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Nel corso di una recente tappa del tour dei Niet abbiamo incontrato il chitarrista Igor Dernovšek, che professionalmente oltre alla musica si dedica pure al giornalismo. Lo abbiamo raggiunto in un locale a poche decine di metri dal mare adriatico di Izola, mentre l’ultimo sole si stava apprestando a dare l’addio alla rilassata giornata autunnale per cedere il posto ai colori della notte. Prima di vederlo salire sul palco a provare gli strumenti e svolgere il soundcheck assieme ai suoi compagni, ci siamo presi insieme una birra e gli abbiamo chiesto un suo punto di vista sul punk sloveno, sui fenomeni culturali del passato e sulle differenze con le culture giovanili alternative contemporanee.
Igor Dernovšek, iniziamo subito con la prima domanda: quali erano le caratteristiche dei giovani artisti negli anni Ottanta rispetto ad oggi?
Posso dare un giudizio o, più precisamente, una testimonianza rispetto a come era la situazione negli anni Ottanta e rispetto agli standard di allora. In quel periodo sia la scena slovena sia quella dell’ex jugoslava erano particolarmente attive e variegate. Gruppi come Idoli, Film, Azra e EKV rappresentavano il cosiddetto movimento del jugo-rock. Si è trattato di un’onda musicale molto forte.
Il movimento punk era invece concentrato prevalentemente a Lubiana. Anche in altre città c’erano nomi importanti. All’inizio si è costituito il triangolo che ha compreso tre città di riferimento: Lubiana, Fiume e Zagabria. Pensiamo ai tre gruppi più rappresentativi: i lubianesi Pankrti, i fiumani Paraf e gli zagrebesi Prljavo Kazalište, che però con gli anni si sono ammorbiditi, finendo per suonare musica piuttosto pop.
A Lubiana invece la scena alternativa ha continuato ad esistere in una dimensione assestante, sviluppandosi in maniera molto produttiva. Mi spiego. Nel corso degli anni Ottanta c’erano in Slovenia due filoni distinti, da un lato quello pop, e, dall’altro, quello alternativo. A farla da padrona era la scena alternativa, che comprendeva il punk nonché la musica industrial-rock, con i Laibach e i Borghesia che ne erano i capofila.
Non dobbiamo dimenticare, infine, che proprio dalla scena alternativa sono in seguito emerse importanti band del circuito pop, tra cui citerei i Videosex di Anja Rupel e Iztok Turk, e altri complessi del genere, che avevano una radice comune nel punk.
Parlando del punk, troppo spesso si ha in mente solamente il contesto inglese. Eppure la Slovenia ha saputo sviluppare una propria variante ben distinta…
Il punk inglese può essere meglio compreso in riferimento ai Sex Pistols e al contesto sociale inglese. La musica punk inglese faceva riferimento alla condizione della classe operaia, rappresentandone, in quel contesto specifico, la protesta e una richiesta della stessa classe operaia di maggiori diritti e tutele per i lavoratori. In un certo senso, il movimento punk era la conseguenza della crisi economica che si è sviluppata sotto le scelte politiche di Margaret Thatcher.
In Slovenia abbiamo recepito il punk soprattutto come un fenomeno musicale e, nel contempo, come una forma di ribellione, le cui ragioni erano però ben diverse rispetto a quelle parallele in Inghilterra. Da noi non c’erano i presupposti per fare una lotta contro le politiche thatcheriane, bensì si è trattato di una battaglia contro i valori rigidi della società socialista – una società molto burocratizzata che non garantiva un livello di libertà adeguato. Il movimento punk nell’ex Jugoslavia ha dato ai giovani la possibilità di chiedere ad alta voce nuovi spazi e libertà rispetto a quanto la società socialista jugoslava era disposta a concedere.
Alla base della protesta c’era una profonda insoddisfazione, quasi una sorta di disperazione verso l’esistenza. Non a caso l’album d’esordio di un gruppo fondamentale come i Pankrti era intitolato Dolgcajt (“Noia”). All’epoca molti giovani sloveni eravamo accomunati dal desiderio di libertà e di perseguire scambi culturali liberi col mondo.
Per sintetizzare, dunque, in un contesto più ampio il punk sloveno era indubbiamente diverso e riconoscibile.
Alcuni critici musicali puntualmente annoverano il tuo gruppo, i Niet, tra i complessi hardcore.
Sulla linea temporale l’hardcore può essere classificato come l’ultimo genere riconducibile al punk. Intendeva rappresentare un momento di rottura, di scissione col passato. Chi ne faceva parte abbracciava la cultura del “do it yourself”. Spesso aderiva anche a movimenti culturali nuovi, ad esempio il movimento vegetariano.
Siete considerati un gruppo di culto, eppure in un primo periodo avete pubblicato relativamente poco
Negli anni Ottanta i complessi pop avevano nell’ex Jugoslavia una buona copertura mediatica con tante possibilità di incidere e ottenere risalto a livello mediatico. Le possibilità per i gruppi punk erano invece molto scarse. È vero che all’inizio i Pankrti hanno potuto pubblicare i primi album con la casa discografica Založba kaset in plošč RTV Ljubljana (ZKP RTLJ). Però si è trattato di un caso eccezionale: le altre compagini punk non avevano questa fortuna.
Con i Niet eravamo in quegli anni molto famosi, eppure non ci era data la facoltà di incidere nemmeno un disco, nonostante le molte richieste di persone a noi vicine, come Igor Vidmar, che erano esperte sul fronte musicale. Negli anni Ottanta c’erano per lo più i dischi in vinile, pertanto le possibilità di pubblicazione erano alquanto esigue, perlomeno per chi si dedicava al punk. Siamo riusciti a registrare solamente una cassetta (dal titolo Srečna mladina, ndr.). Poi, negli anni Novanta, con la diffusione dei CD, le cose sono cambiate e abbiamo potuto diffondere la nostra musica con maggiore efficacia.
Gli osannati anni Ottanta forse non erano poi così “facili” come si può pensare.
Oggi è diverso. C’è più facilità a concepire, registrare e diffondere la propria musica grazie ai nuovi mezzi e i canali a disposizione.
Noti qualche differenza anche nel passaggio generazionale del vostro pubblico ed in riferimento ai giovani più in genere?
I giovani – in Slovenia come altrove – mi sembrano attenti ai problemi legati al cambiamento climatico, ma anche accomunati da una genuina preoccupazione per quanto sta succedendo sul fronte di Gaza e in altre parti del mondo dove ci sono dei conflitti importanti. Non c’è però una presa di coscienza collettiva, come avveniva invece negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso con i movimenti studenteschi di allora.
Rispetto al passato, oggi tutto sembra più vago e sparpagliato. Non esistono più dei veri e propri movimenti culturali come lo erano un tempo il movimento punk, il movimento hippy e quello metal. Nella cultura contemporanea non ci sono delle linee chiare di demarcazione, tutti vogliono essere collocati un po’ ovunque. Quando gli studenti hanno qualche spiraglio di portare avanti delle battaglie, il più delle volte non hanno la necessaria visibilità per ottenere un reale seguito.
Noto che in questi anni è tutto molto individualizzato. Dagli anni Ottanta ad oggi il mondo è cambiato drasticamente. Con le nuove tecnologie e i nuovi strumenti mediatici ciascuno può trovare il modo o il canale per autopromuoversi. Non è chiaro a cosa porterà la digitalizzazione della società. Se lo chiedete a me, stiamo navigando a vista in acque nuove. Però questo è il mio punto di vista: i giovani probabilmente sanno trovare una propria strada, destreggiandosi tra tutte queste novità.
Ringraziandoti dell’intervista, il mio auspicio è di vederti presto con i Niet su qualche palco importante d’Italia.
Nato a Trieste, dopo gli studi conseguiti all’Università dell’Essex e all’Università di Cambridge, è stato cultore in Economia politica all’Università di Trieste. È stato co-redattore della rivista online di economia “WEA Commentaries” sino alla sua ultima uscita. Si interessa di economia, sociologia e nel tempo libero ha seguito regolarmente il basket europeo ed in particolare quello dell’ex-Jugoslavia nel corso degli ultimi anni. Ha tradotto per vari enti ed istituzioni atti e testi dallo sloveno all’italiano e dall’italiano allo sloveno.