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Il ritorno degli imputati del Tribunale penale internazionale: c’è vita dopo l’Aja

Sono passati oltre trent’anni dall’istituzione del Tribunale penale internazionale dell’Aja e circa otto dalla sua chiusura. Dopo ventiquattro anni di attività che hanno portato alla formalizzazione di 161 atti d’accusa, 103 condanne, di cui cinque ergastoli e quasi 80 a lunghe pene detentive, e 19 assoluzioni, ci si potrebbe domandare che cosa facciano oggi i protagonisti dei processi legati alle guerre degli anni Novanta nei paesi della ex Jugoslavia.

Al netto delle premature scomparse, su tutte quelle del presidente serbo Slobodan Milošević nel 2006, del generale Zdravko Tolimir dieci anni dopo e del colonnello Ljubiša Beara nel 2017, molti di coloro che sono finiti sul banco degli imputati, senza essere necessariamente condannati, hanno cercato di entrare (o di rimanere?) in politica, di dedicarsi all’economia o ancora, per chi è ancora irretito nelle more della detenzione, di ottenere il tanto agognato rilascio anticipato.

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Radislav Krstić: il boia di Srebrenica

Da dove cominciare, dunque? Beh, probabilmente un valido punto di partenza potrebbe essere La caccia. Io e i criminali di guerra di Carla Del Ponte, un libro sempre più difficile da reperire, scritto dall’ex procuratrice capo del tribunale per i crimini di guerra ed edito da Feltrinelli.

Partendo dalle inchieste raccontate da Del Ponte, infatti, è possibile individuare larga parte dei nominativi di coloro che a cavallo tra gli anni Novanta e gli inizi del XXI secolo sono stati al centro delle indagini e dei relativi procedimenti legati alle guerre in Croazia, Bosnia ed Erzegovina e Kosovo. Il libro comincia con un frammento della deposizione processuale del Testimone O., ripresa dal processo Il Procuratore contro Radislav Krstić del 13 aprile 2000, che racconta le ore successive allo sterminio di Srebrenica, dopo essere riuscito a trascinarsi via dalla catasta di morti, fuggendo insieme a un altro sopravvissuto:

Quando ha finito di bendarmi, mi sono addormentato in braccio a lui, perché non dormivo da tanto, tanto tempo… Siamo rimasti lì fino al mattino… e mi ha svegliato e mi ha chiesto: ‘Dove andiamo?’. Io ho detto: ‘Non lo so’

Radislav Krstić durante un’udienza del Tribunale penale internazionale dell’Aja (Wikipedia)

Ecco, Radislav Krstić: maggiore generale, ex comandante del Corpo della Drina dell’esercito serbo-bosniaco che, come riporta Ivica Đikić in Metodo Srebrenica (Bottega Errante Edizioni), ha partecipato insieme a vari alti ufficiali, tra cui Ratko Mladić e Vujadin Popović, “all’inizio del trasporto della popolazione civile da Potočari verso Kladanj e dei maschi adulti separati dalle famiglie a Bratunac”.

Condannato a 35 anni di detenzione per favoreggiamento del genocidio di Srebrenica, nel novembre dell’anno scorso ha richiesto il rilascio anticipato e detto di voler chiedere perdono alle famiglie delle vittime. Il generale, ancora detenuto nelle carceri polacche e che ha riconosciuto il proprio ruolo in uno dei casi di sangue più eclatanti della guerra in Bosnia ed Erzegovina, sta provando a mettersi tutto alle spalle, ma il Meccanismo residuale dell’Aja – notizia di pochissimi giorni fa – ha respinto la sua richiesta di rilascio anticipato..

Tra pentimento e business

Stesso discorso per Mićo Stanišić, ex ministro degli Interni della Republika Srpska, condannato a 22 anni per crimini di guerra: come riporta il Balkan Transitional Justice, la difesa sostiene che

dopo quasi 20 anni dalla sua consegna volontaria e più di 32 anni da quando sono stati commessi i crimini, la pena scontata finora ha contribuito non solo all’eliminazione della possibilità di commettere ulteriori crimini, ma anche alla riconciliazione nella comunità in cui sono stati commessi.

In questo caso, invece, non resta che attendere la decisione del Meccanismo residuale.

Tutt’altra storia invece è quella di Tihomir Blaškić, ex capo di stato maggiore dell’Hvo (Consiglio di Difesa Croato), processato anche per l’attacco di Ahmići e condannato a nove anni per il “trattamento inumano e crudele” (Carla Del Ponte in La Caccia giudicò la decisione della Camera d’appello “scandalosa”), oggi è un business development manager, ovvero un professionista incaricato di sviluppare le opportunità di crescita e l’espansione del business delle aziende, per un’impresa informatica croata, come riporta tra l’altro sul suo profilo LinkedIn.

Ma non c’è solo Blaškić tra quelli che ce l’hanno fatta, costruendosi una nuova attività professionale. Due nomi su tutti, infatti, meritano di essere ricordati in questa sede: il fondatore del Partito radicale serbo Vojislav Šešelj e il capo di Alleanza per il futuro del Kosovo Ramush Haradinaj.

Il ritorno in politica dopo il Tribunale penale internazionale

Cominciamo dal primo. Vojislav Šešelj, condannato a dieci anni di detenzione per crimini contro l’umanità che, come riporta l’Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa in un articolo del 2018, “appresa la notizia della condanna, ha dichiarato di essere orgoglioso di tutti i crimini di guerra e contro l’umanità che gli venivano attribuiti e di essere pronto a ripeterli in futuro”, oggi continua a fare politica, dopo aver anche ottenuto in passato lo scranno da deputato.

A fine 2024 rilascia alcune interviste in cui una, a Srbija Danas, mette in guardia l’Occidente dagli Stati Uniti d’America (“Sad žele da zarate Zapadna Evropa i Rusija”, ovvero “Gli Stati Uniti vogliono combattere l’Europa occidentale e la Russia”), mentre a Kurir parla di Srebrenica, sostenendo che si trattava di un grande crimine ma non un genocidio (“Bio je veliki zločin, ali ne genocid”).

Per quanto concerne Ramush Haradinaj la storia è più complessa. Partiamo da La caccia:

Il 3 dicembre 2004 l’Assemblea del Kosovo elegge primo ministro della regione Ramush Haradinaj, capo di un partito che porta il nome di Alleanza per il futuro del Kosovo. Proprio alla scadenza della strategia di completamento per le nuove incriminazioni, l’Ufficio della Procura presenta alla Camera giudicante un’incriminazione contro Haradinaj. […] L’incriminazione, nella sua forma finale riveduta, sostiene che Haradinaj è stato il comandante dell’Uçk in gran parte del Kosovo occidentale, un’area designata dall’Uçk come la ‘zona operativa del Dukagjin’, e che aveva autorità di comando sui coimputati, Idriz Balaj e Lahi Brahimaj, oltre che su altro personale dell’Uçk.

L’incriminazione sostiene che gli imputati avevano formato un’impresa criminale congiunta il cui scopo era consolidare il controllo dell’Uçk sulla zona operativa del Dukagjin con l’illegale rimozione e maltrattamento di civili serbi e con il maltrattamento di albanesi, rom e altri civili che erano visti come collaborazionisti delle forze serbe o che non appoggiavano l’Uçk. L’incriminazione presenta a Haradinaj diciassette capi di imputazioni per crimini contro l’umanità e venti capi per violazione delle leggi e delle consuetudini di guerra.

Non appena il primo ministro viene a conoscenza dell’incriminazione, e di questo bisogna riconoscergli il merito, si dimette immediatamente, pur negando ogni responsabilità, e si consegna alle autorità competenti. Dopo aver incassato l’assoluzione, il leader di Alleanza per il futuro del Kosovo (Aak), ricopre nuovamente la carica di primo ministro il 9 settembre 2017. Si dimette però nel 2019 sempre per questioni legate alle indagini dell’Aja.

Oggi è tornato nuovamente in sella, dato che si è candidato come primo ministro del paese per le elezioni del 9 febbraio 2025.

Ramush Haradinaj con alcuni combattenti dell’Uçk durante la guerra in Kosovo del 1999 (Facebook)

Radovan Karadžić: il terapeuta ergastolano

A questo punto merita ricordare chi aveva cercato di costruirsi una nuova vita, senza passare dai processi, per poi però finire in cella, ovvero Radovan Karadžić.

L’ex presidente della Republika Srpska, com’è noto, è stato latitante fino al luglio del 2008, quando fu arrestato sull’autobus 73 della linea pubblica di Belgrado. Karadžić, va detto, ci aveva provato a voltare pagina, circolando sotto la falsa identità di Dragan Dabić, messianico dottore in psicoterapia e terapeuta, nonché fondatore di un’associazione specializzata nell’agopuntura e nelle pressioni delle mani. Il nostro, caratterizzato da una folta barba e da una lunga treccia, pare che si fosse occupato della stesura di un codice comportamentale del terapeuta, della scrittura di svariati articoli e di partecipare a molte conferenze.

Era anche tornato a scrivere poesie, inclinazione che già vantava prima dello scoppio della guerra in Bosnia ed Erzegovina – basti pensare alla felicità con la quale accolse in una Sarajevo sott’assedio lo scrittore russo Eduard Limonov.

Poi però le cose andarono diversamente. A seguito dell’arresto, infatti, Karadžić-Dabić venne condannato a quarant’anni in primo grado e all’ergastolo in appello, finendo nel carcere di massima sicurezza britannico His Majesty’s Prison di Wright. Carcere dove si trova tuttora.

Nostalgia canaglia

È tornata invece libera e a nuova vita Biljana Plavšić, incriminata per genocidio e crimini contro l’umanità e di guerra, ricoprendo anche il ruolo di presidente della Republika Srpska. Dopo il patteggiamento e l’aver scontato due terzi della sua condanna a undici anni di reclusione, raccontata da Carla Del Ponte in La caccia con un “rigido tailleur di tweed da brava signora britannica, mi informa che è laureata in biologia e procede a descrivere la superiorità del popolo serbo”, è rimasta nel mondo della politica.

Vive a Belgrado e poche settimane fa ha salutato con gioia il trentaduesimo anniversario della nascita della Republika Srpska, che ricorre ogni 9 gennaio.

Biljana Plavšić con Željko Ražnatović, noto come la Tigre Arkan, a Bijeljina durante la guerra (Avaz)

Andando verso la conclusione di questa breve raccolta di ex imputati dal Tribunale penale internazionale dell’Aja, possiamo ricordare la dichiarazione di inammissibilità dell’appello promosso dalla difesa di Gojko Janković.

Nel 2019 Janković, leader paramilitare serbo-bosniaco di Foa, condannato a 34 anni di carcere nel 2007 per crimini contro l’umanità, è stato riconosciuto colpevole per tortura, stupro (anche di minori), riduzione in schiavitù sessuale di donne, di trasferimento forzato, di detenzione illegale e di omicidio di bosgnacchi. I suoi guai con la giustizia sono cominciati nel 2005, quando si costituì il 14 marzo dopo essere stato “[…] nascosto in Russia, e sua moglie lo ha convinto a consegnarsi per il bene della famiglia”.

L’imputato autoassolto

Infine, abbiamo Radivoje Miletić, capo delle operazioni dell’esercito serbo-bosniaco, incriminato per fatti connessi all’espulsione forzata e la deportazione dei bosgnacchi di Srebrenica e Žepa. Nel 2022 il Meccanismo residuale dell’Aja ha respinto la richiesta di rilascio anticipato, dopo la condanna riportata nel 2015 a diciotto anni di reclusione per omicidio, persecuzione e trasferimento forzato.

Il Meccanismo del Tribunale penale internazionale, dunque, nonostante il riconoscimento della gravità dei reati da parte di Miletić e il fatto di essersi autodichiarato riabilitato, esprimendo rammarico per le vittime e le famiglie, non gli ha concesso di lasciare il carcere finlandese dove tuttora si trova.

Possiamo dire, dunque, che dopo l’Aja c’è sicuramente vita, anche per coloro che si sono macchiati di terribili reati. Molti condannati, infatti, hanno voltato pagina, ma il pensiero non può che andare alle vittime, a tutti coloro cui la preziosa opportunità di lasciarsi tutto alle spalle non sarà mai concessa.

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Lorenzo Mantiglioni
Lorenzo Mantiglioni

Giornalista e dottore in Giurisprudenza, attualmente cura l’ufficio stampa del Comune di Capalbio e collabora con il progetto divulgativo Frammenti di Storia. Nel 2019 è stato selezionato per partecipare, in Bosnia ed Erzegovina, all’International Summer School Rethinking the culture of tolerance, organizzata dai tre atenei di Sarajevo, Sarajevo Est e Milano-Bicocca. Autore del libro Stante così le cose, edito da Edizioni Creativa.