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Se nell’odierna Istanbul qualcuno dovesse uscire per andare a fare la spesa al mercato, per una puntata in libreria o dal barbiere, e perfino se dovesse essere invitato per un pranzo o una kafa a casa di amici, questa persona potrebbe stare certa di un fatto incontrovertibile: un uomo, da ogni muro, la starà osservando.
Non si tratta di un apparato poliziesco di tipo totalitario, e neanche della curiosità dei locali nei confronti dei turisti, a Istanbul se ne vedono fin troppi: eppure da ogni angolo di strada, da almeno una delle pareti di ogni casa e in ogni luogo, sia pubblico che privato, si può star certi che da qualche parte campeggi il ritratto di Mustafa Kemal, meglio conosciuto come Atatürk, il “padre dei turchi”.
È quel ritratto a osservarci mentre camminiamo per le vie di Istanbul, Ankara e di buona parte della Turchia moderna, ed è quell’uomo che cento anni fa, il 29 ottobre 1923, guidò nel bene e nel male la popolazione turca fuori dalla crisi dell’Impero ottomano verso la proclamazione di una repubblica che esiste ancora oggi.
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Il Trattato di Sèvres e la fine dell’Impero ottomano
L’Impero ottomano, nato nel 1299 e sopravvissuto per oltre seicento anni, era rimasto sostanzialmente in pace fino al 1878. Con la conquista di Costantinopoli nel 1453 i turchi avevano spazzato via i resti del morente Impero bizantino.
Guidato dalla dinastia ottomana, l’Impero si propose da un lato come luogo di tolleranza, nel quale trovarono rifugio migliaia di intellettuali cristiani in fuga dalle guerre di religione che devastavano l’Europa; e dall’altra come guida e faro dell’Islam sunnita, con l’imperatore che venne designato come Califfo, ossia guida della più ampia comunità musulmana al mondo.
L’Impero ottomano nei secoli successivi giunse ad occupare un vastissimo territorio comprendente, oltre alla penisola anatolica, anche i Balcani, il Vicino e Medio Oriente, il Nordafrica e parte del Caucaso, estendendo la propria influenza linguistica, religiosa e culturale non solo all’Asia centrale, luogo di provenienza delle popolazioni turche, ma anche all’Africa sahariana.
In questo contesto a partire dal Settecento si innescò però una crisi dello Stato ottomano, che divenne una compagine elefantiaca a fronte di un’Europa senz’altro più dinamica e innervata dai successi della rivoluzione industriale.
Il punto di rottura dell’Impero fu innanzitutto militare: dopo il 1878 e fino al 1914 si innescò una grave crisi nei Balcani. Molti stati divennero indipendenti, e caddero sotto l’influenza dell’Austria-Ungheria, che giunse a controllare indirettamente l’attuale Bosnia e Erzegovina, e della Russia, che dopo la conquista della Crimea volle proiettarsi nella regione stringendo rapporti di dipendenza con Serbia e Bulgaria. La perdita dei territori balcanici in seguito a una serie di guerre nei primi anni Dieci del Novecento fu l’inizio della fine per l’Impero.
La Prima guerra mondiale vide, per giunta, l’Impero Ottomano schierato per così dire dalla parte perdente della Storia. Alleato di Austria-Ungheria e Germania, l’Impero ottomano venne attaccato sul proprio suolo da truppe britanniche sulle spiagge di Gallipoli, anche se la vera sconfitta militare avvenne più a sud, nelle terre abitate a maggioranza dagli arabi.
Nel 1916 lo sharif della Mecca, al-Ḥusayn ibn ʿAlī Al Hashimi, si autoproclamò Re dell’Hijaz, una regione dell’Impero ottomano, e con l’appoggio britannico e francese diede inizio alla rivolta araba che in poco meno di due anni liberò dalla presenza ottomana le città di Baghdad, Gerusalemme e Damasco.
In ritirata da tutti i fronti e con l’esercito ridotto a un sesto della consistenza originaria, ai turchi non rimase altro che chiedere l’armistizio, mentre la stessa Costantinopoli era sotto i bombardamenti aerei delle forze britanniche.
Il Trattato di Sèvres, uno dei documenti conclusivi della Conferenza di Pace di Parigi, sancì la definitiva dissoluzione territoriale dell’Impero. Le potenze europee si spartirono i territori al di fuori dall’Anatolia, con la Francia che ottenne Libano, Siria e Iraq del nord, mentre i britannici si aggiudicarono il resto dell’Iraq, la Palestina e la Transgiordania.
L’Italia ottenne le Isole del Dodecaneso, mentre il presidente statunitense Wilson garantì la formazione di una Armenia indipendente e un referendum per decidere il futuro dei territori abitati prevalentemente dai curdi.
La città di Istanbul fu occupata dalle truppe dei vincitori, e lo stretto dei Dardanelli, il Bosforo e il Mar di Marmara – nevralgici per lo sviluppo commerciale e militare turco – vennero occupati dalle truppe straniere, smilitarizzati e posti fuori dall’influenza ottomana.
L’Impero perse tutti i territori al di fuori dell’Anatolia e, agitato da turbolenze politiche al suo interno, smise di fatto di esistere.
Atatürk e i Giovani Turchi
La crisi dell’Impero ottomano fu, tuttavia, anche una crisi eminentemente politica. Nel 1875, a seguito della costosissima guerra di Crimea, l’Impero si ritrovò sommerso dai debiti contratti con i creditori francesi e britannici. Il sultano Abdul Aziz fu costretto a dichiarare bancarotta, e venne trovato morto poco più di un anno dopo, ufficialmente per suicidio.
Dopo l’effimero regno di Murad V salì al potere Abdul Hamid II, che approfondì le politiche reazionarie dei predecessori: ultimo sovrano con poteri realmente assoluti, fece promulgare inizialmente una costituzione per poi di fatto ritirarla insieme ai diritti politici e civili concessi ai sudditi turchi, e i suoi temibili soldati, i bashi-bazouk, repressero nel sangue una rivolta di bulgari, massacrandone oltre 100mila.
Tuttavia, la stretta autoritaria del sultano non impedì l’aggravarsi delle condizioni economiche disastrose in cui versava l’economia imperiale. Questo, unitamente all’indipendenza dei vari stati nei Balcani e alla perdita dell’Egitto, ormai controllato dai britannici, favorì lo sviluppo di un movimento nazionalista, i cosiddetti Giovani Turchi.
Ufficialmente chiamato Comitato per l’Unione e il Progresso, questo movimento fortemente nazionalista si sviluppò a Salonicco, dove la censura era minore, e si diffuse rapidamente in tutto il territorio ottomano. I Giovani Turchi, soprattutto ufficiali dell’esercito e intellettuali cittadini, avevano come obiettivo trasformare l’Impero in una monarchia costituzionale, con particolare enfasi sul dominio dell’elemento etnico-nazionale turco a scapito di altre minoranze presenti nel territorio ottomano, come arabi, armeni, curdi.
Uno dei principali leader del movimento, Mustafa Kemal, divenne ben presto leader di un grande movimento modernizzatore e, nel 1908, organizzò una vera e propria rivolta contro il potere del sultano. I reparti armati dei Giovani Turchi attaccarono Istanbul, vi entrarono senza trovare grande resistenza – grazie anche all’ampia diffusione del movimento fra i ranghi dell’esercito – e costrinsero Abdel Hamid II a ripristinare la costituzione del 1876. Da questo momento in poi, nonostante la presenza del sultano, il potere nell’Impero venne gestito in realtà dal governo nazionalista.
In questo contesto il potere di Mustafa Kemal crebbe e con esso quello del movimento nazionalista. Tuttavia, l’esito estremamente negativo della Prima guerra mondiale rimise in discussione il potere dei Giovani Turchi, che vennero accusati dalla popolazione della disfatta subita e dei trattati che di fatto smembravano i territori dell’Impero.
Il nuovo sultano Mehmet VI sciolse il parlamento turco il 22 dicembre 1918 e tentò di tornare a una forma assolutistica di potere, stringendo rapporti con il Regno Unito e inviando Mustafa Kemal in Anatolia centrale, formalmente con incarico di ispezionare la smobilitazione dell’esercito, ma in realtà con l’obiettivo di allontanarlo dalla politica attiva.
Arrivato a Samsun, nella Turchia settentrionale, Mustafa Kemal non perse tempo e iniziò a organizzare un esercito nazionalista. Ben presto si crearono due centri di potere: quello imperiale del Sultano, nella Istanbul occupata dagli alleati; e quello fondato da Mustafa Kemal ad Ankara, nell’Anatolia centrale, in spregio all’autorità imperiale. Mustafa Kemal proclamò infatti la Grande Assemblea Nazionale turca (Gan) con lo scopo di creare una repubblica laica e nazionale nel territorio sotto il proprio controllo.
Le truppe nazionaliste di Kemal si scontrarono con i greci, che avevano provato ad occupare Smirne approfittando della debolezza degli ottomani, e in poco tempo repressero nel sangue le rivolte armene e curde scoppiate in diverse aree anatoliche. Infine, il Kuva-yi Milliye [esercito della nazione] di Mustafa Kemal, si scontrò anche con il Kuva-yi Inzibatiye, ossia l’esercito del califfato controllato dal Sultano, sconfiggendolo.
Mehmet VI fuggì a bordo di una nave britannica mentre i Giovani Turchi presero il potere a Istanbul. Il 23 luglio 1923 il Trattato di Losanna venne firmato dalla delegazione di Ankara con i britannici e i francesi, e vide riconosciute sia la riconquista di parte del territorio perduto a Sèvres operata dai nazionalisti, sia il potere della Gan come governo turco legittimo. Il 29 ottobre la Grande Assemblea Nazionale si sciolse, proclamando quella Repubblica turca che esiste ancora oggi.
La Turchia contemporanea fra mito di Atatürk e sindrome di Sèvres
Ancora oggi la figura di Mustafa Kemal, che dal 1934 si fece chiamare Atatürk, è fondamentale nella narrazione che la Turchia costruisce attorno alla propria storia.
Non soltanto il Partito Popolare Repubblicano, il più antico partito turco fondato da Mustafa Kemal stesso, è oggi il principale partito di opposizione e la più grande forza laica e socialdemocratica della Turchia, ma lo stesso attuale presidente Recep Tayyip Erdoğan – in teoria un avversario del kemalismo – ha intitolato ad Atatürk le recenti esercitazioni militari congiunte con l’Azerbaigian avvenute anche in Nagorno-Karabakh. Infatti, bisogna dire che per buona parte dei turchi Atatürk è oggi una figura positiva, simbolo di secolarizzazione e modernizzazione.
In effetti è innegabile che Mustafa Kemal e i Giovani Turchi costruirono una repubblica laica, in cui l’Islam ebbe un ruolo pubblico marginale, tanto che ad esempio il governo vietò di indossare il velo nei luoghi pubblici, con una legge che rimase in vigore per oltre ottant’anni, fino all’ascesa di Erdogan e dell’Akp.
Mustafa Kemal costruì uno Stato profondamente laico, controllato da un partito unico che lasciò poco spazio al dibattito democratico, introducendo una serie di riforme come quella del sistema giuridico, l’abolizione di sultanato e califfato, alcune leggi per raggiungere la parità fra uomo e donna e un generale processo di secolarizzazione del sistema politico. Per mantenere la laicità dello Stato, inoltre, Mustafa Kemal affidò all’esercito turco il ruolo di difensore della costituzione.
Qui possiamo evidenziare dunque i primi due grandi aspetti dell’eredità kemalista nella Turchia contemporanea. Da un lato una forte tendenza alla separazione fra l’elemento religioso musulmano sunnita, pur maggioranza nel paese, e lo sviluppo dello stato laico. L’altro, più controverso, è il ruolo estremamente attivo dell’esercito turco nel condizionare la politica interna della Turchia, con ben quattro di colpi di Stato che hanno costellato la storia turca fra il 1960 e il 2016.
Al netto di questo ragionamento, tuttavia, la valutazione storica di Mustafa Kemal non può prescindere da un evento drammatico, di cui troppo spesso si ignora l’esistenza. Si tratta dei massacri ai danni della popolazione armena che iniziarono formalmente nel 1915 e si conclusero nel 1919, anche se già alla fine dell’Ottocento il sultano Abdel Hamid II aveva messo in atto una repressione eliminando fra i 100mila e i 300mila armeni.
Tuttavia, il genocidio del 1915 avvenne in scala del tutto diversa, coinvolgendo oltre un milione e mezzo di persone che vennero deportate e uccise in nome di un ideale panturco nazionalista probabilmente condiviso, a quel punto, sia dal governo dei Giovani Turchi, sia dalle autorità imperiali.
Il governo repubblicano non ha mai accettato di prendersi la responsabilità del genocidio armeno, addossandolo alle estinte autorità imperiali, e anzi la Turchia ha sempre negato la natura genocidaria preordinata degli eventi preferendo evitare l’argomento e punendo con il carcere chiunque abbia mai provato anche soltanto ad accennare alla questione, come lo storico Altuğ Taner Akçam o lo scrittore Orhan Pamuk che due anni fa è stato di nuovo indagato per i contenuti del suo più recente romanzo, considerati ironici nei confronti della figura di Ataturk.
Di certo la ritrosia dello Stato turco nel riconoscere il genocidio armeno passa anche attraverso la difficoltà a interpretare la figura di Mustafa Kemal e i Giovani Turchi in chiave critica.
In effetti, la fondazione della Repubblica di Turchia e la figura di Atatürk sono ancora oggi i pilastri fondativi del discorso politico sia di maggioranza sia di opposizione nel paese, e la perdita dei territori durante la Prima guerra mondiale ha dato origine a una vera e propria teoria del complotto condivisa a livello di massa secondo la quale agenti esterni – solitamente paesi definiti “occidentali” – cospirerebbero per privare la Turchia dei propri territori e della propria sovranità.
Questa teoria, chiamata dagli esperti “sindrome di Sèvres”, viene molto spesso usata come grimaldello politico non solo dai nazionalisti, ma anche dallo stesso Erdoğan, per accusare di volta in volta le minoranze – curde, armene o altre entità – di essere manovrate dall’Occidente e minare le fondamenta dello stato turco.
Gli stessi recenti bombardamenti turchi contro il Kurdistan de facto indipendente sono stati giustificati con la difesa della repubblica turca e con un senso di rivalsa nei confronti della spartizione di territori che i nazionalisti turchi considerano come propri. In effetti è innegabile che sia il trattato di Sèvres, sia gli eventi che portarono alla fondazione della repubblica hanno ancora oggi un peso estremamente rilevante nella politica e nella società turche.
Nato nel 1992, vive e lavora a Varese. Laureato in Scienze Storiche all’Università degli Studi di Milano, ha studiato lingua e cultura cinese e trascorso un periodo di studio all’Università di HangZhou, Zhejiang, Repubblica Popolare Cinese. Oggi è docente di lettere nella scuola secondaria. Appassionato di storia e politica sia dell’Estremo Oriente, sia dei Paesi dell’ex blocco orientale, ha scritto per The Vision e Il Caffé Geopolitico ed è autore di due romanzi noir: Il corpo del gatto (Leucotea, 2017) e Un nido di vespe (Fratelli Frilli, 2019). È redattore di Scacchiere Storico, associazione di ricerca e divulgazione storica nata nel 2020.