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È da poco passata la metà di agosto ma a Bihać, nella Bosnia occidentale, l’estate sembra già avviarsi rapidamente alla conclusione. Da alcuni giorni la temperatura è scesa intorno ai 20-25 gradi e il cielo è ricoperto da grandi nuvole color grigio scuro che ogni tanto provocano violente cascate d’acqua. Durano poco, una decina di minuti, come nei classici temporali estivi, per poi lasciare spazio a una impercettibile pioggerellina talmente leggera che non obbliga neppure a usare un ombrello o un semplice k-way.
Cielo grigio e improvvisi acquazzoni vengono vissuti dalle persone del luogo con estrema indifferenza. Gli abitanti sembrano rimanere impassibili davanti a qualcosa che conoscono bene. I turisti, da parte loro, sono costretti a rinunciare alle classiche attività che si svolgono lungo i fiumi della regione. Fare rafting o noleggiare un kayak non è proprio consigliato. Al massimo, se attrezzati, ci si accontenta di fare un po’ di trekking.
E di turisti, in questa parte di Bosnia ed Erzegovina, a pochi passi dal confine con la Croazia (e quindi con l’Unione Europea), se ne vedono parecchi. O meglio, si vedono le loro automobili targate Germania, Austria, Olanda, attraversare l’M5. L’M5 è una delle strade principali del paese. Lo taglia praticamente in due: dal confine con la Croazia a ovest a quello con la Serbia a est, passando per la capitale Sarajevo. Da qui, da Bihać, il Parco Nazionale del fiume Una dista pochissimi chilometri, mentre dall’altro lato del confine si trovano i laghi di Plitvice, nota località turistica croata. A dividere i due paesi un’alta collina verde, completamente ricoperta da alberi.
Questo tratto di M5, però, non è frequentato solo dai turisti o dai bosniaci che tornano a casa per le vacanze. È anche un tratto di strada della rotta balcanica percorsa a piedi dai migranti che tentano di attraversare il confine e che da qui si dirigono verso altre strade secondarie. In una di queste, circondata dal paesaggio bucolico, a circa 5 km dal confine, si trova una piccola villetta. Appena due piani, con uno spazio adiacente che sembra asfaltato ormai tanto tempo fa. Un’insegna recita “Green Land” .
Si tratta di un centro diurno che offre assistenza e cura ai migranti in viaggio. Il centro, messo su da Mediterranean Hope (progetto sulle migrazioni della Federazione delle chiese evangeliche in Italia) e dall’associazione bosniaca Kompass 071, garantisce alle persone in viaggio lungo la rotta balcanica un riparo dal freddo, qualcosa da mangiare, un servizio di lavanderia, la possibilità di prendere qualche vestito e di farsi una doccia. Tutto, ovviamente, completamente gratuito.
Al nostro arrivo incontriamo Niccolò Parigini, 35enne torinese project manager per MH in Bosnia, che ci racconta come è nato questo progetto. “Siamo arrivati in Bosnia per la prima volta nel febbraio del 2021 con un progetto congiunto con IPSIA per la costruzione di cucine collettive all’interno del campo di Lipa. Da quell’esperienza è nata l’idea di continuare a lavorare in questo territorio. Così a gennaio 2022 abbiamo ristrutturato questo fabbricato che prima ospitava un gommista e, visto il numero di stanze al piano superiore, forse anche qualcos’altro” ci racconta Niccolò. “Da gennaio a giugno abbiamo ospitato oltre mille migranti. Nelle ultime settimane, complice anche il bel tempo, gli arrivi sono diminuiti ma continuano a passare da qui una decina di persone al giorno” .
Le istituzioni locali tendono a non supportare queste attività, lasciando ai volontari tutto il peso del lavoro necessario a garantire i servizi offerti. Nel tempo non sono mancate neanche le accuse di agire come “pull-factor” , un “fattore d’attrazione” per i migranti che sanno di trovare qui un posto sicuro. Le stesse accuse rivolte nel nostro paese alle ONG che salvano le persone nel Mar Mediterraneo. “Tutto quello che abbiamo arriva grazie alle donazioni dall’Italia, in particolare dall’Otto per mille valdese. Soldi pubblici dalla Bosnia non ne riceviamo”, ci spiega ancora Niccolò.
Parliamo dell’attuale situazione al confine e come cambia la rotta balcanica. Niccolò indica la lunga collina davanti a noi, la cui parte superiore è nascosta dalle nuvole.
“Lì, proprio davanti a noi, su quella collina, c’è il confine. Un po’ di tempo fa le autorità croate hanno pensato di ‘rasare’ una striscia di terra, abbattendo tutti gli alberi per poter controllare meglio la frontiera e rendere immediatamente visibili le persone che provano ad attraversarla. Il problema, oltre all’azione in sé, è che la striscia di terra senza più alberi è in territorio bosniaco non in quello croato.”
Proprio mentre parliamo, arriva al centro un ragazzo iracheno che era stato appena respinto (per la terza volta) dalla polizia croata. Questa volta era stato bloccato mentre si trovava su un bus, con regolare biglietto, verso Zagabria. Stessa sorte capitata a un gruppo di ragazzi afghani incontrati il giorno prima sul bus che portava da Sarajevo a Bihać e costretti dalla polizia a scendere, in mezzo al nulla e sotto la pioggia, poco prima di Ključ, città al “confine” tra la Federazione di Bosnia Erzegovina (l’entità a maggioranza croato-musulmana) e la Republika Srpska (l’entità a maggioranza serba).
Al ragazzo arrivato al centro di Mediterranean Hope viene immediatamente offerto un tè caldo e un po’ di cibo. Lui ringrazia di cuore e chiede se è possibile asciugare i vestiti bagnati dalla pioggia. Dopo una doccia e un cambio di abiti, il ragazzo si siede nell’area comune insieme ad altri presenti nella struttura.
L’unica lingua comune che parlano è quella della solidarietà. Si scambiano informazioni sulla situazione al confine, su dove è meno difficile attraversare, su come evitare le zone dove sono ancora presenti campi minati risalenti alla guerra degli anni Novanta, sulla presenza della polizia croata e sul sentiero da percorrere tra i boschi. Condividono una barretta di cioccolato, si scambiano pareri sulla taglia dei vestiti presi dal magazzino di Green Land, si aiutano a vicenda nel preparare gli zaini per il prossimo viaggio. Per loro fa parte del “gioco”. Così chiamano il tentativo di passare il confine senza farsi beccare dalla polizia. Come fosse un gioco dell’oca dove a ogni passo si corre il rischio di dover tornare indietro, di ricominciare. C’è chi ci ha provato due, tre, dieci volte. C’è chi torna tumefatto per le violenze subite, chi stanco per i tanti chilometri percorsi a piedi, con gli occhi spenti e persi nel vuoto di chi non ce la fa più e pensa magari alla famiglia, agli affetti lasciati indietro. Come loro ce ne sono centinaia, forse migliaia, solo nella zona di Bihać. Stabilire un numero esatto è impossibile ma di certo sono più dei 2-300 registrati nel campo ufficiale di Lipa, a 25 km dalla città.
Il ragazzo chiede se è possibile avere un telefono per dare notizie a casa. Il suo è stato sequestrato senza motivo, insieme ai suoi soldi, dalla polizia durante il respingimento. Purtroppo la struttura non può fornire un telefono nuovo così gli altri ragazzi si offrono di aiutarlo una volta giunti in città. Dopo un’oretta il gruppo, ormai diventato di 7-8 persone, è pronto per rimettersi in cammino sotto un cielo minaccioso in direzione di Bihać, lontana altri 7 km.
Leggi anche: Rotte fluide del reporter del Guardian Lorenzo Tondo, estratto da “Capire la rotta balcanica” (BEE, 2022)
Prima di andare via ci ringraziano per l’ospitalità, qualcuno chiede scusa per non poter pagare, qualcuno benedice i volontari nella sua lingua madre. Usciti dal centro, per loro il gioco ricomincia…
Dottore di ricerca in Studi internazionali e giornalista, ha collaborato con diverse testate tra cui East Journal e Nena News Agency occupandosi di attualità nell’area balcanica. Coautore dei libri “Capire i Balcani Occidentali” e “Capire la Rotta Balcanica”, editi da Bottega Errante Editore. Vice-presidente di Meridiano 13 APS.