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Provare a fare il punto sulla guerra in Ucraina, è operazione abbastanza complicata. La guerra è un vettore che sprigiona tutta la potenza delle singole crisi che essa porta al suo interno. Non solamente una crisi economica ed energetica, ma anche una crisi ideologica e quella della forma-stato. Proprio la funzione e la struttura dello Stato, nel contesto della guerra, hanno subìto una mutazione irreversibile. Esso, infatti, ha mostrato la propria funzione di macchina bellica e macchina di propaganda ideologica rivolta contro il ‘nemico’, producendo un’unità fittizia con il popolo e cercando aiuto presso gli alleati, diffondendo e moltiplicando ad una immediata scala globale le proprie ragioni.
Queste dinamiche, ovviamente, avvengono in entrambi gli schieramenti, con differenti intensità e differente coinvolgimento emotivo: l’aggressiva ed energica propaganda del presidente ucraino Volodymyr Zelens’kyj ha fatto da contraltare alle apparizioni televisive di Vladimir Putin, agli interventi di Dmitrij Medvedev e di Sergej Lavrov. Con una fondamentale differenza: la medesima grammatica della guerra riesce a provocare due risposte emotive opposte. Da un lato la russofobia, già da tempo presente, si è diffusa nuovamente in Europa occidentale e negli Stati Uniti, come una sorta di guerra santa per i valori liberaldemocratici a cui tutti devono aspirare. Dall’altro lato, l’accettazione sic et simpliciter delle versioni ucraine come le uniche possibili ha spesso trasformato il dibattito pubblico in uno spazio di produzione stucchevole di notizie palesemente embedded, perimetrando lo spazio del dibattito su posizioni antitetiche e assolute.
Il dibattito di poche settimane fa sui missili ricaduti in territorio polacco, fino alla effettiva smentita da parte del governo ucraino, così come i bombardamenti russi sulla centrale nucleare ucraina di Zaporižžja, mettono costantemente in apprensione politici e osservatori per la portata letale di una crisi nucleare, soprattutto dal punto di vista umanitario. Per chi osserva, senza un posizionamento ideologico che non sia immediatamente votato alla soluzione negoziale-pacifica rispettosa della vita delle popolazioni coinvolte, la domanda è, paradossalmente, semplice: come orientarsi in questo labirinto in cui gli eventi sono costantemente in movimento e la complessità aumenta progressivamente?
Frontiera Ucraina. Guerra, geopolitiche e ordine internazionale (Il Mulino, 2022) di Francesco Strazzari è un’ottima bussola per muoversi dentro questo labirinto, non rinunciando a una presa di posizione, ma assumendo per l’appunto la complessità come elemento imprescindibile con cui fare i conti e da cui partire.
Dal punto di vista ‘formale’, il libro si compone di tre densissimi capitoli in cui l’autore prova a riportare la situazione con i piedi a terra. A differenza della copiosa pubblicistica degli ultimi mesi, uno dei principali meriti di questo libro è la rinuncia a qualunque forma di narrazione ideologica o fondata su frontismi geopolitici, ovvero su schemi di lettura immediati e fuorvianti della realtà. Strazzari, invece, cerca di seguire sia dal punto di vista storico che da quello politico le evoluzioni e le trasformazioni convergenti e divergenti di Ucraina e Russia, prima di mettere a confronto, nel terzo capitolo, le elaborazioni teoriche sugli assetti geopolitici. Ed è proprio interrogando i vuoti e i silenzi sui processi e sulle dinamiche che molti analisti hanno sottovalutato – come i quelli di democratizzazione, liberalizzazione, chiusure identitarie – che Strazzari porta al pettine tutti i nodi che sono tragicamente sfociati nella guerra.
Il primo capitolo del libro è intitolato ‘Ucraine’ e ha come oggetto la storia dell’Ucraina, quella parallela alla macro-storia dell’Unione Sovietica e quella turbolenta dell’ultimo trentennio. Già scossa geograficamente, l’Ucraina si è trovata sospesa tra due mondi, come una specie di cerniera indesiderata tra il desiderio di essere parte attiva dell’Europa e dell’Occidente e i richiami delle minoranze russofone e le ingerenze russe. Il ruolo della Crimea, in questo senso, è altamente indicativo di questa situazione di incertezza. La penisola, infatti, è stata al contempo la meta preferita dei burocrati e degli alti dirigenti russi e lo spazio di esercitazioni Nato negli anni Novanta ed in quelli seguenti: uno spazio strategico per entrambi i contendenti, simbolo dei lati oscuri delle fughe in avanti politiche. Il desiderio di democrazia della popolazione ucraina, (ri)sorto in seguito alla fine dello spazio sovietico, è stato costantemente accelerato tanto dai governanti che dalla classe politica nazionale ed internazionale, sottovalutando i rischi di una tale rincorsa. Di conseguenza, i processi di liberalizzazione politica ed economica sono stati degli shock, ovvero hanno creato delle oligarchie che hanno polarizzato la ricchezza e monopolizzato il potere politico, escludendo fattivamente qualunque esperienza di riforma.
Gli eventi di Majdan del 2014 segnano un ulteriore spartiacque nella storia ucraina e nelle relazioni con la Russia. Da un lato, un moto di piazza spontaneo in cui vi era in ballo il presente e il futuro della fragile democrazia ucraina, dall’altro lo smembramento dello spazio territoriale statale con la secessione del Donbas a opera delle entità separatiste filorusse (aiutate direttamente e indirettamente da Mosca). Nella spontaneità dell’Euromajdan, movimento fluido e ambiguo come tutti i movimenti sociali, si fecero via via spazio le minoranze organizzate ultranazionaliste e neonaziste che, come spiega chiaramente Strazzari, approfittando del vuoto politico nella società civile e della separazione – questa sì, tipicamente occidentale! – tra strutture di governo come i partiti e i bisogni della popolazione, riuscirono a ritagliarsi un importante protagonismo e a imprimergli una violenta russofobia, discorsiva e materiale. Il battaglione Azov, glorificato dai media e dalla politica occidentale, è un prodotto di quel processo sociale, così come la retorica patriottica e ultraspettacolare di Zelens’kyj, che non per caso proviene dal mondo dell’intrattenimento mediatico.
Ma proprio l’inflazione della retorica ultra-nazionalistica, come evidenzia l’autore, continua a nascondere le vulnerabilità di un processo di democratizzazione che non si è sviluppato compiutamente, che continua a essere rimandato alla fine dell’emergenza bellica e che si ritroverà probabilmente con le stesse problematiche precedenti allo scoppio della guerra. L’occidentalizzazione forzata dagli eventi, per quanto desiderabile, continua ad essere problematica.
Al lato opposto della barricata vi è la Russia, a cui Strazzari dedica il secondo capitolo del libro. Se in Ucraina il processo di democratizzazione istituzionale è andato avanti in maniera altalenante tra ingerenze estere e oligarchie interne, la disgregazione del colosso sovietico ha lasciato macerie evidenti in Russia, con evidenti effetti dal punto di vista economico, sociale ed istituzionale. La debole leadership di Boris El’cin aprì alle relazioni con i paesi occidentali da una posizione di estrema inferiorità, dando spazio tanto alla volatilizzazione delle ricchezze, fondamentali alla creazione di una casta di oligarchi legati sempre a doppio filo con i circoli politici e militari, quanto al declino internazionale della stessa Russia. Queste dinamiche portarono alla creazione di un revanchismo interno, stimolato sempre dai circoli militari, che trovarono in Putin il proprio referente. Sotto la sua ventennale presidenza, infatti, la Russia ha ritrovato la sua antica propensione imperiale nei confronti dei paesi appartenenti alla ex sfera sovietica e più in generale a quella che geopoliticamente è chiamata ‘Eurasia’, ottenuta attraverso lo sforzo bellico ed una rinnovata retorica anti-americana e più generalmente antioccidentale. In questo caso Strazzari parla della Russia come ‘potenza revisionista’ che vuole ritornare alle condizioni globali pre ’89, con una netta divisione in aree di influenza. Putin, infatti, è il vertice di un think thank politico che grazie a personaggi come Surkov (le cui peripezie romanzate sono state descritte da Giuliano da Empoli nel recente bestseller Il mago del Cremlino) e Aleksandr Dugin ha trasformato la Russia in baluardo della civiltà religiosa e tradizionale che si oppone alle società liquide e che cerca di radicarsi negli stessi sistemi politici europei, stringendo legami e finanziando partiti nazionalisti e neo-fascisti o gruppi di tradizionalisti religiosi.
Il progetto putiniano prevede infatti un’Eurasia con al centro la Russia, in grado di ristabilire le proprie linee di influenza, anche attraverso la repressione interna e le operazioni militari nei confronti dei nemici. Il pericolo di un’Ucraina europea appartiene proprio al nucleo di questo discorso revisionista e revanchista, ovvero la paura derivante dall’essere circondati, di non poter più esercitare la propria influenza, di non avere peso a livello globale. L’evoluzione degli eventi bellici, in effetti, non è andata secondo i desiderata del Cremlino, che ha risposto attraverso massacri indiscriminati come quello di Buča, terrorizzando la società civile ucraina e quella russa, ripiegando dai territori conquistati per limitare le perdite. Nonostante queste strategie siano perdenti, e nonostante il sostegno militare occidentale all’Ucraina, Putin ed i suoi capi di stato maggiore sono in attesa dell’inverno per provare a ribaltare la situazione.
I diversi equilibri rispetto alle prime settimane di guerra rischiano di favorire due scenari: il primo, come sottolinea Strazzari, è un’ancora più violenta reazione russa all’accerchiamento ucraino e a quello occidentale; il secondo è quello determinato da una Russia de-putinizzata, secondo la volontà ucraina e americana, ma senza un reale processo istituzionale e politico in direzione di una compiuta democratizzazione del paese.
Il terzo capitolo del libro si occupa delle teorie geopolitiche. Teorie che, come evidenzia chiaramente l’autore, forzano quello è che considerato un approccio realista alle relazioni internazionali che, ignorando le condizioni sociali di ogni singolo paese o area geografica, si limita a considerare le variabili militari e pensa in termini di sfere di influenza. Un discorso così evidentemente statocentrico o, per meglio dire, fondato sull’idea di ‘stato imperiale’ calate dall’alto, non può che sostanziarsi nella creazione di una ulteriore expertise da spendere mediaticamente o accademicamente, incarnata nella figura dell’analista geopolitico da talk show e nella stantia professione di fede realista che si polarizza in due posizioni esclusive. La prima è quella occidentale, ossequiosa della dottrina di Zbigniew Brzezinski, per cui la costruzione di un’Ucraina occidentale funge da testa di ponte per il definitivo indebolimento della potenza russa. La seconda è quella portata avanti dal Cremlino, per cui la denazificazione del territorio ucraino favorirebbe la costruzione di una reale democrazia. In questo caso, la posizione europea è stata assolutamente ambigua, perché interessata all’allargamento a est della propria sfera politica ma legata economicamente alla Russia, come nel caso del progetto del gasdotto Nord Stream 2. Il sostegno militare alla resistenza ucraina e le sanzioni rivolte alla Russia non hanno semplificato la situazione ma la hanno addirittura aggravata, perché hanno permesso alla stessa Russia di fare il bello e il cattivo tempo sul mercato energetico (da cui l’Europa, Germania in testa, era assolutamente dipendente) e agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna di fare la voce grossa in materia di scelte strategiche.
Il grande valore del libro di Strazzari sta proprio nel superare queste posizioni simmetriche e nel cercare un punto di vista post-coloniale ancora in nuce. Grazie a questo innovativo insieme di punti di vista, suggerisce l’autore, è possibile osservare il groviglio delle relazioni internazionali prestando attenzione ai fattori culturali ed antropologici che compongono il discorso geografico e non dunque osservando da spettatori a una infinita partita di Risiko. In questo senso, osservare criticamente la geopolitica vuol dire problematizzarla e metterla a contatto con le faglie reali, culturali, umane ed ideologiche. Unire, sostanzialmente, critica della geopolitica e critica della biopolitica come elementi propulsori di un discorso altro rispetto alla profusione di dottrine e strategie militari.
Per concludere, sfruttando gli spunti che questo libro fornisce si può affermare che le due visioni che si combattono sul suolo ucraino sono due visioni egemoniche neo-imperiali che nei differenti impianti ideologici mostrano qualche elemento di vicinanza. In una prospettiva concretamente multipolare e pacifista, simul stabunt-simul cadent. A detta di chi scrive bisognerebbe quindi sostenere contemporaneamente la resistenza della popolazione ucraina e quella russa, senza nessun tipo di gerarchia ideologica, ma mettendo al centro proprio il desiderio di libertà a cui entrambe aspirano. Lottare per la pace, vuol dire mettere al centro dell’agenda dei movimenti e delle politiche internazionali un nuovo assetto multipolare del mondo, che possa essere liberato dalle pastoie delle zone di interesse e dalla forza brutale con cui le due ideologie imperiali contrapposte dell’americanismo e dell’eurasiatismo russo hanno trasformato le popolazioni in bersagli mobili.
Un movimento pacifista forte, inoltre, deve sfuggire la trappola dell’umanitarismo, che rafforzerebbe una delle due posizioni descritte brevemente in precedenza, ma radicare il proprio rifiuto della guerra nel rifiuto della violenza e nel dissenso e nella costante diserzione al richiamo lugubre verso la macchina militare patriottica. Solo così, riconoscendo dignità a chi si oppone fattivamente alla guerra, e non cercando un consenso emotivo mediato dai mezzi di comunicazione informatici, la pace può essere costruita come momento costituente di una nuova Europa, che sappia aprirsi ai propri confini orientali senza scatenare sentimenti fratricidi o revisionisti, e senza trasformare le democrazie autoritarie in alleati necessari per sconfiggere non meglio precisate minacce.