per una missione importante non ci sarebbe potuto essere.
E ora sul brutalismo.
La locandina del film
Il manifesto del 1923 di Joost Schmidt
Nel film non c’è brutalismo
Perfino la locandina è una copia del manifesto di Joost Schmidt della prima mostra pubblica Bauhaus ufficiale del 1923. Ricordo di nuovo a tutti coloro che non sono storici dell’architettura: il Bauhaus non è brutalismo. (Perché lo sceneggiatore e regista Brady Corbet e la sua collaboratrice Mona Fastvold evidentemente non si siano consultati con storici dell’architettura è un’altra domanda.)
Nessuno nel film parla direttamente di brutalismo, ovvio (tranne che nel titolo). Il nostro eroe opera in un tempo in cui il brutalismo non c’è ancora, e l’influenza dell’unità abitativa marsigliese di Le Corbusier non ha raggiunto gli Stati Uniti. Il Brutalismo inizia prima in Europa e Inghilterra come reazione al modernismo internazionale del Bauhaus e si diffonde ampiamente negli anni Sessanta e Settanta nel mondo intero.
Va bene, direte voi, László ha semplicemente anticipato i tempi, è un genio. Ha un destino brutale e lavora con il materiale preferito dei brutalisti: il cemento a vista.
Eppure ecco che qui ci scontriamo con l’ennesimo fraintendimento architettonico in questo film.
Sì, il brutalismo è un tentativo di formulazione di una nuova modernità, ma i suoi seguaci idolatrano l’etica, la questione morale di cui dev’essere satura l’architettura. Si contrappongono all’estetica fine a se stessa. I sostenitori sono per i “materiali onesti” che danno forma all’edificio con le loro reali caratteristiche, non aggiuntivamente estetizzate. Ma l’ultima cosa che interessa a László Tóth sono i problemi sociali. Lui è un artista con la A maiuscola.
Però il brutalismo è sexy. Ed è tra i più imperterriti cliché architettonici. Qualunque dilettante con lа pretesa di interessarsi di architettura li riconosce, possiede qualcuno degli stupendi e pesanti libri di edifici in cemento usciti negli ultimi anni e sa che quella è la corrente preferita, che tutte le “persone ordinarie” amano odiare, mentre tutti gli architetti la adorano. Ah, e anche l’aiutante intelligenza artificiale del nostro Brady Corbet evidentemente è a conoscenza della stessa cosa.
Ma andiamo avanti.
La scenografia del film è tragica
Com’è possibile, con così tanti edifici sexy di cemento in tutto il mondo, chiedere alla sceneggiatrice del film American Hustle di farti il modellino dell’opera magna di László Tóth e riprendere questo grandioso edificio del nostro protagonista nel cantiere meno convincente che abbia mai visto? Quell’edificio non ha niente in comune con gli altissimi mostri di cemento dell’epoca, bensì è una miscela tra il monumentalismo di Louis Kahn e un crematorio e molto probabilmente è stato progettato con il programma di intelligenza artificiale Midjourney.
Invece di filmare architettura reale in un ambiente reale. Ma chiedete a qualunque autore di video pubblicitari di automobili, fotografi di servizi di moda e registi dei film di James Bond che perfetto sfondo è il cemento autentico degli autentici edifici brutalisti. Che sono quelle colonnate poco convincenti tipo cartongesso spatolato? Che sono quelle assurde colonne tipo cisterne sotterranee di Istanbul?
E infine, il tema che io, non essendo una critica cinematografica, non dovrei commentare. Però dai, dato che i critici cinematografici commentano liberamente l’architettura in questo film, lasciatemi scrivere qualcosa anche sulla “maestria cinematografica”.
Da un film sull’architettura mi aspettavo una cinematografia migliore e sicuramente una migliore sceneggiatura. Sì, lo ammetto, le inquadrature con l’arrivo a New York sono impressionanti (e nuovamente influenzate dalle diagonali Bauhaus, i costruttivisti russi e i loro film e manifesti.) In generale nella prima parte di questo film rovinosamente lungo c’era davvero atmosfera ed emozione. Forse perché non era ancora arrivata l’architettura.
Ma cosa succede ai protagonisti dopo? Non vengono sviluppati e rimangono poco convincenti.
Ho già detto che il film dura 3 ore e 35 minuti (con l’intervallo)?
Com’è possibile in così tanto tempo rimanere senza capire cosa muova l’architetto protagonista, a parte la sua aria afflitta e la forzata tossicodipendenza? Questa persona non parla neanche una volta di architettura, del perché e del come fa le cose. Parla di cemento, sì, di quanta bellezza ci sia nella sua rozzezza, ma rimaniamo senza capire perché voglia realizzare un centro pubblico come un campo di concentramento e una chiesa come un crematorio, a parte il fatto che ha un trauma (del quale allo stesso modo non si parla, così come gli altri personaggi del film tacciono i propri drammi).
C’è però qualcosa di buono in questo film. E accade in Italia.
Le cave a Carrara sono una scenografia impressionante e il messaggio più importante del film. Che ogni artista è in realtà servo e giullare di corte di colui che commissiona e paga per la sua arte. Chi può commissionargli una biblioteca, poi cacciarlo, poi farlo tornare a progettare l’edificio della sua vita per accoglierlo come un feudatario medievale alla propria tavola per divertirlo con conversazioni sull’architettura per cena. E infine può fare ciò che vuole con lui, compreso violentarlo nelle cave di marmo di Carrara.
Questa è la più potente metafora della posizione in cui gli architetti moderni spesso si collocano da soli, e il più potente messaggio di questo film, che è bene ricordino, siano essi fautori di palazzi per dittatori o politiche urbane per milionari tecnologici.
Si ringraziano Aneta Vasileva e An Pham per aver gentilmente acconsentito alla pubblicazione dell’articolo in italiano. Traduzione dal bulgaro di Giorgia Spadoni.