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Cartello nei pressi del monastero di Neum (Meridiano 13/Giorgia Spadoni)
Protagonista del reportage Il lago, tradotto da Anna Lovisolo e pubblicato da Crocetti Editore, il lago di Ocrida è un ecosistema incredibile, fragile e antichissimo, sempre più minacciato dalle attività umane. Proponiamo un estratto del libro di Kapka Kassabova in occasione della Giornata mondiale dell’acqua.
Il Lago di Ocrida Età: da 1 a 3 milioni di anni. Profondità: 300 metri (massima); 15 metri (media). Altitudine: 695 metri. Montagna più alta nell’area: Monte Galičica 2.270 metri. Bacino pluviale: 2.600 chilometri quadrati. Isole: nessuna. Primo nome conosciuto: Lacus Lychnitis (Lago della Luce).
Era mattino presto e l’acqua era trasparente come una membrana, sembrava appena nata. La mia guida era una ragazza di nome Ivanka, che guarda caso era anche cugina di Tino, mio cugino in quanto figlio di Tatjana. Non lo sapevo quando avevo prenotato la gita in barca: ancora una volta mi imbattevo per puro caso in lontani parenti. Dopo una settimana le facce del centro storico avevano iniziato a sembrarmi troppo familiari, iniziavo a evitare certe strade e avevo una gran voglia di uscire sul lago. Mi interessava soprattutto la costa orientale. Avrei attraversato il lago per capire come fosse scappato il mio bisnonno nel 1929. Lo aveva navigato in tutta la sua lunghezza fino alla costa albanese a sud? Era insieme a un amico. All’epoca le barche a motore non esistevano ancora, e perciò probabilmente avevano dovuto remare per trenta chilometri.
“Tutto è possibile se sei sufficientemente disperato” osservò il padre di Ivanka rispondendo alla mia domanda. Era un uomo pacato dagli occhi miti, e la barca era sua. Gli domandai se si ricordasse di mia zia Tatjana, che era anche sua cognata. “Certo che sì,” si limitò a replicare, e avrebbe voluto dire altro, molto altro, ma non riusciva a trovare le parole. Oltretutto io ero una perfetta estranea. “Dopo la sua morte, Tino è venuto a stare da noi.”
Le sue figlie avevano fondato la prima agenzia di Ocrida a offrire escursioni turistiche in barca. “Papà ci ha incoraggiato a farlo, senza riserve,” disse Ivanka, e aprì un tavolino da campeggio. Facemmo colazione con pomodori sugosi, feta di pecora, burek (una sfoglia ripiena), e una generosa dose di “rakija da colazione” a base di uva; era morbida e ambrata. Soltanto il quaranta per cento di alcol, disse il padre.
“Quando io e mia sorella abbiamo fatto il corso per diventare guide alpine eravamo le uniche femmine su un centinaio di partecipanti!” mi raccontò Ivanka. “Non pensavano che ci sarebbero state delle donne, e perciò dovevamo fare le stesse flessioni dei maschi. Ma ce l’abbiamo fatta. Papà ha sempre avuto fiducia in noi.”
Il padre non era il tipo da prendersi il merito, ma comunque faceva la propria parte mettendoci la barca. Ovviamente si trattava di un’impresa familiare. Se si aveva successo qui, avveniva a livello familiare.
“È una cultura superconservatrice,” proseguì Ivanka. “Io e mia sorella siamo delle eccezioni, siamo dinamiche, abbiamo il coraggio di sognare, non è che ci sposiamo, facciamo dei figli e basta.” Uscire sul lago con il vento tra i capelli ti aiuta a sognare, già lo sentivo. Oltrepassammo la boscosa penisola di Goritsa, che un tempo era stata la tenuta estiva di Tito. Era ancora di proprietà del presidente della repubblica e veniva usata molto di rado.
“Una volta siamo entrati per visitare la villa,” mi raccontò Ivanka. “Sembra un museo. Alle pareti ci sono ancora i ritratti di Tito. Da brividi.”
Le poche miglia di costa successive erano punteggiate da stagionati alberghi risalenti alla Jugoslavia, i cui nomi mi fecero in qualche modo tornare indietro nel tempo, dall’epoca comunista fino all’antichità: c’erano il “Granito”, il “Cemento”, il “Metropol”, il “Filippo il Macedone” e il “Dessaretæ”. Più in alto erano appollaiati i monasteri lacustri. Quello con il nome più misterioso era Santo Stefano Panzir delle “cotte di maglia”, chiamato così per via di una schiera di soldati in cotta di maglia morti in quel punto, appena a sud della Via Egnatia. Ma chi erano? Nessuno lo sa con certezza.
Un’ipotesi ragionevole, basata su racconti orali, è che la battaglia fosse stata un preludio della Prima Crociata e della montante aggressività da parte del mondo cristiano occidentale verso l’Oriente. Sia l’Oriente islamico sia quello cristiano. Tra il 1080 e il 1085 i normanni avevano invaso l’Albania dall’Adriatico e furono sconfitti qui dai bizantini, che avrebbero poi difeso Lychnidos, il cui arcivescovo si era rifugiato tra gli eremiti che vivevano tra le rocce. E che cosa rendeva l’esercito bizantino così forte? L’ingente numero di mercenari turchi e di altri orientali e “barbari” tra le sue file.
Vista sul lago dalla chiesa di sveti Jovan (Meridiano 13/Giorgia Spadoni)
Più cose apprendevo su questa regione e più mi colpiva il fatto che i Balcani sud-occidentali e la penisola balcanica nel suo complesso fossero una specie di arena di matrimoni e di guerre, non solo tra cristiani, musulmani ed ebrei, ma anche tra Occidente e Oriente, e in questo risiedono la loro complessità e i loro guai. In Oriente sono nati l’ebraismo, il cristianesimo, l’islamismo, l’induismo e, in un tempo ancora precedente, le primissime pratiche dello sciamanesimo asiatico. Era nella natura stessa dell’Oriente contenerle tutte simultaneamente, nell’arco del tempo: essere poliglotta. Non così l’Occidente, o comunque non a un tale livello.
Apprendiamo dal poema epico medievale La Chanson de Roland e dal Libro di Ruggero di Al Idrisi (v secolo) che nell’esercito bizantino c’erano soldati di ventisette etnie e religioni, tra cui turchi, persiani, un assortimento di slavi, armeni, peceneghi, avari, ungheresi e “strimoni” (provenienti dalla regione del Fiume Struma, o Strimone). Non più tardi della fine del xiii secolo, quando le armate di Carlo d’Angiò assalirono più volte la penisola attraverso la Via Egnatia, i bizantini e i bulgari le respinsero aiutati da soldati turchi e di altre zone dell’Asia. Si trattava dell’ambiguo, sfaccettato, multiteista Oriente che si contrapponeva alla più singolare rettitudine dell’Occidente, e che talvolta si fronteggiava anche al proprio interno, come nel caso della Bulgaria e di Bisanzio. Queste guerre tra cristiani avrebbero infine aperto la strada ai turchi ottomani sulla scena europea.
Guardai Ivanka e suo padre, tutti e tre eravamo nati dal naturale e vasto cosmopolitismo di questa penisola, ci capivamo alla perfezione pur essendo stati artificialmente alienati gli uni agli altri da una politica interna divisiva.
Raggiungemmo un tratto di costa selvaggio. Gli alberghi si diradarono per fare posto alla roccia calcarea. Riuscivo a scorgere qualche nicchia eremitica, e persino una scala di corda che pendeva a mezza costa dalla parete rocciosa. Era passato un bel po’ di tempo da quando qualcuno vi si era arrampicato. Forse Gotse Zhura era stato l’ultimo.
“In un passato molto lontano il livello del lago era più alto,” disse il padre. Soltanto centocinquant’anni prima era possibile raggiungere in barca alcune delle grotte adesso inaccessibili. Se risalissimo abbastanza indietro nel tempo, il lago sarebbe un mare. Nel Lago di Debar, una sessantina di chilometri più a nord, sono state ritrovate tracce geologiche della sua esistenza. Si era trattato di un gigantesco specchio acqueo all’interno del bacino di Dessaret, una depressione tettonica formatasi fra i tre e i cinque milioni di anni fa. Mi dava le vertigini il pensiero che il periodo di permanenza dell’uomo sulla terra (quarantaseimila anni per gli umani, meno per il sapiens) non fosse che un lampo fugace nell’esistenza del lago. Ed eccomi qui, a cercare di capire la vita emotiva di appena un centinaio di anni lacustri.
Domandai quanto fosse profondo il punto in cui ci trovavamo. “Se riesci a vedere il fondo non sono più di ventitré metri,” rispose il padre.
Il motivo di questa estrema limpidezza è il gran numero di sorgenti sublacustri che alimentano il lago, comprese quelle che arrivano dal Prespa. “Questo è il più ampio bacino europeo di acqua pulita,” disse Ivanka. “Le minacce più grandi sono l’inquinamento e l’eccessiva urbanizzazione.”
(Meridiano 13/Giorgia Spadoni)
(Meridiano 13/Giorgia Spadoni)
Un naturalista mi ha spiegato che il tempo di ritenzione del lago, ovvero il tempo necessario perché le sue acque si rinnovino completamente, si colloca tra i settantacinque e gli ottant’anni. Praticamente una vita! Era quasi un miracolo che il lago fosse rimasto pulito, tanto che le sue acque erano potabili, mentre tutto ciò che c’era intorno – lo stato, l’economia, il clima – veniva intaccato. Il motore era troppo rumoroso perché riuscissimo a parlare, perciò io e Ivanka ci sdraiammo sulle dure panche di legno della barca e ci mettemmo a prendere il sole, mentre il padre ci portava a sud. Il lago sfavillava, pieno di cielo, ma le cime frastagliate delle montagne, dove si librava un parapendio bianco come un albatro, sembravano ostili agli umani. Ero sicura che Kosta avesse passato il confine durante la notte. Era stato uno dei tantissimi fuggiti attraverso il lago tra le due guerre mondiali.
“Molti non ce l’hanno fatta,” disse il padre. “Se li sono mangiati i pesci.” “Oppure le samovila li hanno convinti con l’inganno a seguirle in mezzo al lago,” fece Ivanka con un sorriso. “Il centro del lago non sono affari nostri,” aggiunse il padre senza sorridere.
C’era una leggenda popolare locale sulle vilas slave, o samovila, entità mutanti che si trasformano in donne, ninfe dal passo veloce che di solito appaiono quando c’è la luna piena, nelle foreste e in altri luoghi sulla soglia spazio-temporale. Ma non avevo mai sentito parlare di ninfe del lago.
“Questo lago ha le sue samovilas,” disse Ivanka. “Cantano ai pescatori delle canzoni senza parole. Finché loro annegano.” “Ce n’è una risalente agli anni venti, quando molti sono scappati attraversando il lago,” disse il padre, e cantò le prime strofe:
Ohird, Ohrid, ubav mil ti za mene ray si bil.
Ocrida, Ocrida, gentile e saggia, perduta per me, come il paradiso.
La canzone per la verità era stata scritta da un altro dei miei antenati, anche lui fuggito in Albania. Era la canzone degli esuli di Ocrida.
Il padre sorrise conciliante. Come molta gente di lago che stavo conoscendo, non era tipo da agitarsi.
Il lago di Kapka Kassabova, traduzione di Anna Lovisolo, Crocetti Editore, 2022