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Pubblicato lo scorso anno dall’editore Stilo, Generazione Putin. Pagine dal 24 febbraio raccoglie le riflessioni che sono scaturite in una generazione di slavisti e slaviste italiani a partire dai tragici eventi iniziati ormai un anno fa e che sono ancora in corso. La collettanea, curata da Simone Guagnelli (Università di Bari), raccoglie le parole sofferte e prive di retorica di russisti e russiste la cui formazione professionale si è svolta negli ultimi trent’anni, ovvero un periodo di tempo durante il quale, anno dopo anno, si è visto un mondo sgretolarsi e distruggere se stesso e gli altri attorno a sé (fino e oltre il 24 febbraio 2022).
Il tono dei pensieri emersi da questa ferita è quello che caratterizza anche l’intervista che segue ad alcuni degli autori del volume e al curatore.
Partiamo dal titolo del volume, Generazione Putin. Trovo piuttosto significativo che nel caso russo si sia venuta a creare una sorta di – direi, morbosa – identificazione tra paese e leader. Contesti altrettanto repressivi e/o caratterizzati da una leadership duratura nel tempo (e non per forza dittatoriale: pensiamo anche solo alla Germania di Angela Merkel) non si sono tradotti in simili identificazioni nette. Trovate che sia un meccanismo in qualche misura “giustificato” nel caso russo o è piuttosto qualcosa di limitante, banalizzante? Cosa vuol dire essere, nel vostro caso, nel caso del libro, Generazione Putin?
Massimo Maurizio (Università di Torino): Non ho una passione sfrenata per questo titolo, ma capisco a che cosa rimandi. Qui si tratta di una generazione di slavisti (in realtà alcuni di quella generazione che ha vissuto intensamente la Russia tra la fine degli anni Novanta e il primo decennio dei Duemila), cresciuta all’ombra di uno stato che in maniera relativamente graduale, intendo fino al 2008, ha assunto i contorni di un’autocrazia oligarchica. Personalmente, l’appartenenza a questa “generazione” è dettata da un fattore principalmente anagrafico, nel senso che ognuno di noi ha intrapreso percorsi diversi e si è giustamente dedicato alle cose che lo interessavano, cosa che mi sembra dare al volume un’ampiezza e un respiro più ampi.
Per quanto mi riguarda, dal momento che mi occupo anche di letteratura e cultura post-sovietica e contemporanea, lo scontro e l’opposizione della cosiddetta intelligencija e del potere è qualche cosa di immanente alla scena culturale, con quei modi che spesso oggi vengono criticati, ma che in qualche maniera ricalcano (ricalcavano, prima del 24 febbraio) dinamiche di sopravvivenza tipiche della non-ufficialità sovietica, pur con differenze nette, certo, prima di tutto grazie a un mercato editoriale sostanzialmente libero e a figure di autori e organizzatori fondamentali, che si sono sempre poste in una relazione oppositiva rispetto al potere, rifiutando spesso collaborazioni attraenti, la carota dei premi letterari e dei finanziamenti pubblici, per esempio, delle traduzioni. Oggi si capisce bene quanto quel rifiuto totale di questo tipo di coinvolgimento fosse giustificato e lungimirante.
Giulia De Florio (Università di Parma): Non credo ci sia una banalizzazione ed è una prassi che non riguarda soltanto la Russia. Mi sembra, invece, che nel contesto internazionale sia piuttosto frequente identificare una leadership di lungo corso con la storia del paese. Si parla, tra gli specialisti, della Germania della Merkel o della Belarus’ di Lukašenka. E di per sé non implica un giudizio di valore positivo o negativo, è la constatazione di un dato che ha una certa importanza, per quanto, ovviamente, necessiti di contestualizzazione e approfondimento, pena l’eccessiva semplificazione.
Tuttavia, se un politico resta al potere per quindici o vent’anni è inevitabile che dia un’impronta di qualche tipo (Merkel, per esempio, in tutti i suoi mandati ha lavorato moltissimo per la politica interna della Germania, almeno secondo Danilo Taino) e di fronte a periodi medio-lunghi le linee di governo diventano più riconoscibili quando vengono messe in prospettiva. La Federazione Russa degli ultimi vent’anni è anche – in larga parte, direi – il frutto delle scelte, degli obiettivi e delle azioni di Vladimir Putin. Esaurisce il discorso politico, sociale o culturale del Paese? Ovviamente no, ma resta un dato rilevante da mettere in correlazione con molti altri.
Il titolo del libro, invece, era inizialmente un altro, ma l’intuizione di fondo del curatore, Simone Guagnelli, è a mio parere giusta: tutti gli autori – tranne Guido – hanno conosciuto e si sono formati nella Russia governata dall’attuale presidente. Questo ha toccato o riguardato ciascuno/a di noi in modo differente, è ovvio, ma tutti abbiamo fatto i conti con l’era putiniana, semplicemente per il fatto di visitare, esplorare e lavorare in quel paese durante i suoi mandati (considero i quattro anni di Dmitrij Medvedev in totale continuità con il governo di Putin).
Simone Guagnelli (Università di Bari): La domanda mi sembra quantomeno duplice e delicata. Da una parte c’è la questione dell’identificazione tra paese e leader che a me comunque non sembra un gioco applicabile o che si è applicato solo alla Russia di Putin. È esistita e in qualche modo esiste ancora una Italia di Berlusconi o berlusconiana. E non mi sto riferendo a una generica, banale identificazione storica tra un governante di lunga durata e una altrettanto lunga parte di storia di quel paese (e in quel senso, allora sì, si parla ovunque di Germania di Merkel, America di Roosevelt, Urss di Stalin), ma proprio di identificazioni tra caratteristiche del leader e quelle di un popolo. Chi come me è stato in Russia o all’estero dopo il ’94 avrà potuto sperimentare che, ci piacesse o no, noi eravamo quella roba lì che Berlusconi rappresentava agli occhi semplificatori dell’estero.
E un po’ la eravamo veramente. Figuriamoci quindi quando quel leader decide di invadere militarmente, senza attenuanti minimamente applicabili, un paese confinante: di fatto è tutta la nazione, tutto il popolo che precipita in quell’abisso, che vi partecipa. Un leader non combatte da solo, non invade da solo, lo fa se il clima popolare e gli strumenti di potere (che stava al popolo determinare e controllare) lo sostengono.
È la Russia a essere in guerra, non solo Putin. Sono i russi che stuprano le ucraine, per becera autoaffermazione personale o per assecondare le mire espansionistiche che il loro leader ha recuperato dall’immondezzaio della storia e incarna. Ovviamente questo non significa che tutti i russi siano d’accordo o che non si oppongano (per quello che possono) alla tragedia scatenata dal loro paese, ma l’identificazione tra leader e paese, per tornare all’incipit della domanda, mi sembra, nel caso russo, più che giustificata.
Dall’altra parte la domanda investe il titolo del libro e il significato che ha per me, in quanto curatore del libro, essere generazione Putin. Ora, come spiego nell’introduzione, per il titolo del libro avevo scelto qualcosa di più vago ed evocativo: Generation P, richiamando il titolo originale del romanzo di culto della fine degli anni Novanta in Russia di Viktor Pelevin – in italiano tradotto con il titolo di Babylon – che rappresentava la fase di passaggio dal sovietico al post-sovietico, dal comunismo al capitalismo, dall’ideologia alla pubblicità – la generazione Pepsi –, dal vecchio che non funziona più al nuovo che non si capisce bene cosa sia; fatto sta che vent’anni dopo la Pepsi è diventata Putin, su questo non ci sono dubbi.
Tutto questo però riguarda, o riguarderebbe, la Russia. Non dovrebbe invece riguardare chi la Russia la studia e cerca di interpretarla per professione, troppo spesso però con gli occhiali del topo di archivio rivolti verso la muffa della storia, del passato. Poi però arriva il 24 febbraio e sollevi la testa, ti rendi conto che (o almeno io e tutti gli autori del libro) è proprio quella Russia lì, dal 31 dicembre 1999, in poi che abbiamo vissuto, respirato, baciato, bevuto, amato (a volte odiato con sorriso bonario), in conclusione tramandato ai nostri studenti. Noi, come studiosi, siamo cresciuti con Putin (una ipotetica e non auspicabile voce enciclopedica direbbe: “Formatosi negli anni della Russia di Putin”), come potremmo non essere Generazione Putin? Come possiamo non fare i conti con tutto questo?
Ovviamente ciò non significa – e sarebbe ridicolo – che dovessimo fermarlo, contrastarlo (io peraltro ho almeno partecipato alle prime manifestazioni per la pace nel 2000 contro la Seconda Guerra in Cecenia – viene da lì la storia della copertina del libro – quando di russi in piazza ce ne erano comunque pochini e non certo per paura delle repressioni in atto oggi; ho inoltre collaborato con l’associazione Memorial, premio Nobel per la pace 2022, significa però che siamo parte di quella fetta di storia, avevamo un compito e una responsabilità nei confronti della Russia, dell’amore verso di lei e nei confronti delle nuove generazioni di studenti che probabilmente non abbiamo assolto fino in fondo o al meglio. Dovevamo sostenerlo molto di più il dissenso politico o civile, diffonderne le iniziative, rendere vigili e consapevoli gli studenti sul presente della Russia.
Marco Caratozzolo (Università di Bari): Credo che il meccanismo di identificazione della Russia con un leader sia un automatismo della storia di questo paese, in cui l’accentramento del potere è stata una caratteristica comune anche ai periodi di maggiore apertura.
Parliamo infatti della Russia petrina più che della Russia che si è occidentalizzata, della Russia di Alessandro II più che della Russia delle grandi riforme. Da quando mi occupo di cultura russa, non ricordo di aver studiato un momento storico con un procedimento avulso dall’identificazione del sovrano con quel determinato periodo: credo che quindi identificare la Russia con Putin non sia una banalizzazione del momento, ma un fatto consolidato da una tradizione e tutto sommato anche prevedibile, visto che in questo preciso momento la maggior parte di quello che vediamo della Russia passa sotto gli occhi del potere.
Questo non significa, come abbiamo cercato di dimostrare nella IX edizione di “Pagine di Russia”, che questo paese sia solo Putin, né che tutti seguano Putin sulla strada dell’attacco all’Ucraina e dell’avversione all’Occidente. Mi ero convinto all’inizio della guerra che ci fosse una grande fetta di popolazione contraria all’invasione e alla politica estera di questi mesi, ma ora questa mia convinzione si modifica e non so più esattamente cosa pensare.
Quanto al libro Generazione Putin, si tratta di un titolo che può evocare tante cose, ma il curatore Simone Guagnelli ha spiegato bene nell’introduzione che il principale collegamento tra Putin e gli autori non è necessariamente la volontà di spiegare cosa pensiamo di Putin, ma un fatto più che altro anagrafico, che porta curiosamente molti di noi a riflettere su una circostanza interessante: da quando andiamo in Russia, abbiamo visto quasi tutti e quasi sempre la “Russia di Putin” nelle sue trasformazioni, e quindi abbiamo elementi per giudicarla, soprattutto in un prospettiva diacronica, ma anche elementi per rivedere, come in un album fotografico, una Russia che, benché ancora sotto Putin, era diversa. Credo che le trasformazioni siano state molte, non sono d’accordo con chi sostiene che questi trent’anni siano stati tutti uguali.
L’invasione su larga scala iniziata il 24 febbraio 2022 si è tradotta (più di ogni altra azione criminale e abietta di cui il “mondo russo putiniano” si è macchiato nel tempo) in una rottura subitanea che per certi versi può ricordare l’effetto – ma è solo un esempio – degli attentati terroristici a matrice islamica: in fretta, il senso di disagio porta coloro che si sentono più prossimi alla realtà del “colpevole” a doversi dissociare, prendere le distanze, condannare, coltivare un certo senso di colpa. Come l’avete vissuto sulla vostra pelle? Esiste un sentimento di colpa dello/a slavista, a suo modo figlio/a profondamente intriso/a di una cultura sempre più spesso additata (anche superficialmente) come imperialista?
Massimo Maurizio: La riflessione sulla natura coloniale (leggi: imperialista) della cultura russa è cominciata prima della guerra, non credo sia una riflessione superficiale, ma al contrario che riguarda i modi e le abitudini di leggere una certa cultura. Ho sentito moltissimi amici e autori ammettere il senso di colpa, del quale parli tu.
Io sinceramente non credo, come non credevo nei primi mesi della guerra, in una colpa comune di tutti coloro che hanno un passaporto russo o il russo come lingua madre. Come detto prima, prese di posizioni pagate con il confinamento in una dimensione di cultura “altra” ci sono sempre state, e hanno un senso non solo e non tanto come dichiarazioni politiche, ma soprattutto come proposta culturale – e quindi esistenziale, – alternativa a quella conservatrice (sessista, machista, benpensante) del discorso ufficiale. Non a caso utilizzo in questa sede categorie tratte dall’opposizione sovietica ufficialità / underground, è da almeno un decennio e mezzo che questa dicotomia si è riaffacciata alla cultura, ma anche alla società russa.
Per quanto riguarda il “sentimento di colpa dello slavista”, personalmente non lo sento, come detto prima, la mia sfera di interessi mi ha sempre portato a occuparmi di argomenti lontani e spesso opposti alle dinamiche del potere e al russo-centrismo culturale – e non solo – che veicolava. L’ambiente culturale che ho frequentato in Russia è sempre stato alternativo a quello “ufficiale” dei premi e dei festival promossi dal governo, quindi la cultura che ho frequentato in Russia si è sempre mossa in questa direzione.
Personalmente, mi è capitato di rifiutare di collaborare con istituzioni governative russe a progetti di vario genere, quando mi è stato proposto; questo credo che sia una conseguenza diretta di ciò che mi ha formato, è una presa di posizione naturale, coerente con quella formazione. Certo, questo in parecchie occasioni ha portato a occupare una posizione defilata nell’ambito della slavistica, russa e italiana, ma, это дело житейское (sono cose che capitano, NdR).
Giulia De Florio: La condanna è per il regime dittatoriale di Vladimir Putin e del sistema corrotto e malato da lui creato e diffuso che ha portato, tra le altre cose, a una limitazione e violazione continua dei diritti umani all’interno della Federazione Russa e all’aggressione ingiustificata e ingiustificabile dell’Ucraina. Lo ribadisco, se non fosse chiaro.
Esiste poi, almeno per me, un senso di colpa. Anzi, esiste una gamma incredibilmente ampia di sentimenti che afferiscono più o meno al campo semantico ed emozionale della colpa: la felicità colpevole (avere dei momenti di pura gioia dopo il 24 febbraio dell’anno scorso mi sembrava quasi sbagliato. Razionalmente non ha senso, ma tant’è), la rabbia colpevole, la frustrazione colpevole… Ora è difficile ma necessario interrogarsi sul nostro ruolo di studiosi/e e professori/esse di lingua o cultura russa: capire come condurre le ricerche, con quale obiettivo portarle avanti.
Per me esiste anche il senso di colpa, e di impotenza, del “memorialec”, ovvero di chi fa parte del network di Memorial. La sua chiusura definitiva, in prima istanza a fine dicembre 2021 e in via definitiva il 28 febbraio 2022 (e non è un caso), è stato il primo durissimo colpo. Non poter aiutare come avremmo voluto amici e colleghi scappati dalla Russia, sapere i rischi che avrebbero corso di lì in poi quelli che sono rimasti, è qualcosa con cui molti di noi hanno dovuto imparare a convivere. Con scarsissimi risultati, ammetto. La totale impreparazione del nostro governo a rilasciare visti temporanei per coloro che erano in pericolo ha generato, almeno in me, ma credo in almeno un paio di amici che hanno provato in tutti i modi a sbloccare la situazione, una rabbia impotente che non auguro a nessuno di provare. Senza mai – mai – dimenticare che il tutto avveniva mentre migliaia di ucraini perdevano casa, amici, famigliari e, semplicemente, il loro paese.
Simone Guagnelli: Mi sono molto dilungato nella prima risposta e temo di poterlo fare ancora in seguito. E in parte ho comunque già anticipato in cosa consiste, almeno per me, quel senso di disagio (che so benissimo essere poco condiviso da buona parte dei miei colleghi) se non proprio di colpa. Io ho condannato e preso le distanze subito, senza se e senza ma. Continuo a farlo. E continuo a provare disagio per il silenzio o i distinguo di molti miei colleghi. Per molti in fondo non è successo niente, un bel “No alla guerra” (e ci mancherebbe) e si riparte con il convegnino, con il saggino, con il viaggino, con il finanziamentino. “La Russia è bella, la Russia è altro”, ripetono (a sé stessi): cosa peraltro vera, ma, ahimè la Russia ora è soprattutto “questa cosa orribile” e non potevamo/possiamo far finta di niente e non schierarci. Mi vengono in mente i versi del 1931 di Georgij Ivanov, poeta di quella emigrazione russa tornata tristemente attuale:
“La Russia è gioia, la Russia è luce
Ma forse la Russia non c’è […]
La Russia è silenzio, la Russia è cenere
Ma forse la Russia è solo paura […]
Una corda, un proiettile, alba da condannati
Su ciò che al mondo non ha nome”.
Marco Caratozzolo: Sì, non posso negarlo, in quei giorni ho cominciato ad andare a lezione, sia nel corso di lingua, sia in quello di cultura russa, con un senso di colpa perfettamente comprensibile, benché ingiustificato, sul quale, se non ricordo male, ho persino fatto un post (io che non sono molto prodigo su Facebook). Ovviamente il senso di colpa è qualcosa di ingiustificato scientificamente, giacché, mi sembra lapalissiano, insegnare il russo e la sua letteratura non vuol dire essere putiniano, ma non era possibile liberarsene, tanto più quando sono cominciate le notizie che riguardavano l’ostracismo, anche a volte un po’ spettacolare e spettacolarizzato, ad alcuni eventi riguardanti la cultura russa.
C’è altresì da dire che non era subito chiaro cosa stesse succedendo e quanto sarebbe durato, quindi questo groviglio di spiacevoli sensazioni era complicato ulteriormente dall’imprevedibilità. Personalmente mi sono sentito molto spaesato, ma è chiaro che il mio spaesamento era una condizione assolutamente irrilevante se paragonata alla sofferenza di chi era ed è sotto le bombe e di chi (in second’ordine ovviamente) vive con vergogna l’appartenenza al paese che ha sferrato questo attacco.
Ne sono uscito fuori in virtù di un insieme di circostanze: abbiamo cominciato con la Stilo a lavorare al nuovo festival e abbiamo, non senza fatica, prodotto un comunicato stampa molto chiaro sull’invasione. Usare le parole giuste è giusto, ma non è facile. Poi è venuto Generazione Putin, che ci ha impegnato in una riflessione preziosa e condivisa, e poi il festival, che ha travolto sia gli organizzatori che gli attori: travolto in senso emotivo, nello svolgimento della sua funzione principale, che è quella di informare e far riflettere.
A tal riguardo, per l’appunto, quanto è corretto pensare alla cultura russa come a una cultura imperialista? Non sono imperialiste le culture nazionaliste in genere? E non è la cultura di lingua russa proprio ricca ed eterogenea nel suo essere composta da moltissime voci non solo dissidenti, ma anche “territorialmente” e “culturalmente”altre?
Massimo Maurizio: Da quanto detto in precedenza si evince la risposta a questa domanda. L’idea di imperialismo culturale si accompagna, a mio avviso, a una visione imperialista di stampo politico, da qui la preminenza data alla cultura di lingua russa, afferente alla cultura russo-centrica nello spazio post-sovietico. Non voglio ripetermi, ma le manifestazioni culturali della contemporaneità di cui ho parlato prima si muovono nella direzione opposta, nel senso di un deterioramento del paradigma russo-centrico all’interno dello spazio linguistico russo, penso a scrittori come Sorokin, Levkin e molti altri.
Giulia De Florio: Questa domanda necessita almeno di un paio di mesi di riflessioni e ne porta con sé molte altre – dalla de-colonizzazione culturale al problema identitario – e non credo di poter dire, in poche righe, qualcosa di intelligente a proposito. Ci sono moltissimi studiosi che hanno discusso la questione da molteplici prospettive, penso per esempio ad Aleksandr Etkind, ma la lista è lunga e i punti di vista e le posizioni in campo (e parlo soltanto di studiosi e studiose russe) sono le più varie. Credo sia importante affidarsi a quegli studi che propongono una lettura basata su un metodo chiaro e argomentabile, che stabiliscono, prima di tutto, i criteri in base ai quali si può (o non si può) definire una cultura imperialista. Se no, si parla a vuoto e male, come accade troppo spesso nel nostro, di paese.
Quello che posso dire è che il discorso parte da lontano, e la cultura russa in primis si interroga da tempo sulla questione: lo fanno sociologhe, storiche, letterate (soprattutto i poeti e le poetesse), ma anche i giornalisti, i performer, i rapper.
L’idea era senz’altro prevalente in buona parte dell’élite intellettuale russa che, però, sappiamo costituisce una percentuale minima e poco rappresentativa della società. Dopo il 24 febbraio c’è stata senz’altro un’accelerazione fortissima sia dei processi che portavano alla cosiddetta de-colonizzazione culturale, ma anche del dibattito circa la necessità di portare avanti un’agenda di questo tipo e in che modo nel nuovo contesto bellico.
Simone Guagnelli: Sono imperialiste molte culture nazionaliste, non tutte. Imperialista è l’America, imperialista è la Cina. Dubito sia imperialista la cultura ungherese, per fare un esempio tra mille, per quanto intrisa di nazionalismo. La cultura russa è storicamente imperialista e nazionalista, c’è poco da discutere, è fin troppo evidente e sotto gli occhi di tutti. Questo, ovviamente, non significa che al suo interno, come dici tu, non ci siano voci “territorialmente” e “culturalmente” altre, o proprie ma dissidenti. Ce ne sono assai. Ma il punto è sempre quello, per tornare alle domande e risposte precedenti: quanto noi specialisti siamo interessati a quelle voci altre? Mi pare poco, e ancor meno è interessato “il mercato”, il “dibattito”. La speranza era ed è proprio che possano svilupparsi e diventare predominanti o bilancianti proprio quelle voci.
Marco Caratozzolo: Credo, parafrasando Tolstoj, che ogni cultura nazionalista sia imperialista alla sua maniera. Anche quella della Russia lo è, lo è stata e lo sarà, ma certamente in una maniera differente. Un libro molto importante nella mia formazione in questo senso è stato La foresta e la steppa di Aldo Ferrari, in cui vengono mostrate (con chiarezza e profondità) le caratteristiche dell’imperialismo russo e le sue differenze con quello occidentale.
La conquista del territorio straniero e l’inclusione dell’elemento “altro” hanno avuto in Russia altri percorsi, l’immensità del suo territorio ha reso secondario il possesso di colonie lontane, e al netto delle cose terribili che ora vediamo, sicuramente ci sono state circostanze della storia russa a cui l’Europa avrebbe dovuto guardare con interesse, ad esempio l’abitudine delle università sovietiche di dare borse di studio (e integrare perfettamente), e non poche, a studenti dell’Africa, un continente a cui in quel periodo l’Europa guardava con un altro tipo di interesse.
Sono cose che ho sempre osservato con curiosità e volontà di approfondire, ma capisco anche che a pochi giorni dal primo spettrale anniversario di questa terribile guerra, risulta difficile valutare con la stessa intensità un fatto, anche positivo, del passato, e un attacco armato ingiustificato di queste dimensioni.
Quanto è importante allora studiare (e tradurre, e insegnare, e divulgare) la cultura russa e di lingua russa oggi, dopo il 24 febbraio e alla luce del 24 febbraio?
Massimo Maurizio: Vorrei dire che oggi, come sempre, occuparsi e soprattutto diffondere cultura, qualunque essa sia, è importante e fondamentale per un discorso di pace. Credo tuttavia che, parlando da russista italiano, oggi sia estremamente importante comprendere quanto e cosa sia attuale, e non parlo ovviamente, soltanto della cultura contemporanea, ma di tutti quei paradigmi del passato che mettevano in discussione l’unicità di pensiero e istruivano al dubbio, di cui la letteratura, il cinema, la musica, l’arte russa abbondano. La storia del dissenso culturale (da quello sovietico al Diciannovesimo secolo, ma anche al Diciottesimo, la cultura popolare precedente, il primitivismo, il folclore, e molto, molto altro) è testimonianza di uno scollamento tra la visione culturale dominante e quella del quotidiano, quella reale.
Mi sembra che l’importanza della divulgazione della cultura mai come oggi sia importante come discorso su un fenomeno complesso, visto come crogiolo di umori e sentimenti contrastanti e conviventi, piuttosto che come semplice nozionismo o adesione al canone della letteratura (ovviamente questo vale in mille altri campi), della letteratura russa in Italia, peraltro dettato da considerazioni oggi inattuali e che spesso esulano da meriti eminentemente letterari.
Sarebbe quindi opportuno addivenire a una riflessione diffusa, magari comune, che porti a mettere in evidenza la problematicità e i collegamenti della cultura russa con l’oggi, riflettendo quindi noi per primi su che cosa ha senso insegnare e trasmettere, insistendo per esempio sullo scollamento di cui sopra, sulla natura imperialista e coloniale del potere russo e degli sviluppi, delle strategie, delle forme di resistenza intellettuale che la Storia e la Cultura ci hanno consegnato. Bisognerebbe riflettere anche, però, su chi è che insegna la cultura russa in un momento in cui essa è da leggere alla luce di queste considerazioni.
Giulia De Florio: È importante, come lo è sempre stato. Ora, semmai, è ancora più importante farlo bene, seriamente, con lucidità e provando a caricarsi di una responsabilità grande e difficile, soprattutto perché noi maneggiamo – mi si conceda la metafora – materiale fragile e vitale: studenti e studentesse.
È importante farlo evitando le tifoserie, gli appiattamenti ideologici, le frasi a effetto. Studiando molto e cercando di parlare soltanto di quello che si sa (senza pretendere, peraltro, di avere la verità assoluta). Questo, in realtà, valeva – almeno per me – anche prima del 24 febbraio, ma una tragedia di tale portata ci ha costretto, paradossalmente, a uscire allo scoperto.
Dobbiamo studiare ancora di più e ancora meglio la cultura di lingua russa e se possiamo, in qualche modo, contribuire a rendere meno miope e superficiale il giudizio dell’Europa e a favorire processi di democratizzazione della Federazione Russa, beh – rimbocchiamoci le maniche.
Simone Guagnelli: Oggi è più importante che mai. Iperbole consapevole, perché in realtà è fondamentale come sempre lo è stato. Bisogna assumere però una consapevolezza di temi e di tipo di divulgazione, operare un giudizio critico molto più forte nei confronti del passato e di vigilanza sul presente. Che intendo dire? Che lo scrittore, presente o passato, va studiato a 360 gradi, mettendo sulla bilancia anche gli aspetti più turpi. Non si può più parlare del cinema di Šachnazarov o dei romanzi di Prilepin senza ricordare e stigmatizzare le loro vergognose prese di posizioni in favore dell’aggressione di Putin.
Altrimenti lasciamo stare. Ricordo che in questo paese, in Italia, al tempo della presunta e ridicola “censura” a Dostoevskij (un dibattito infinito, non si parlava d’altro che di russofobia) si finì per appiattire strumentalmente Dostoevskij nella figura del dissidente antizarista condannato a morte nel 1849 (aveva 28 anni), tacendo sul resto del suo, a tratti imbarazzante, sviluppo ideologico nel corso dei restanti 32.
Va insegnata la cultura della dissidenza russa, a partire da Memorial, va insegnato il russo affinché tramite le traduzioni si dia forza alle voci che non hanno megafono, a chi è in galera, a chi è dovuto andar via, a chi lotta per una Russia sana e libera.
Marco Caratozzolo: Questa domanda mi è stata fatta un sacco di volte in questi mesi e devo dire che non poche volte mi ha messo in imbarazzo, inducendomi a risposte uguali nella sostanza, ma di calibro diverso nel tempo. La mia risposta è sempre sì, ma quando ho dovuto articolarla, non sono sempre riuscito farlo in maniera univoca. Esistono una risposta ovvia, una risposta utile e una risposta sincera, ma non so quale sia la migliore.
La risposta ovvia: certamente sì, è utile continuare a studiare, anzi mai come ora è necessario, perché la gente deve capire di più sulla Russia, deve approfondire la storia e così rendersi conto che non è la prima volta che accade questo, ma che poco più di un secolo fa la Russia ha attaccato rovinosamente il Giappone e dopo questa sconfitta clamorosa (che ha qualcosa in comune con la sconfitta che per ora sul campo la Russia sta maturando in Ucraina) i russi si sono interrogati molto su sé stessi, sulla propria cultura, sulle proprie paure.
Da quella sconfitta si sono prodotti terremoti anche nella letteratura russa, molte opere della quale sono figlie di quella paura; quella sconfitta ha accelerato la caduta della monarchia, ha sobillato proteste popolari che poi hanno portato a nuove aperture, alla creazione di un parlamento, a una serie di altre riforme che hanno dato enormi risultati.
Quindi studiare, bisogna farlo sempre, senza vergognarsi assolutamente di approfondire degli aspetti che oggi sono legati a cose che non vorremmo vedere. Anche continuare a insegnare e divulgare è importante, ma confesso che per fare il mio lavoro in questo momento, bisogna avere molto equilibrio e non cadere nelle facili provocazioni, pesare le parole, non infuocare le discussioni, astenersi (anche questo è molto importante!) dagli slogan e da generiche considerazioni offensive nei confronti del popolo russo e della sua cultura.
La risposta utile: bisogna studiare il russo, perché quando tutto questo finirà, la Russia vivrà auspicabilmente una stagione di grande apertura, accetterà di riprendere un ruolo di mediazione tra le grandi potenze, il che avrà dei riscontri anche a livello commerciale, quindi farsi trovare pronti è il miglior modo per sorprendere noi stessi e gli altri, al momento giusto.
La risposta sincera: la Russia è anche quello che vediamo sotto i nostri occhi, inutile negarlo, ma la cultura russa e il suo popolo non sono solo questo; così come la Germania è ed è stata ben altro rispetto all’olocausto, la Spagna è ed è stata ben altro rispetto all’Inquisizione, l’America è ed è stata ben altro rispetto alle folli guerre condotte negli ultimi decenni per “esportare la democrazia”. Se una cultura millenaria come quella russa è stata capace di darci cose che ci hanno insegnato molto, cose da cui abbiamo imparato e ancora ci possono dare luce, vuol dire che essa si modifica, si trasforma, non si ferma, che tornerà a sorprenderci positivamente.
Quindi, anche nel caso in cui pensassimo che la cultura russa oggi sono le bombe e i missili di Putin, dovremmo approfondire: ma non è questo, è ben altro. Costa fatica, lo so, passare oltre, si ha l’impressione di mostrare superficialità, di pontificare sulla pelle degli ucraini mentre siamo seduti sui nostri divani, ma se si vuole avere una visione complessa delle cose, è necessario continuare a studiare la lingua, la storia e la letteratura russe. E la letteratura ci dice cosa è veramente: nel nostro piccolo, è quello che abbiamo cercato di fare in Generazione Putin.
Al di là delle letture deterministiche che piacciono tanto a un certo pubblico e a un certo tipo di analisti, le cose dovevano andare così? Cosa vi aspettavate o non vi aspettavate (senza senno di poi)?
Massimo Maurizio: No, quantomeno non in questi termini… sono sempre stato convinto di essere un pessimista e mi sono ritrovato, ahimè, ad essere un ottimista, un illuso.
Giulia De Florio: È difficile rispondere perché c’è un’ambivalenza di fondo che ho riscontrato in molte persone – russe e non – e in me stessa prima di tutto. Da una parte affermiamo, e con convinzione, che non ci aspettavamo un’aggressione vera e propria, lo scoppio di una guerra. E in tutta coscienza posso dire che sia effettivamente così. Dall’altra, rileggendo scambi di mail o dialoghi in chat del 2021, mi sono accorta che era come se lo avvertissimo, ne percepissimo il rischio reale o peggio lo considerassimo una certezza del futuro più o meno immediato. Quindi, per quanto la sorpresa (e lo sgomento) che ho provato alle 6.20 del mattino del 24 febbraio fosse reale, probabilmente il subconscio qualcosa aveva già intuito. Ma tutto questo non vale poi molto, quando tutt’intorno persone muoiono, città vengono devastate, amici perdono pezzi della loro vita, dei loro affetti, del proprio mondo materiale ed emotivo.
Simone Guagnelli: A questa domanda non so rispondere, cioè, non me lo aspettavo, ma non so dire perché o cosa mi aspettassi. E non so neanche dire cosa mi aspetto per il futuro, non ho tempo di leggere le stelle come fanno i nostri esperti (esperti proprio del senno di poi o che riaggiustano le loro previsioni in corso d’opera). Aggiungo però una cosa, forse fuori tema. Il mio contributo su Generazione Putin («Gli occhiali di Lenin»), nella descrizione della partenza dell’aereo da Mosca l’ultima volta che ci sono stato nel 2019, si conclude con una asserzione: “sto lasciando la Russia per sempre. Ma io non lo so ancora”. Quando l’ho scritta credevo molto in quella frase, ricordo che piangevo mentre la scrivevo. Vi esprimevo peraltro più un rifiuto e una condanna della Russia che una disperazione biografico-esistenziale.
In questi giorni mi piace pensare di aver sbagliato, che ci sia ancora una speranza, che tornerò in Russia, magari tenendomi lontano da Mosca e Pietroburgo. Decentrandomi, perdendomi. Non dico la Siberia orientale, ché ormai ho una certa età, ma almeno gli Urali mi piacerebbe vederli. Vorrei andare a Ekaterinburg dove il dissenso contro l’attuale potere russo è particolarmente forte.
Marco Caratozzolo: Da diversi anni ho maturato un pensiero, che si è cristallizzato attorno al pensiero di Jurij Lotman, di cui mi sono abbeverato lungamente nei miei studi giovanili e anche attuali. Una delle idee di Lotman, nota a tutti gli slavisti, quella del procedimento a esplosioni successive della cultura russa, mi ha sempre affascinato, ma mi ha anche messo in guardia: così come la Russia, a seguito di una di queste esplosioni, riemerge dagli abissi e con notevole velocità, accompagnata da straordinari personaggi, raggiunge livelli di benessere e di avanzamento culturale impensabili solo pochi anni prima, ponendosi come un faro per altre civiltà, allo stesso modo può invertire improvvisamente la rotta e implodere inspiegabilmente.
Quindi era da anni che pensavo che ci sarebbe stato “qualcosa”, un’inversione autoindotta, forse dovuta al fatto che la Russia in tutta la sua storia non ha mai saputo gestire lungamente la ricchezza e il benessere, come ci dice anche il famoso episodio raccontato nella Cronaca dei tempi passati, quello della chiamata degli slavi ai popoli del nord “per governarci, perché abbiamo terra e ricchezza, ma non sappiamo governarla” (gli storici mi perdoneranno se sto citando a braccio). Ho interpretato in questo modo anche la Rivoluzione d’Ottobre, a partire dagli anni in cui ha preso una piega che non era quella verso cui l’aveva indirizzata Lenin: eppure negli anni Dieci la Russia aveva vissuto un progresso culturale ed economico straordinario.
Insomma, per rispondere alla domanda, sì, mi aspettavo un cambio di rotta, ma non mi aspettavo che questo si sarebbe prodotto con tale virulenza, con questa modalità arbitraria e violenta, con un tale bagno di sangue a spese di un popolo vicino e considerato “rodnoj” e (in second’ordine, ma non senza rilievo) a spese dei propri giovani, mandati sul fronte allo sbando, condannati a un’improvvisa interruzione dei rapporti con quell’Occidente con alcuni valori del quale, tutto sommato, sono anche cresciuti.
Dottoressa di ricerca in Slavistica, è docente di lingua russa e traduzione presso l’Università di Trieste, si occupa in particolare di cultura tardo-sovietica e contemporanea di lingua russa. È traduttrice, curatrice di collana presso la casa editrice Bottega Errante ed è la presidente di Meridiano 13 APS.