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“Granice” e saltatori di muri: racconto di un viaggio nei Balcani

di Lorenzo Mantiglioni*

Granice, confini. Ecco, è questa la parola che riecheggia nella mente dopo un viaggio nei Balcani. Intraprendere un tragitto del genere significa imbattersi in una serie di confini, non necessariamente geografici, da dover superare: granice, appunto. Che poi, le frontiere, le limitazioni, le linee immaginarie chiamate a dividere, separare, allontanare possono essere di varia natura: spaziano dai confini territoriali, passando per quelli linguistici, religiosi, culturali e, perché no, storici.

Il viaggio on the road nel trittico Slovenia-Croazia-Bosnia ed Erzegovina di cui parleremo si potrebbe sintetizzare con l’asserzione di Alexander Langer, giornalista, ex parlamentare europeo, pacifista e “costruttore di ponti, nonché saltatore di muri”, o di confini:

Nelle società europee deve essere possibile una realtà aperta a più comunità, non esclusiva, nella quale si riconosceranno soprattutto i figli di immigrati, i figli di famiglie miste, le persone di formazione pluralista e cosmopolita. […] La convivenza plurietnica, pluriculturale, plurireligiosa, plurilingue, plurinazionale appartiene e sempre più apparterrà alla normalità, non all’eccezione. […] In simili società è molto importante che qualcuno si dedichi all’esplorazione e al superamento dei confini, attività che magari in situazioni di conflitto somiglierà al contrabbando, ma è decisiva per ammorbidire le rigidità, relativizzare le frontiere e favorire l’integrazione.

Alexander Langer, Tentativo di decalogo per la convivenza interetnica
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Granice, il nostro confine orientale

Ebbene, in questo viaggio l’esplorazione non è mancata, come il superamento dei confini di vario genere. Ancora, quindi: granice. La prima tappa, dopo un incedere di molte ore cominciato dalle colline maremmane, è stata quella di Gorizia-Nova Gorica. Merita sottolineare il binomio: Gorizia-Nova Gorica, le due città confinanti, divise da una “linea”, una italiana e l’altra slovena, entrambe capitali europee della cultura 2025. Un muro dentro il Muro: si potrebbe cominciare così nel descrivere quella frontiera, oggi quasi del tutto abbattuta e ricordata dal cippo in piazza della Transalpina.

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Dopo la Seconda guerra mondiale, ben prima che fosse eretto il Muro di Berlino, il confine segnava già la distinzione dei due blocchi, uno occidentale e l’altro orientale, uno capitalista a trazione americana e l’altro socialista a trazione sovietica.

Il muro di Gorizia fu tirato su nel settembre del 1947, ben prima del suo “collega” tedesco. Nato per dividere l’Italia dalla Jugoslavia, persistette dopo il 1989 e statico rimase anche quando la Federazione delle Repubbliche socialiste implose, trovandosi dal 1991 a contatto con la neonata Slovenia. Solo nel 2004, quando anche Lubiana entrò a far parte dell’Unione Europea, fu definitivamente abbattuto.

Oggi, al confine tra Italia e Slovenia, nel cuore di Gorizia e Nova Gorica, non è possibile non notare il fascino di quel superamento, di quel “muro saltato”: italiani e sloveni varcano la frontiera con estrema semplicità, fanno jogging tra i due Stati, studiano strategie per comprare questo o quel prodotto nei due Paesi in base alla convenienza.

Il campo di Jasenovac

Il viaggio è poi proseguito verso Ljubljana, capitale che merita indubbiamente una visita di almeno due giorni, per poi continuare in Croazia, in direzione di un’altra località di confine: quella di Jasenovac, sulla frontiera croata-bosniaca. In una vallata erbosa, inumidita dal corso della Sava, sorge il più grande campo di concentramento dei Balcani, quello di Jasenovac, appunto. Attivo dal 1941 al 1945 e allestito dagli ustaša fascisti, il campo ha condotto alla morte oltre 80mila persone, per lo più serbi, ebrei, gitani e croati di orientamento antifascista. A tal proposito scriveva nel 2006 il reporter Nicholas Wood del New York Times:

Non c’erano camere a gas, ma non mancavano altre barbarie. Molti prigionieri finivano con la gola tagliata o con il cranio sfondato; altri venivano fucilati o impiccati agli alberi lungo la Sava.

Oggi, a parte il manto erboso, un treno, il fiume e lo spomenik a forma di fiore (il mastodontico monumento eretto nel 1966 in memoria delle vittime del genocidio) vi resta ben poco. Il campo infatti fu distrutto dagli uomini dello Stato indipendente di Croazia di Ante Pavelić.

Spomenik “Stone flower” di Jasenovac (Meridiano 13/Lorenzo Mantiglioni)

Ciononostante, è possibile comprendere la struttura del campo, come fosse organizzato il cosiddetto “Auschwitz dei Balcani” che, come riportava Ivica Đikić in quel capolavoro di ricerca e giornalismo chiamato Metodo Srebrenica (Bottega Errante), fu fonte d’ispirazione per il colonnello Ljubiša Beara quando gli fu ordinato di preparare il genocidio nella “cittadina d’argento”.

L’aspetto che più interessava al militare dell’esercito della Repubblica serba era che il campo di concentramento di Jasenovac godeva di un forno crematorio improvvisato, usato in passato per la cottura dei mattoni, utile durante la Seconda guerra mondiale per dare alle fiamme i prigionieri, morti o vivi che fossero. Ma ne parleremo più avanti. Di fronte al fiore di pietra due giovani coppie, arrivate al memoriale con un’auto targata Vukovar, si dedicano commosse alla preghiera, lasciando poi un mazzo di fiori ai piedi del monumento. Granice, confini: ecco, per loro, non c’è alcuna delimitazione tra passato e presente.

Confini interni: Banja Luka

Dopo Jasenovac il viaggio è proseguito verso Banja Luka, in Bosnia ed Erzegovina. Banja Luka è la seconda città per numero di abitanti del Paese dopo la capitale Sarajevo, ed è l’attuale capoluogo della Republika Srpska, l’entità che ricopre il quarantanove per cento dello Stato, come cristallizzato dagli Accordi di Dayton del 1995.

Bene, anche qui, inevitabilmente, c’è un confine: all’interno dell’area a maggioranza serba vige il cirillico, i palazzi pubblici battono bandiera della Repubblica, e non quella bosniaca, e la narrazione degli scontri armati degli anni Novanta è ben diversa da quella raccontata nel mondo occidentale. Merita poi sottolineare due aspetti degni di nota: l’autostrada che collega la Croazia a Banja Luka – una delle pochissime in Bosnia – è in una condizione ottimale, le carreggiate sono larghe, moderne e poco trafficate; la seconda è che il capoluogo è un centro urbano in apparente crescita, ricco di cantieri e frequentato da tanti turisti.

Chiesa ortodossa di Hram Hrista Spasitelja (Meridiano 13/Lorenzo Mantiglioni)

Le maggiori attrazioni sono indubbiamente la risorta moschea Ferhadija, rasa al suolo il 7 maggio 1993 dalle forze paramilitari serbe e inaugurata nuovamente nel 2016, la via dei Signori, oggi zona pedonale, e il Tempio di Cristo Salvatore (Hram Hrista Spasitelja), chiesa ortodossa eretta nel 1929 e prima grande opera del Regno dei serbi, croati e sloveni, accanto alla sede della presidenza della Republika Srpska. Anche la chiesa fu distrutta durante la Seconda guerra mondiale, per volere degli ustascia, per poi essere ricostruita e consegnata alla cittadinanza nel 2004. A Banja Luka, poi, è possibile assaggiare una delle quattro declinazioni del ćevapi raccontate anche da Gianni Galleri in una breve guida sul tema (le altre sono quelle di Sarajevo, Travnik e Tuzla).

Srebrenica e i suoi confini

Lasciato il capoluogo, il viaggio è proseguito verso Srebrenica: dopo molti chilometri di autostrada, all’altezza di Doboj, è obbligatorio uscire e passare definitivamente su una strada con un’unica corsia per senso di marcia. È chiaro che l’incedere si fa più compassato, rallentato ancora di più dai tanti autovelox presenti ai margini della carreggiata e dai posti di blocco della polizia locale.

A pochi chilometri dalla “cittadina di argento”, si trova il Memoriale e cimitero di Srebrenica-Potočari per le 8.372 vittime del genocidio del 1995. L’atmosfera potrebbe risultare pesante di fronte a quella valle silenziosa, ricolma di lapidi bianche e a pochi passi dal complesso della ex base delle truppe dell’Onu.

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A questo punto però possiamo tornare al colonnello Ljubiša Beara, deus ex machina, incaricato nientemeno che da Ratko Mladić, del massacro dei bosgnacchi. Eccolo lì, il solito confine, come racconta anche Ivica Đikić in Metodo Srebrenica. Tra il 12 e il 13 luglio 1995, il capo della Direzione di sicurezza nel Comando supremo contava, in alcuni centri improvvisati di Bratunac (cittadina a pochissimi chilometri di distanza da Srebrenica, sempre all’interno della Republika Srpska), migliaia di prigionieri musulmani: alcuni si trovavano in ostaggio nella scuola elementare di Vuk Karadžić, altri in un edificio abbandonato della scuola edile Đuro Pucar Stari e altri ancora smistati tra autobus e camion privati.

Poi alcuni prigionieri passarono a Nova Kasaba e nel magazzino della cooperativa agricola Kravica. In quest’ultima località, a circa quindici chilometri da Bratunac, cominciarono le uccisioni, portando alla morte oltre mille persone. Cosa fare di tutti quei cadaveri, dunque? E a questo punto, sempre secondo Ivica Đikić, a Ljubiša Beara sovvenne l’idea di usufruire dei forni a tunnel, utili alla produzione di mattoni, tegole e ceramiche. Ma c’era un problema; un problema non secondario.

Uno scorcio di Srebrenica (Meridiano 13/Lorenzo Mantiglioni)

Miroslav Deronjić, l’allora capo politico locale dell’ufficio della sezione di Bratunac del Partito democratico serbo, si opponeva con tenacia all’uccisione degli ostaggi all’interno della sua area di competenza, oltre che all’utilizzo dei forni locali. Probabilmente temeva che il suo nome venisse affiancato a uno dei fatti di sangue più tragici della guerra, compromettendo in maniera definitiva la sua posizione di fronte a un ipotetico giudice.

Cominciò dunque un braccio di ferro con Beara, collegato a un vasto numero di confini. Uno geografico, l’eccidio doveva proseguire altrove, ma non lì. Uno militare-politico, Beara voleva soddisfare gli ordini di Mladić, comandante del Comando supremo dell’esercito della Repubblica serba, mentre l’opposizione di Deronjić era forte del supporto di Radovan Karadžić, presidente della Repubblica serba (i due vertici, non proprio incredibilmente, mal si sopportavano). Un ultimo, infine, ignobilmente privato: Beara desiderava mostrarsi impeccabile sul piano professionale, Deronjić invece temeva ripercussioni sul piano processuale. La discussione proseguì per molte ore, i confini come abbiamo visto erano tanti, e alla fine la spuntò il capo politico locale. L’eccidio ci fu, ma altrove.

La cittadina di Srebrenica offre giusto un paio di ristoranti; le montagne strangolano il centro urbano, i boschi sono fitti e invalicabili, mentre le vie rimangono per lo più desolate. Meglio proseguire verso la capitale.

Sarajevo meta turistica

Sarajevo si mostra come al solito in tutta la sua bellezza: secolare, affascinante, resiliente ed eterogenea nelle etnie che la compongono. La capitale è in continuo cambiamento, brulicante di turisti – tantissimi asiatici – con la Baščaršija e la Ferhadija in grande spolvero. Tra le molte attrazioni che meritano di essere visitate, non bisogna dimenticare le moschee dell’Imperatore e dell’Ali-paša, il cimitero Alifakovac e la sinagoga ashkenazita (quest’ultima, tra l’altro, beneficia di ottimo personale, attento ai visitatori e disponibile a raccontare la storia dell’edificio e della comunità ebraica locale).

Baščaršija di Sarajevo (Meridiano 13/Lorenzo Mantiglioni)

Tanti turisti, dunque. Un fatto che si può in parte spiegare analizzando i collegamenti aerei. Secondo FlightConnections si registrano circa trenta voli diretti per Sarajevo. La capitale bosniaca è facilmente raggiungibile da varie città europee, come Oslo, Stoccolma, Londra, Istanbul e Bruxelles, oltre che da alcuni Paesi extraeuropei, come Egitto ed Emirati Arabi Uniti. Merita ricordare anche i voli diretti da Belgrado, Zagabria e Skopje e i ben quattro aeroporti che dalla Germania portano i turisti nella capitale bosniaca, ovvero quello di Colonia, Francoforte, Stoccarda e Memmingen. E da poco si sono aggiunti anche l’aeroporto di Roma e Milano.

Il viaggio poi è proseguito per Visoko e Travnik, terminando di fronte alle coste di Spalato, in attesa del traghetto per Ancona. Un lungo tragitto, quindi, che ha portato al superamento di almeno cinque confini statali, più volte quelli regionali; per non parlare dei confini politici, religiosi e culturali. Un viaggio che ha visto “saltare” una distesa di numerosi muri, abbracciare una terra che accoglie i forestieri con calore, regalando momenti indimenticabili. Granice, dunque, ma ne vale indubbiamente la pena.


* Giornalista e dottore in Giurisprudenza, attualmente cura l’ufficio stampa del Comune di Capalbio e collabora con il progetto divulgativo Frammenti di Storia. Nel 2019 è stato selezionato per partecipare, in Bosnia ed Erzegovina, all’International Summer School Rethinking the culture of tolerance, organizzata dai tre atenei di Sarajevo, Sarajevo Est e Milano-Bicocca. Autore del libro Stante così le cose, edito da Edizioni Creativa.

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