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Siamo a cavallo tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo e ci troviamo in una delle terre economicamente più povere di tutto l’impero austro-ungarico: la Galizia, regione storica dell’Europa centrale e orientale, oggi geograficamente situata tra la Polonia meridionale e l’Ucraina occidentale. Un tempo parte del Regno di Rutenia e più tardi possedimento della Corona austro-ungarica con il nome di Regno di Galizia e Lodomeria, è la protagonista indiscussa di due saggi dello scrittore e giornalista austriaco Martin Pollack, pubblicato in Italia dalla casa editrice Keller. Il primo, intitolato Galizia. Viaggio nel cuore scomparso della Mitteleuropa(traduzione dal tedesco di Fabio Cremonesi, 2017) è un racconto dettagliato della storia di questa terra lontano dai mari, un viaggio nel tempo in quel mondo mitteleuropeo ormai scomparso; il secondo, L’imperatore d’America. La grande fuga dalla Galizia (traduzione dal tedesco di Enrico Arosio, 2022), è invece un resoconto corredato da foto basato su ricerche e studi meticolosi effettuati dall’autore che segue le storie di singoli migranti galiziani, tracciandone percorsi e destini perlopiù tragici.
Un esodo del passato che si riversa nel presente
Siamo tornati a parlare di migranti e migrazioni. Anzi, forse non abbiamo mai smesso di farlo, semplicemente è facile accantonare e voler dimenticare quello che riteniamo un problema irrisolvibile della società moderna ma che, purtroppo, si trascina da sempre nella storia dell’uomo, la cui indole migratoria è naturale. Il fenomeno lo studia bene Martin Pollack nella sua nuova opera giornalistica L’imperatore d’America dove l’autore viaggia a ritroso nel tempo, nella Galizia di fine Ottocento, raccogliendo dati, statistiche, atti giudiziari, processi, fatti e storie degli emigranti galiziani che sognano di salpare oltreoceano per ammirare di persona la famosa Statua della Libertà, alla ricerca di un futuro migliore.
Attirati da quelle centinaia di promesse che elogiano una vita libera, ricca e agiata, i galiziani non si rendono conto che la vita del migrante è tutt’altro che rose e fiori e che il calvario che li attende spesso e volentieri mette a repentaglio e in discussione la loro vita di provincia.
Di cronache sull’amara sorte di qualche emigrante polacco o ucraino partito per l’America, nei giornali galiziani se ne trovano parecchie, mentre le storie positive sono più rare. Non ci sono racconti di meravigliose carriere di povera gente che da lavapiatti è diventata milionaria, né storie di montagne d’oro e fiumi di latte e miele. In compenso si apprende qualcosa sulle dure condizioni di lavoro in America, esperienze fallimentari, disoccupazione, sfruttamento, speranze andate in fumo.
Artigiani, contadini, venditori ambulanti finiranno per diventare letteralmente schiavi in terra straniera, ingaggiati per pochi soldi nelle miniere di carbone della Pennsylvania o a costruire ferrovie oltreoceano dopo viaggi in nave di settimane (se non mesi) sugli interponti e in condizioni deplorevoli: “Il fatto che il Suevia, anziché seicento passeggeri, come previsto, ne trasporti quasi il doppio, lascia immaginare le condizioni in cui Mendel Beck e i suoi compagni hanno trovato l’interponte. Persone delle più diverse nazioni, religioni e lingue, che tra loro possono comunicare solo a fatica, stipate in spazi minimi: donne, uomini, bambini, alla rinfusa; unica separazione prevista, i lavatoi e i gabinetti, che dopo breve tempo si trovano in uno stato indescrivibile.”
Frugando nella storia di queste genti e studiandone il carattere seminato di fatalismo e coraggio che contraddistingue i popoli di queste aree, la penna giornalistica di Martin Pollack, nel suo L’imperatore d’America, cerca di far comprendere le ragioni che hanno spinto gli abitanti della Galizia prebellica a intraprendere questi viaggi oltreoceano: che ci piaccia o meno, sono tutte scelte legate alle condizioni di vita particolarmente dure e difficili che aleggiano su questa gente, disposta a mollare tutto perché… non ha nulla da perdere! La Galizia, come viene ripetutamente ricordato in questo saggio, è la regione più povera di tutto l’impero austro-ungarico, caratterizzata da analfabetismo, disoccupazione e povertà: Pollack dedica un intero capitolo (La miseria galiziana in cifre) proprio a questo fenomeno. Sballottata com’è nel corso degli anni, non diventerà mai una terra economicamente appetibile nemmeno per i suoi abitanti.
Dopo la Prima guerra mondiale la Galizia verrà cancellata dalle carte geografiche e incorporata nella Polonia ritornata indipendente; le speranze dei ruteni, che adesso si chiamano ucraini, di un proprio Stato nazionale verranno annientate dalle truppe polacche.
Chi sono i migranti accolti dall’imperatore d’America?
Tra il 1881 e il 1910, più di un quarto della popolazione ebraica della Galizia si trasferisce negli Stati Uniti d’America.
Basta scorrere l’incipit e la nota del traduttore sulla trascrizione dei toponimi per rendersi conto di come la Galizia sia una terra che trasuda di una varietà linguistica, etnica e culturale impressionante: “La Galizia pre-1918 era una Babele di lingue: dal polacco al tedesco, dallo slovacco all’ucraino all’yiddish”, fa notare il traduttore Enrico Arosio.
La confusione – per il lettore ma non solo – giunge all’orecchio fin dalle prime righe: “Fino al 1899 si chiama Brutócz, in ungherese, poi, sempre in ungherese, Szepesszentlörinc, in tedesco diventa Brutowetz, ma è anche detta Stenzelau o Stenzelhaus, gli emigranti slovacchi la chiamano Brutovce, e in ruteno − nel borgo vivono anche ruteni, ovvero ucraini − suona Brutivcy. Sono un bel po’ di nomi, per una parrocchia di 150 anime, in prevalenza slovacchi di fede cattolica.”
Si tratta effettivamente di una regione talmente variegata che è difficile fare un censimento per nazionalità o appartenenza etnica: è popolata da ucraini, polacchi, ungheresi, slovacchi, tedeschi, ebrei che si identificano a volte come tedeschi, altre come ucraini; insomma è un mélange che abbraccia un multiculturalismo con cui oggi facciamo fatica a rapportarci poiché incanalati in quella categorizzazione di “nazione = lingua”.
Gli insediamenti tedeschi in Galizia sono all’incirca per metà protestanti e per metà cattolici. Al censimento del 1880 nell’intera terra della Corona si contano 324 mila tedeschi: su una popolazione di quasi 6 milioni, è poco più del 5 per cento. La cifra, in realtà, è fuorviante, perché nel 1880 molti ebrei sono ancora conteggiati tra i tedeschi. Il censimento si basa sulla lingua parlata, e lo yiddish non è riconosciuto come tale, così che gli ebrei devono scegliere tra il tedesco, il polacco e il ruteno. Bisogna tener presente che nel 1880 almeno due terzi degli oltre 300 mila tedeschi di Galizia sono ebrei, i quali, già pochi anni dopo, opteranno in maggioranza per la lingua polacca.
Nel calderone dei migranti, perciò, ci finiscono tutti, senza molte discriminazioni iniziali sulle origini o la provenienza: l’importante è partire per terre più fertili, lontano da miseria e latifondismo, lontano dalla povertà. Ma per farlo occorre pagare, corrompere, adattarsi a condizioni ancora peggiori – se possibile. Eppure, anche solo abbandonare la Galizia e mettere piede in Germania era un sogno di molti, spesso trasformatosi in incubo.
In quegli anni erano due le città ad attrarre, oggetto delle prime tappe del grande esodo oltreoceano: Auschwitz (Oświęcim in polacco) e Amburgo.
Oświęcim, dunque. Auschwitz. Più della metà degli abitanti sono ebrei, e chiamano la loro città Oschpitzin. L’ex capitale del ducato di Oświęcim-Zator […] diventa, grazie alla propria posizione geografica, un importante centro di raccolta e smistamento per la grande migrazione in atto da Est verso Ovest.
Amburgo, invece, si era sviluppata sotto la direzione dell’armatore Albert Ballin (a cui Pollack dedica un intero capitolo) e della più grande compagnia di trasporti transatlantici, la Hamburg Amerikanische-Packetfahrt-Actien-Gesellschaft (Hapag), diventando, a cavallo del secolo, una metropoli cosmopolita sede di numerose compagnie di trasporti diretti verso l’America e l’Asia. Questo porto sassone, fulcro del commercio globale, si trasformò subito in un centro di raccolta per tutti gli europei dell’Est che desideravano emigrare nel Nuovo Mondo, terra dalle illimitate libertà. Non è un caso che il termine, tuttora utilizzato, per definire l’emigrazione economica in lingua polacca sia na saksy, ovvero: verso la Sassonia.
I sogni, però, non sempre rispecchiano la realtà e i galiziani dell’epoca (così come oggi moltissimi altri migranti) lo provano sulla propria pelle: “L’America non accoglie tutti coloro che bussano alla sua porta. Dall’ingresso negli Stati Uniti sono esclusi: malati e cagionevoli; minorati, malati di mente, epilettici; poveri e bisognosi che andrebbero a pesare sulla pubblica assistenza; persone responsabili di reati o dedite ad attività immorali, prostitute o soggetti sospettati di reclutare, o introdurre nel Paese, donne a scopo di prostituzione; soggetti praticanti la poligamia; anarchici o individui che professano la sovversione violenta del governo degli Stati Uniti o di Paesi terzi, o l’assassinio di pubblici funzionari; persone, infine, intenzionate a intraprendere un lavoro remunerato (a contratto) negli Stati Uniti in base a offerta, domanda, promessa o accordo.”
Commercio di donne (le cosiddette “carni delicate”), traffici illeciti, violenza e violenze, malattie ed epidemie, corruzione, antisemitismo galoppante: sono la polizia, gli agenti intermediari, i funzionari che speculano sulla vita degli altri, creando divisioni e alimentando problemi che si riversano nella società dell’epoca e che rimangono la base di quella odierna. Ed è questo che Pollack cerca di far trasparire con la sua ricerca che non manca di accuse, processi e denunce.
Le conseguenze dell’esodo galiziano, inizialmente destinato verso “l’imperatore d’America” ma che successivamente coinvolge anche paesi quali il Canada (nel 1891 sono due galiziani a dare il via alla diaspora ucraina in Canada), il Brasile e persino la Russia, si fanno risentire in tutto il territorio della Corona: “I rappresentanti dei tedeschi di Galizia lanciano l’allarme sulle conseguenze negative che l’emigrazione comporta per un gruppo etnico minoritario e già in pericolo. A Kranzberg, quando un tedesco mette in vendita il suo podere, la proprietà in genere viene acquistata da un polacco. I tedeschi temono sempre più di poter essere scacciati dalle loro terre d’insediamento, timore che a sua volta favorisce il desiderio di emigrare.”
Lettori e lettrici, armatevi di una buona mappa (anzi, di diverse mappe), che configurano quei confini labili galiziani e immergetevi nella lettura del saggio di Martin Pollack che torna indietro nel tempo in una regione storica scomparsa e ignota ai più per spiegare un fenomeno oggi più attuale che mai.
Traduttrice e redattrice, la sua passione per l’est è nata ad Astrachan’, alle foci del Volga, grazie all’anno di scambio con Intercultura. Gli studi di slavistica all’Università di Udine e di Tartu l’hanno poi spinta ad approfondire le realtà oltrecortina, in particolare quella russa e quella ucraina. Vive a Kyiv dal 2017, collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso, MicroMega e Valigia Blu. Nel 2022 ha tradotto dall’ucraino il reportage “Mosaico Ucraino” di Olesja Jaremčuk, edito da Bottega Errante.