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Goran Bregović in Italia: un lungo viaggio musicale contro la guerra

di Lorenzo Mantiglioni*

“Ho sentito una storiella”. Esordisce Goran Bregović sul palco del Pisa Jazz, al Giardino Scotto. “Dovete sapere che a Gerusalemme c’è un ebreo, credo si chiami Horowitz, che puntualmente prega di fronte al Muro del Pianto. Lo fa sempre, non manca un giorno. Tant’è che una giornalista, incuriosita dalla costanza, gli ha chiesto per che cosa pregasse. E Horowitz le ha spiegato che ogni giorno chiedeva a Dio che le guerre tra musulmani, ebrei e cristiani finalmente terminassero. La giornalista allora gli ha chiesto se Dio lo stesse ascoltando o meno e Horowitz le ha risposto: “Visto come vanno le cose, temo di parlare solo con un muro”. 

In Italia è tornato Goran Bregović e la sua Wedding and Funeral Orchestra, la band di musicisti serbi e di coriste bulgare che, com’è noto, suona ai matrimoni e ai funerali. E lo fanno con un tour, breve ma intenso, che in poche settimane li vede suonare da Forlì a Porto Recanati, passando per la Sardegna, la Sicilia, il Friuli-Venezia Giulia e la capitale. Noi di Meridiano 13 lo abbiamo “intercettato” a Pisa, il 18 luglio, al Giardino Scotto. Qui un breve racconto di quello che abbiamo visto. 

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Il concerto di Goran Bregović a Pisa

La serata è cominciata con Vino Tinto, differendo così dal passato, quando i concerti tendenzialmente venivano aperti dall’iconica Gas Gas. Ma andiamo per gradi. 

Goran e la sua band accolgono le centinaia di persone accorse al concerto con uno dei pezzi più riusciti del Three letters from Sarajevo (2017), Vino tinto appunto. Il brano, è frutto della collaborazione con Bebe, pseudonimo della cantautrice spagnola Maria Nieves Rebolledo, autrice – tra le altre – di Malo e Siempre me quedarà. E dopo le prime note (“Te pasas la noches por ahì / Chuleando / Mientras, yo doy vueltas sin parar / Fregando”) il pubblico partecipa con grande entusiasmo. Muharem Redzepi, la voce maschile kosovara, è seduto al centro della scena, a fianco c’è il maestro Goran Bregović, accolto sul palco da un lungo applauso.

Per il secondo brano, proprio dopo la storiella di Horowitz, è la volta di Maki Maki, pezzo inciso nel 2002 all’interno di Tales and songs from Weddings and funerals, nato dalla collaborazione con il cantante gitano di Niš (Serbia) Saban Bajramović – con lui, sempre nello stesso disco, si contano anche Hop Hop Hop e Sex. Non serve conoscere la lingua per ballare il ritornello:

Op, op / Le-le, le-le, lej / Kiči, kiči, kiči, ale, ale, či, či / Dirli, di-di-dirla, dari-dari-da […] Maki Maki / Maki Maki / Marija-na, Mari-juška / Marija Ruška, Maruška! Opa!

Un po’ di biografia

Goran Bregović è nato a Sarajevo, il 22 marzo 1950, da una famiglia etnicamente mista – madre serba e ortodossa, padre croato e cattolico. “Il mio paese è niente dal punto di vista geografico e politico, è un territorio emozionale e le frontiere sono fatte di ricordi; nascere qui è avere sempre brutte notizie”, spiegava al giornalista Antonio Gaudino in Con gli occhi di Bregović (edito da Stampa alternativa/Nuovi equilibri, 2005).

Muove i suoi primi passi nel mondo della musica già nel 1966, quando ancora era minorenne, come membro della band rock Bestije (Le Bestie), per poi passare nel giro di breve nei Kodeks. Con quest’ultimi suona a Dubrovnik e poi in Italia, a Napoli. In quel periodo conduce una vita complicata, non certo morigerata (“l’uso di droghe costrinse mia madre a venirmi a prendere per riportarmi a casa (a Sarajevo, ndr)”.

Goran Bregović
I Bijelo Dugme durante un concerto a Sombor (Serbia) nel 1986 (Wikipedia)

Tornato in Bosnia ed Erzegovina, realtà ancora parte della Jugoslavia, Bregović riprese gli studi di filosofia e sociologia e dopo qualche anno incise il suo primo disco con i Bijelo Dugme (Bottone bianco). Con quest’ultimi, dal 1974 al 1989, incise ben tredici album, portando la loro interpretazione del rock gitano oltre i confini dello Stato jugoslavo

anche se, va ricordato, che l’ambasciata russa mise un ‘veto’ sui Bijelo Dugme, per questo non abbiamo mai suonato in Russia. Ci ritenevano pericolosi per l’ordine pubblico, ma i nostri dischi venivano venduti al mercato nero in tutto l’Est, Unione Sovietica compresa.

Il concerto prosegue con Duj Duj, brano in Three letters from Sarajevo e frutto della collaborazione con Rachid Taha, cantante e compositore franco-algerino ed esponente del pop-raï, con il quale ha prodotto anche Sos; con Presidente, pezzo in Champagne for Gypsies con il featuring del gruppo The  Gipsy Kings (“Ven, baila está rumba que se siente calor / Las mujeres mueven la cintura / El presidente llamá a manicomío / Que hoy todo el mundo pierde la cordura”) e con Made in Bosna, brano sempre all’interno di Three letters from Sarajevo e prodotto con Sifet & Mehmed. 

Il sodalizio con Emir Kusturica

Nel 1984 la storia dell’allora rocker Goran Bregović cambia radicalmente, grazie a una sua “vecchia” conoscenza: quella con Emir Kusturica.

In realtà, i due si conoscono da qualche anno, ma il regista aveva temporaneamente lasciato i Balcani per studiare all’accademia cinematografica di Praga. Dopo i successi di Ti ricordi di Dolly Bell? e di Papà è in viaggio d’affari, i due collaborano insieme per Il tempo dei gitani. Da quel sodalizio nascerà poi l’album omonimo, contenente tracce iconiche come Ederlezi e Talijanska.

Nel 1993 poi esce Arizona dream, pellicola che vanta nel cast un giovanissimo Johnny Depp, con la rivisitazione del brano In the deathcar, nato con i Bijelo Dugme e reinterpretato da Iggy Pop. Nel 1994 esce anche la pellicola La regina Margot di Patrice Chéreau, sempre con le colonne sonore elaborate da Bregović (inserite poi nell’album omonimo, nel quale è possibile trovare Elo Hi, Recontre e La nuit).

Le cose poi cambiano radicalmente nel 1995, grazie allo strepitoso successo di Underground, il film di Kusturica con Bregović alle colonne sonore che vinse la Palma d’oro al Festival di Cannes. Nello stesso anno esce l’album omonimo con all’interno Kalašnjikov, Mesečina, Underground tango, Ya ya ringe ringe raya, Caje sukarije Čoček e Ausencia

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Contaminazioni culturali

Quest’ultimo brano ci è utile per proseguire il nostro viaggio all’interno del concerto pisano: “Ma sô na pensamento / Um ta viajà sem medo / Nha liberdade um tê’l / E sô na nha sonho / Na nha sonho miéforte / Um tem bô proteçäo / Um tem sô bô carinho / E bô sorriso”.

Il pezzo, nato dalla voce di Cesaria Évora, è illuminato dalla bravura della cantante capoverdiana, strettamente collegato con il fado portoghese. Spiega Bregović ad Antonio Gaudino: “Cesaria non canta con tecnica sopraffina, ha una padronanza e una tale confidenza con la sua voce, che basta farle ascoltare una melodia perché diventi sua, semplificando quello che per me è stato un lungo lavoro. Le viene così semplice perché ha cantato nei bar della sua città per cinquant’anni e sa cos’è il mestiere del canto, sa come comunicare e imprimersi nel cuore della gente”.

Poi è la volta di Mazel tov, brano in lingua ebraica e frutto della collaborazione con Riff Cohen (Three letters from Sarajevo), della ritmata Bijav (Karmen – with a happy end, 2007), di Pero, l’altro brano firmato con Bebe, e di Ne siam kurve tuke sijam prostitukte (Karmen – with a happy end).

L’atmosfera al Giardino Scotto è sempre più “calda”. Le centinaia di persone presenti ballano senza posa, si divertono e cantano i brani della Wedding and funeral orchestra, passando dalla lingua slava all’inglese, dal gitano allo spagnolo. E la festa continua con Balkaneros, l’altro brano targato The Gipsy Kings di Champagne for Gypsies. Il pezzo è un inno all’amore, anzi meglio: è una continua richiesta di baci, di passione e di calore umano:

No me beses como nina, ya eres mujer / Una vez y otra vez, mil veces te amare / No quiero un beso, pero si tres / Mi nena, chiquilla, ven que yo te mostrare / Balkan, Balkan, Balkan, hey Balkaneros, vamos! / Hop, hop, hop, hey Balkaneros, vamos! / Hop, hop, hop, hey Balkaneros, vamos!

E dopo arrivano Gas Gas (Karmen – with a happy end, 2007), il brano che coniuga la passione, quella carnale e naturale, e alle strade balcaniche e Ya ya ringe raya (Underground, feat con Zlatko Kolić).

Dopo la rottura con il regista Emir Kusturica, il compositore sarajevese si dedica maggiormente ai nuovi album, vivendo tra Parigi e i Balcani. Nei primi anni Duemila vengono pubblicati Tales and songs from weddings and funerals nel 2002, Karmen – with a happy end nel 2007 e Alkohol nel 2008.

Sempre in quegli anni interpreta il ruolo di Damian in I giorni dell’abbandono, regia di Roberto Faenza. Nel cast, tra gli altri, figurano Margherita Buy, Luca Zingaretti e Alessia Goria. Per le colonne sonore si registra la collaborazione tra Goran Bregović e Carmen Consoli.

Ederlezi, Goran Bregović (Il tempo dei Gitani)

Sulle melodie albanesi arriva Ederlezi (“Canzone dal destino strano… è la più amata dai nazionalisti serbi”), una delle tracce più celebri del compositore sarajevese, all’interno del disco Le temps des gitans & Kuduz e del più recente Welcome to Goran Bregović.

Un brano decisamente amaro, legato alla Festa di san Giorgio che si celebra il 23 aprile (6 maggio per il calendario gregoriano) di ogni anno. Il pezzo parla della tradizione gitana che in occasione della festività prevede il sacrificio di un agnello (“Sa o Roma, babo, e bakren čhinen”), ma la famiglia protagonista del brano non ha niente da sacrificare perché non abbiente.

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Lo show prosegue con un altro brano iconico, ovvero Mesečina (Underground, 1995), frutto della collaborazione con Slobodan Salijević. Il testo racconta di un amore travolto dalla violenza della guerra, quella guerra che oscura la luce e spezza le vite anche dei giovani amanti

Nema vise sunca/ Nema vise meseca / Nema tebe, nema mene / Niceg vise, nema joj. / Pokriva nas ratna tama / Pokriva nas tama joj. / A ja se pitam moja draga / Sta ce biti sa nama?
Mesecina, mesecina / joj, joj, joj, joj / Sunce sija ponoc bije, / joj, joj, joj, joj / Sa nebesa, zaproklija / Niko ne zna, niko ne zna / Niko ne zna, niko ne zna / Niko ne zna sta to sija

Non più sole / Non più luna / Non più tu, non più io / Non più, lei se n’è andata. / L’oscurità della guerra ci copre / L’oscurità della guerra ci copre. / E mi chiedo, mio ​​caro, / Cosa ci succederà?
La luna, la luna / lei, lei, lei, lei / Il sole splende, scocca la mezzanotte, / lei, lei, lei, lei / Dal cielo, ha pianto / Nessuno lo sa, nessuno lo sa / Nessuno lo sa, no si sa / Nessuno sa cosa brilla

Il tour di Goran Bregović è un viaggio lungo la discografia del compositore balcanico che ad oggi termina con Three letters from Sarajevo (2017) e The belly button of the world (2023). A proposito dell’ultimo album, Bregović ha commentato così l’immagine della copertina in cui bacia il ventre di una donna, simbolo di accoglienza e di pace: “Sono un compositore di Sarajevo, tutti faranno come me ovvero proveranno a mettere insieme le cose che sono difficili da mettere insieme. Io sono privilegiato, posso parlare di politica e situazioni impossibili. Ci sono sempre incontri tra culture e artisti nei miei album. Quella cover viene dal trauma di Sarajevo, quello che abbiamo visto trent’anni fa ora è ovunque: oggi siamo buoni vicini di casa e domani ci spariamo”.

E il tema dell’amore ricorre anche nelle canzoni: dopo Mesečina arriva un altro grande successo, ovvero In the deathcar. Il testo è semplice: tratta della proposta di un giovane che, rivolgendosi alla sua ragazza, le propone di rimanere nella macchina che gli aveva prestato il padre per uscire e dice: ‘Non c’è da scendere per forza, possiamo calare i sedili e… starcene tranquilli”. 

Con il turno in scaletta di Hopa Cupa, brano all’interno di Champagne for Gypsies e frutto della collaborazione con l’artista rumeno Florim Salam (con il quale ha prodotto anche Omule), merita aprire un paragrafo a parte. L’album nasce nel 2012 come una reazione alle violenze che la comunità gitana subì in quegli anni in Europa e include una serie di artisti romanì che hanno lasciato un segno nelle generazioni presenti e passate, come The Gipsy Kings (Francia), Stephan Eicher (Svizzera), Eugene Hütz dei Gogol Bordello (Ucraina, Stati Uniti d’America e Brasile), Florim Salam (Romania) e Selina O’Leary (Irlanda). La descrizione del disco chiude esattamente così: “I gitani non sono un problema di questo mondo, sono sempre stati uno dei talenti di questo mondo. Qui faccio un brindisi al loro talento che ha ispirato i compositori di tutti i secoli”.

Merita sottolineare che il binomio tra il compositore bosniaco e i gitani viene da lontano, come si evince proprio dal libro Con gli occhi di Bregović: “[…] se si vuole lavorare con i gitani bisogna essere molto aperti mentalmente, perché loro sono naturalmente free in ogni situazione. […] È difficile capire, rispetto alla nostra scala di valori, cosa è veramente importante per loro, ma riesco a comprenderli, pur non essendo gitano di sangue. Io mi sono avvicinato senza pregiudizi a questa cultura e mi hanno accolto come se fossi uno di loro. Affermo con orgoglio di essere un gitano d’onore. […] Questo popolo realmente non ha confini, non ha bandiere, sono latori di tradizioni da consegnare ai posteri; o forse è ciò che mi piace pensare e magari, sono talmente liberi di fregarsene dei posteri e del domani! Essi non fanno altri mestieri, sono dediti solo alla musica, quella dei matrimoni e dei funerali, fatta di accordi profani col tempo arricchiti dalla musica della tradizione militare. […] Rappresentano la sublimazione delle piccole cose”.

La chiusura del concerto

E dopo Caje sukarije Čoček (Underground, 1995), il concerto giunge alle battute finali. Goran Bregović, dall’uscita nel 2012 di Champagne for Gypsies, chiude la scaletta con un trittico consolidato e volto a rendere l’atmosfera ancor più incandescente (in linea, tra l’altro, con la sua asserzione più nota: “Chi non diventa pazzo, non è normale!”).

Si comincia con Yeremia (Alkohol, 2008), un brano che parla della storia di Jeremia Krstić, ex soldato che ha servito il vecchio reggimento di artiglieria e ora, beh, si aspettava una vita migliore. Ecco il testo integrale perché merita comprendere il modo ironico (seppur critico) con cui il brano affronta il tema della guerra – in questo caso la Prima guerra mondiale.

Ja sam ja, Jeremija / prezivam se Krstić / Selo mi je Toponica / drvena mi dvokolica služio sam stari kadar / artiljerija. / Ja sam ja, Jeremija / prezivam se Krstić / Imam sito i karlicu / imam ženu / vračaricu / služio sam stari kadar / artiljerija. / Ja sam ja, Jeremija / prezivam se Krstić / Imam njivu i livadu / vodenicu valjanicu / služio sam stari kadar / artiljerija. / Ja sam ja, Jeremija / prezivam se Krstić / Više kuće trijerica / preko plota udovica / služio sam stari kadar / artiljerija

Sono io, Jeremija / il mio cognome è Krstić / il mio villaggio è Toponica / la mia due ruote è di legno / Ho servito nei vecchi quadri / artiglieria. / Sono io, Jeremija / il mio cognome è Krstić / ho un setaccio e un bacino / ho una moglie / uno stregone / ho prestato servizio nei vecchi quadri / artiglieria. / Sono io, Jeremija / il mio cognome è Krstić / ho un campo e un prato / un laminatoio / ho servito nei vecchi quadri / artiglieria. / Io sono Jeremija / il mio cognome è Krstić / ancora una casa a tre piani / oltre il recinto della vedova / Ho servito nei vecchi quadri / artiglieria

Ogni strofa del brano è introdotta (“Io sono io, Jeremia, il mio cognome è Krstić”) e chiusa (“Ho servito il vecchio reggimento di artiglieria”) allo stesso modo, al fine di ribadire in che cosa il protagonista del pezzo si identifica (nome, cognome e l’essere stato un soldato). Ogni volta il nostro Jeremia Krstić elenca ciò che possiede (il setaccio, l’orto, il pollaio) mostrando indirettamente quanto la guerra, il servizio militare, gli abbia fruttato poco in termini di benessere.

Da una canzone di guerra all’altra, come da copione infatti Muharem Redzepi canta Bella Ciao (Champagne for Gypsies), una versione originale con un pezzo strumentale decisamente eclettico: “La sua storia nel mio album nasce per caso: vent’anni fa ho suonato con i Modena City Ramblers e durante un Capodanno mi hanno chiesto di fare qualcosa insieme ed è nata quella versione di Bella Ciao. In cinque minuti ho fatto l’arrangiamento, mancava un refrain e ho fatto un pezzo strumentale che è come un refrain. È la canzone più felice e triste nella storia della musica”. L’ultimo pezzo in scaletta è ovviamente Kalašnjikov (Underground, 1995).

Goran Bregović – Kalashnikov (Youtube)

Il brano più rappresentativo del compositore balcanico si lega in maniera indissolubile con il rifiuto della guerra, della violenza provocata dalle armi – armi che purtroppo sono ancora facilissime da reperire nei paesi della ex Jugoslavia.

Il concerto di Goran Bregović si chiude tra gli applausi con la Wedding and funeral orchestra provata ma orgogliosa dell’ennesimo spettacolo offerto al suo pubblico. Al Giardino Scotto, in una calda notte estiva, è andata in scena una lunga scaletta in grado di coniugare le note balcaniche con quelle ebraiche, arabe, spagnole, francesi, inglesi e italiane. Uno show eterogeneo che dà del tu all’amore e alla pace, al rifiuto della guerra e delle violenze.

Beh certo, se pensiamo ai tempi che corrono pare che il mondo sia convintamente sordo ai valori professati dalla musica di Goran Bregović, dallo spirito del pubblico che puntualmente lo segue e lo ritrova in tutto il globo. E forse anche il nostro Horowitz, quello che prega ogni giorno di fronte al Muro del pianto, potrebbe definirsi in eterno inascoltato. Ma la musica, come quella della Wedding and funeral orchestra, quella che parla a tutti, continua a invadere le piazze, a risuonare nei teatri, e forse – e dico forse – un giorno non sarà più emblema di contrasto ai tempi che corrono, ma solo (!) i tempi che corrono.

* Giornalista e dottore in Giurisprudenza, attualmente cura l’ufficio stampa del Comune di Capalbio e collabora con il progetto divulgativo Frammenti di Storia. Nel 2019 è stato selezionato per partecipare, in Bosnia ed Erzegovina, all’International Summer School Rethinking the culture of tolerance, organizzata dai tre atenei di Sarajevo, Sarajevo Est e Milano-Bicocca. Autore del libro Stante così le cose, edito da Edizioni Creativa.

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