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Il dibattito, ormai quasi trentennale, sui drammatici eventi avvenuti in quello che può essere chiamato “confine adriatico” è stato modellato attraverso una narrazione che si è articolata tra due termini chiave, foibe ed esodo, con cui si è imposta una specifica visione politica ancor prima che storica. I due termini concorrono a costruire un regime discorsivo per cui l’intero arco delle vicende accadute viene appiattito sulla centralità delle violenze subite dalla popolazione italiana e sul loro forzoso abbandono di territori come l’Istria e la Dalmazia, in seguito alla guerra e agli accordi tra le forze partigiane jugoslave, gli Alleati e il governo italiano.
Le foibe e il washing storico-politico
Questa narrazione storica dai toni vittimistici, coltivata fin dal dopoguerra negli ambienti conservatori, monarchici e ultranazionalisti, è diventata egemone negli anni Novanta, appoggiandosi sull’utilizzo da parte di stampa e ricerca del concetto di “totalitarismo” in maniera spregiudicata e, soprattutto, decontestualizzata. La paradossale trasparenza dell’uso di questo concetto aveva degli scopi chiaramente politici: a destra esso servì per distillare e legittimare agli occhi dell’opinione pubblica le “virtù” nascoste del regime fascista, a sinistra per chiudere definitivamente con l’eredità del Pci.
La narrazione delle foibe, in sostanza, divenne lo strumento con cui la destra regolò i conti politici con la sinistra e con la storia italiana, in una vera e propria operazione di washing storico-politico. La dimensione perturbante che circonda questa terribile operazione sta però pian piano tornando a galla, in particolare per quanto riguarda la natura coloniale del regime fascista. Agli studi ormai classici come quelli di Angelo Del Boca o Nicola Labanca sul colonialismo fascista in Etiopia e Abissinia (esperienze che affondano le loro radici nelle guerre imperialiste condotte della Monarchia nei decenni tra la fine dell’Ottocento e lo scoppio della Prima guerra mondiale) si stanno affiancando ricerche sul colonialismo nascosto sul confine orientale.
Il martirologio nazionalista sulle foibe, attraverso questa puntuale opera di decostruzione storica, si mostra per quello che è: manufatto confezionato ad arte che nega la realtà dei fatti e riduce lo scoppio di una violenza interna a una guerra civile e a una guerra di liberazione a prodotto di un fantomatico odio razziale atavico dei popoli slavi verso gli italiani.
Lo storico Eric Gobetti è uno degli autori più impegnati su questo fronte. I suoi studi, concentrati sul rapporto tra regime fascista e area balcanica, hanno fatto luce su tali avvenimenti in un periodo di ripresa del revisionismo e del revanchismo nazionalista su larga scala. Il volume Alleati del nemico (Laterza, 2013) presentava l’esperienza italiana nei paesi balcanici come esperienza di occupazione militare dai forti connotati razzisti e anticomunisti, espressasi in una violenza tale da non fare invidia alle truppe tedesche.
Un suo secondo volume, uscito nel 2020 e intitolato, con simpatica provocazione, E allora le foibe? (Laterza, 2023), è un piccolo e prezioso vademecum che attacca, punto per punto, i vizi di forma e le semplificazioni della narrazione sulle foibe e sull’esodo. A completare questa ideale trilogia è il volume, uscito pochi mesi fa e intitolato I carnefici del duce (Laterza, 2023), con cui l’autore mette un altro importante tassello nell’opera di decostruzione di questo uso improprio della public history, facendo emergere il dato materialmente brutale delle violenze fasciste nei contesti coloniali, quelli della regione balcanica nello specifico.
In maniera preliminare, infatti, si può affermare che Gobetti assesta il primo colpo alla narrazione mainstream sul colonialismo fascista evidenziando la rigida etica dello sterminio nei confronti delle popolazioni balcaniche, definite spregiativamente “allogene”, e l’inesistente moralità dei funzionari del regime, degli alti gradi dell’esercito e del corpo militare. Sfuma, così, quella mitologia legata a una maggiore bontà d’animo dei militari italiani rispetto alla furia barbarica dei tedeschi che, come ha analizzato Filippo Focardi in uno suo importante studio, Il cattivo tedesco e il bravo italiano (Laterza 2014), fu prodotta ad hoc nel dopoguerra per delegittimare l’intera esperienza fascista presentandola come aliena e distante dal popolo e in qualche modo sottolineando il valore militare e patriottico del comportamento dell’esercito e delle stesse gerarchie militari.
Invece Gobetti, muovendosi tra la memorialistica, gli archivi giudiziari e quelli storici, evidenzia come la differenza tra il comportamento delle truppe di occupazione italiane e quelle tedesche fu solo di ordine quantitativo e non di ordine morale: alla paventata ed evidente ferocia ideologica fascista dei gerarchi corrispose l’immediata esecuzione degli ordini di questi ultimi sul campo che va ben oltre l’arendtiana “banalità del male”.
Il colonialismo italiano
L’esperienza italiana di occupazione dei Balcani, a fianco di e in collaborazione con le politiche espansioniste del Terzo Reich, può essere a tutti gli effetti definita di stampo coloniale per una duplice motivazione. Il primo di questi motivi attiene a una dimensione cronologica che vede il regime fascista impegnato in operazioni belliche sin dalla metà degli anni Trenta sullo scacchiere africano, per poi continuare con il sostegno attivo garantito al fascismo franchista durante la guerra civile spagnola, per poi riversarsi sulla penisola balcanica subito dopo lo scoppio della Seconda guerra mondiale. Il secondo ordine di motivi, conseguente al primo, è il combustibile ideologico che nutre il regime: la mitologia della forza civilizzatrice dell’impero romano, plasmata per reggere le aspirazioni espansioniste e imperialiste sull’intera area mediterranea della cricca mussoliniana, combinata e stratificata insieme a un diffuso odio anticomunista.
Nel contesto balcanico, il pensiero operativo dell’esercito e delle bande utilizzate in funzione anti-partigiana associò ulteriormente questo sentimento politico a un più concreto odio razziale, riducendo fattivamente partigiani e popolazione civile a un indistinto nemico inferiore ideologicamente e biologicamente. In nome di una più vasta crociata anticomunista mondiale, le amministrazioni italiane lavorarono in sinergia con gli ustaša (movimento fascista croato) ed i cetnici di Draža Mihailović (movimento monarchico serbo), moltiplicando la ferocia e paradossalmente appaltando le brutalità ai gruppi nazionalisti.
Senza dimenticare il particolare, scientemente dimenticato dalla pubblicistica e dalla storiografia mainstream, che l’esercito italiano usò tutti i mezzi necessari per governare i territori occupati e gestire la fondamentale opera di logoramento delle bande partigiane riunitesi poi sotto la guida di Tito: campi di concentramento per dissidenti, rappresaglie contro i civili con annessi saccheggi e stupri, amministrazione sommaria della giustizia. Tutto questo fatto con la famosa perizia dell’esercito italiano, in cui al dilettantismo gestionale – questo sì, distante anni luce dalle scientifiche macchine di produzione di morte che furono i lager nazisti – si aggiungeva del cinismo personale, caratteristiche che per usare le parole dello storico furono
il risultato di un meccanismo perverso dove si intrecciano improvvisazione, indifferenza, disordine amministrativo, distanza fra normativa e prassi (ad esempio, circa la quantità di cibo da destinare agli internati), veri e propri abusi e casi di corruzione tollerati, se non gestiti direttamente dai comandanti.
(Eric Gobetti, I carnefici del duce)
Per usare un termine di ascendenza psicanalitica, questi elementi sono il perturbante, ovvero l’orrore sempre presente, che ha accompagnato le ricostruzioni storiche sin dalla fine della guerra, ricostruzioni che hanno condizionato anche la possibilità di inchiodare le gerarchie militari agli orrori connessi. È noto il fatto che il neonato governo democratico e poi repubblicano italiano non avallò la concessione fisica degli imputati ai tribunali jugoslavi in vista di un processo da svolgersi in Italia, che ovviamente non avvenne mai e permise agli imputati di vivere a piede libero e di poter narrare la propria versione dei fatti.
I conti mancati col passato coloniale
Ma chi furono questi? Tra i personaggi maggiori e minori discussi da Gobetti nel volume, emergono le figure di Alessandro Pirzio Biroli e di Mario Roatta, rispettivamente comandante militare italiano nella provincia di Lubiana e Governatore del Regno di Montenegro. Il primo, infatti, sperimentò direttamente sul territorio le tecniche antiguerriglia usate in Etiopia, normalizzando la violenza diffusa e giustificandola in virtù della forza civilizzatrice rappresentata dalla volontà ideale. Il secondo, entrato in scena con l’intensificarsi della guerriglia partigiana che cominciava ad avere anche il consenso della popolazione, fu colui che emanò la Circolare 3c, autorizzando lapidariamente le rappresaglie sui civili attraverso il seguente ordine: “testa per occhio”, che nelle mani dei generali sul campo diventò “si spara troppo poco”.
Le indicazioni fanno trasparire il feroce disegno sterminatore della governance militare fascista, che sostituì l’alone di bontà e stupidità che circondava la rappresentazione dei militari italiani con il terrore derivante dall’uso indiscriminato della forza. Cosa ancora più grave è rappresentata dagli eventi successivi, che videro Pirzio Biroli morire a fianco dell’esercito badogliano e Roatta morire a piede libero nel 1968, senza mai essere processato come criminale di guerra e anzi in grado di rivendicare la propria appartenenza ideologica e la giustezza delle tecniche utilizzate in guerra contro i resistenti ed i civili, sprezzantemente ridotti a barbari da eliminare.
Questa violenza si diffuse a pioggia dai vertici alla base delle truppe, autorizzando saccheggi e rappresaglie sommarie, trasformando ‘padri di famiglia in lupi’, facendo tabula rasa dell’esistente in nome di un progetto di italianizzazione dell’area balcanica, considerata come Lebensraum (spazio vitale) dai gerarchi e dagli strateghi di regime.
Squadernare questi processi significa chiamare le cose con il proprio nome: quello italiano fu un progetto coloniale, che si alimentava degli stereotipi di un razzismo biologico di ascendenza lombrosiana e che dunque vedeva questi spazi come elementi femminili da conquistare, redimere e sottomettere – nella più classica casistica della riduzione della propria patria a madre e sposa e nella caratterizzazione sessualmente brutale degli spazi da dominare – e che non fu secondo a nessuno in fatto di brutalità.
Rimettere le cose al posto giusto
In questo puzzle, ben poca cosa è la narrazione sulle violenze subite dagli italiani durante e immediatamente dopo la fine della guerra. Ignorando il clima nel quale queste ultime avvennero, e ignorando come gli stessi italiani passarono nelle file della resistenza jugoslava sia come disertori che per affinità ideologiche, questa narrazione è monca, falsificante ed è stata strumentalizzata da personaggi istituzionali non molto dissimili da Roatta, che anzi con quest’ultimo possono condividere il culto della gerarchia e l’identificazione tout court con una identità nazionale che legittima l’esistenza di una comunità immaginaria e, dunque, si rivela come illusione consolatrice attraverso cui creare ciò che materialmente non esiste: unità biologica e razziale associata a unità territoriale definita.
Il libro di Gobetti è una boccata d’aria fresca nel miasma delle retoriche nazionaliste e nostalgiche di tutte le risme, puntando ancora una volta la luce del lavoro storico sugli eventi che a distanza di settant’anni continuano a essere travisati e negati. In questo senso, in questo lavoro vivono egualmente una sollecitazione di stampo foucaultiano e una di stampo blochiano. La prima fa tesoro dell’indicazione che il sapere, in questo caso la ricerca storica, è fatto per prendere posizione ed è dunque una pratica antagonista rispetto alle verità ufficiali. La seconda, invece, assume il compito diagnostico della ricerca storica, ovvero la capacità di leggere gli eventi attraverso le stratificazioni in essi contenute e di trovare soluzioni nel presente attraverso lo studio del passato.
In un frangente storico in cui la guerra è tornata a essere un elemento del quotidiano e in cui la pedagogia del dolore impera perversamente nei mezzi di comunicazione mostrando, in forma ossessiva e quasi compiaciuta, gli effetti delle violenze, leggere il libro di Gobetti può servire a demistificare l’alone di eroicità che caratterizza le retoriche belliche e nazionaliste e il cinismo con cui le violenze vengono giustificate. Soprattutto, libri come questo servono a praticare una critica quotidiana del colonialismo che, volontariamente o involontariamente, si produce e viene riprodotto: esercitare il diritto alla critica, portando alla luce il buco nero del nazionalismo, è di certo una bussola luminosa in questi tempi oscuri.
I carnefici del duce di Eric Gobetti, Laterza, 2023