Come potrai immaginare, questo progetto ha dei costi, quindi puoi sostenerci economicamente con un bonifico alle coordinate che trovi qui di seguito. Ti garantiamo che i tuoi soldi verranno spesi solo per la crescita del progetto, per i costi tecnici e per la realizzazione di approfondimenti sempre più interessanti:
IBAN IT73P0548412500CC0561000940
Banca Civibank
Intestato a Meridiano 13
Puoi anche destinare il tuo 5x1000 a Meridiano 13 APS, inserendo il nostro codice fiscale nella tua dichiarazione dei redditi: 91102180931.
Il 2 ottobre 1944 il comandante dell’Esercito Nazionale polacco Tadeusz Bór-Komorowski consegna i documenti di resa al comandante delle SS Erich von dem Bach, decretando la fine e la sconfitta di quella che passerà alla storia come l’insurrezione di Varsavia.
I ribelli della capitale, infatti, diedero vita alla più grande rivolta nei territori occupati dai tedeschi di tutta la Seconda guerra mondiale, combattendo in condizioni critiche per più di due mesi. Quando l’evidente superiorità di armamenti e numerica dei tedeschi prevalse sulla determinazione e l’abilità tattica e strategica dei varsaviani, il comandante delle SS non ebbe dubbi: Varsavia doveva essere rasa al suolo, cancellata dalle mappe e dalla memoria, cosi che la sua assenza così presente rappresentasse l’inferiorità di ogni popolo al confronto con gli ariani.
Ogni abitante deve essere ucciso, senza fare prigionieri. Che la città sia rasa al suolo e resti come terribile esempio per l’intera Europa.
Heinrich Himmler
Per prima cosa, tutti gli abitanti della città dovevano essere deportati. Agli ebrei, ai membri della comunità LGBTQIA+, alle popolazioni romaní, toccava la morte certa; agli altri, una traversata verso il sud del paese con maltrattamenti e sofferenze, e un futuro incerto nei campi di concentramento e di sterminio.
Per questo motivo, circa 1.100 persone decisero di scampare al rastrellamento tedesco e nascondersi tra i sassi di una città in rovina che stava per essere distrutta sistematicamente fino all’ultima pietra. Divennero famosi come i Robinson Crusoe di Varsavia, didascalico riferimento al protagonista dell’omonimo romanzo di Daniel Defoe che, naufrago, visse 28 anni in condizioni estreme e innumerevoli peripezie su una sperduta isola tropicale prima di essere salvato.
Per i Robinson di Varsavia che vissero tra le rovine per mesi (quattro, coloro che ne uscirono vivi), il tempo deve essere sembrato lungo almeno come i 28 anni di Crusoe.
I Robinsons e la “Varsavia di sotto”
Oggi, nel 2024, la via più diretta tra il quartiere Zoliborz a nord e il centro cittadino è Aleja Jana Pawła II (Viale Giovanni Paolo II), la quale interseca con Aleja Solidarności (Viale Solidarność) per portarci dritti al Castello Reale nella città vecchia di Varsavia, patrimonio Unesco dal 1980. Nell’autunno 1944, però, la Città Vecchia era una ragnatela di pallottole e bombe a mano; per gli insorti, la via più veloce per raggiungere Zoliborz e il centro era la rete fognaria.
Come dicevamo, molti dei Robinsons erano ebrei, molti erano polacchi, alcuni russi. Qualcuno di loro diventò un Robinson contro la propria volontà, scappando fortuitamente alle esecuzioni dei nazisti nei distretti di Ochota, Czerniaków e di Śródmieście.
Era sentire comune che i tedeschi fossero ormai sull’orlo della sconfitta e con i sovietici accampati sull’altra sponda della Vistola la fine dell’occupazione sembrava ormai vicina. I più si nascosero in fretta e furia in fosse comuni, fogne, campanili, edifici in fiamme. Soli, sprovvisti di ogni risorsa e andando incontro al gelido e buio inverno polacco, la loro salute mentale e fisica si logorò velocemente. Alcuni cercarono di scappare dalla città e raggiungere il quartiere Praga, oltre il fiume, spesso venendo scoperti e massacrati.
Molti, tuttavia, decisero di rimanere in città dopo lunghe deliberazioni collettive. Il loro nascondiglio veniva scelto con cura, spesso insieme ad altri gruppi che avevano deciso di rimanere. A volte la scelta del luogo era decisa dall’avvicendarsi del destino.
Un gruppo di Robinson poteva anche formarsi in base a conoscenze precedenti; chi prendeva la decisione con sufficiente anticipo aveva il tempo di trovare e attrezzare il proprio rifugio. Col tempo, si svilupparono vere e proprie comunità nascoste, le quali vivevano nella “città di sotto” e si riunivano di notte, scambiandosi informazioni e rinfrancandosi l’un l’altro.
Nel seminterrato di un edificio in Via Sienna 20/22 si nascose, insieme a 40 persone e alla moglie “ariana”, il medico Henryk Beck, un eccezionale ginecologo e ostetrico. Una donna ebrea, uno dei membri superstiti del gruppo, ricorda:
In una delle prime riunioni Beck tenne un discorso in cui ci avvertì che in queste condizioni anomale avremmo avuto molti scontri e attriti, che avremmo dovuto evitare i conflitti.
I membri del gruppo introdussero una disciplina ferrea per governare le loro giornate, distribuirono le faccende domestiche e idearono persino attività extracurricolari per aiutare a mantenere il morale. Leggevano libri raccolti durante le razzie alla ricerca di cibo, giocavano a carte e a scacchi, tenevano conferenze educative. Nel tempo libero, il dottor Beck disegnava su ritagli di carta scene della loro vita nel bunker.
Gli inquilini di via Senna rimangono una testimonianza insolitamente suggestiva e unica nel suo genere della vita dei Robinson di Varsavia. Il nascondiglio non fu mai scoperto e l’intero gruppo, ad eccezione di Manchem Fiszer che morì di cancro, sopravvisse alla guerra.
Il Pianista
Il più famoso dei Robinson è sicuramente Władysław Szpilman, autore di un’autobiografia in cui racconta la tragedia della vita sotto occupazione tedesca. I suoi ricordi sono stati portati sul grande schermo da Roman Polanski nel film Il Pianista, il cui protagonista è lo stesso Szpilman, pianista ebraico che rimase nascosto a Varsavia tra mille peripezie fino alla liberazione dell’Armata Rossa, il 17 gennaio 1945 (e quasi ucciso da questi perché indossava un’uniforme nazista).
Le memorie di Szpilman ripercorrono gli eventi più tragici dell’occupazione tedesca di Varsavia. Nel 1943 il pianista, nascosto in una casa nella parte ariana della città, osserva la rivolta del ghetto ebraico, la più monumentale delle rivolte in un ghetto nei paesi occupati negli anni Quaranta.
Dopo varie peripezie, da un nuovo nascondiglio, assiste proprio alla rivolta di Varsavia, uscendo miracolosamente vivo da una battaglia senza quartiere (o, per meglio dire, con moltissimi quartieri coinvolti). Consapevole del suo destino se fosse stato trovato dai nazisti, Szpilman diventerà un Robinson solitario, nascondendosi in una soffitta di Ochota, nell’odierno Viale Indipendenza.
Qui, scoperto da un ufficiale tedesco, riuscirà a salvarsi muovendolo a compassione suonando la Ballata n°1 in Sol minore di Chopin. È l’entrata in scena di un parallelismo fondamentale: Chopin (che, essendo polacco, oltre il meridiano 13 si legge con l’accento sulla “o”) costretto come molti a scappare dalla Polonia dopo la rivolta del 1830, diventò ben presto uno dei simboli del nazionalismo polacco, sentimento che influenzò fortemente le sue opere.
Da Szpilman, dalla Rivolta di Varsavia, dalla liberazione dall’occupazione nazista, rinasce la Polonia ancora una volta dalle proprie ceneri.
La repressione dell’Insurrezione di Varsavia e il piano dei nazisti
Dopo la rivolta la città era quasi deserta. Alcuni residenti tra quelli sopravvissuti tornarono gradualmente e trovarono le loro case devastate e bruciate, trascorrendo le prime settimane e i primi mesi in rovina, senza elettricità né acqua corrente.
Tutti i ponti sulla Vistola e gli edifici industriali furono distrutti al 90%, gli edifici storici e residenziali e le strutture educative a più del 70%, le strutture culturali del 95%. Le stazioni ferroviarie e le relative infrastrutture ferroviarie, così come il materiale rotabile e le infrastrutture dei tram, praticamente cessarono di esistere.
Vale la pena ricordare che il piano dell’occupante di distruggere la capitale esisteva da prima dell’inizio della guerra. Varsavia era considerata dai tedeschi il centro del movimento di resistenza ed essendo il cuore della vita culturale, artistica e politica dei polacchi, si decise di relegarla al rango di città di provincia.
Il progetto urbano di Hubert Gross e Otto Nurnberger del 6 febbraio 1940, chiamato piano Pabst dal nome del capo architetto incaricato di occuparsi di Varsavia durante l’occupazione, presupponeva la creazione di una “nuova città tedesca di Varsavia” (dal tedesco: Die neue Deutsche Stadt Warschau). La città doveva essere destinata a circa 130mila persone. Sulla sponda sinistra della Vistola avrebbero abitato i tedeschi, mentre sulla destra sarebbe stato costruito un piccolo complesso residenziale per i polacchi che lavoravano per i tedeschi. La città doveva essere situata a sud e sud-ovest del centro storico di Varsavia, che doveva essere preservato come prova della presunta germanicità di Varsavia.
Nel 1942 il piano fu modificato e prevedeva la demolizione della maggior parte degli edifici e la trasformazione di Varsavia in una città di provincia, al servizio dei tedeschi come centro dove avrebbero vissuto l’élite tedesca e un gruppo politico (Ortsgruppe) di circa 40mila persone. In questa situazione, lo scoppio dell’insurrezione di Varsavia fu visto dai leader nazisti come un’eccellente opportunità per risolvere il “problema polacco”.
Tutta la nazione ricostruisce la sua capitale
Considerata l’entità della distruzione, la prospettiva di una ricostruzione post-bellica di Varsavia sembrava incredibile. Esistevano addirittura teorie sullo spostamento della capitale a Łódź, dove all’inizio del 1945 si trovavano molte istituzioni culturali. Tra le opzioni considerate c’era quella di restituire la capitale a Cracovia o, addirittura, di lasciare le rovine di Varsavia come monumento e costruire una città completamente nuova vicino a Góra Kalwaria.
La ricostruzione di Varsavia è stata al 100% una decisione politica presa a Mosca.
Poco prima della conferenza di Jalta, Stalin necessitava di sostegno, che a suo dire poteva essere fornito dalla visione di una Polonia rinata con capitale a Varsavia. Inoltre, dal 17 gennaio 1945, in città tornarono i residenti; percorsero la Vistola ghiacciata fino alle rovine coperte di ghiaccio e iniziarono a ricostruire le loro case da soli. Il 22 gennaio fu istituito l’Ufficio per l’organizzazione della ricostruzione della capitale.
Il primo sindaco di Varsavia del dopoguerra, Marian Spychalski, era un architetto di professione. Per ottenere risorse finanziarie per la ricostruzione di Varsavia, nel 1948 fu istituito il Fondo sociale per la ricostruzione della capitale (SFOS). Il denaro per questo scopo proveniva dalle tasse di tutti i lavoratori per un importo pari allo 0,5% degli stipendi. Inoltre, alcuni prodotti vennero tassati, furono riscossi i proventi dei biglietti per eventi culturali, e si organizzarono ulteriori raccolte fondi.
Grazie a ciò, quasi la metà delle risorse finanziarie e materiali a disposizione della Repubblica popolare polacca a livello nazionale furono destinate alla ricostruzione della capitale per diversi anni del dopoguerra.
Per perorare questo sforzo monumentale – che portò nel 1980 l’Unesco a riconoscere il centro storico di Varsavia come patrimonio dell’umanità – le autorità promossero lo slogan “TUTTA NAZIONE COSTRUISCE LA SUA CAPITALE”, tuttora inciso sull’edificio della Casa della Stampa Internazionale e del Club del Libro nella centralissima via Nowy Świat.
Un’insurrezione ancora molto presente
Il 1 agosto 2024 ricorreva l’ottantesimo anniversario della rivolta. Ed era anche il giorno del concerto di Taylor Swift allo Stadio Nazionale. Che tu sia un soldato, un comune cittadino o uno/una swiftie, alle ore 17 del 1 agosto a Varsavia bisogna fermarsi. Le auto si arrestano, il chiacchiericcio si interrompe, il tran-tran della capitale rimane sospeso.
L’inverosimile silenzio viene immediatamente frantumato dal frastuono delle sirene d’allarme che pervadono l’aria densa dell’estate.
Cinque aerei dell’aviazione polacca – un aereo da trasporto Hercules C-130 con appesa una bandiera bianca e rossa alta diversi metri con il simbolo della Polonia Combattente e quattro F-16 Jastrząb – sorvolano il centro cittadino sopra un fitto bosco di bandiere biancorosse, sostenute da decine di migliaia di polacchi, e di fumogeni bicolore. Passati 60 secondi, scroscianti applausi sigillano le emozioni del momento. Poi partono i cori, le canzoni insurrezionali e indipendentiste.
80 anni dopo aver rischiato di diventare parte di una storia passata, Varsavia è viva e presente più che mai, fiera della propria indipendenza e della propria storia. Come spesso accade anche durante il giorno dell’indipendenza nazionale, alcune celebrazioni assumono echi nazionalisti di estrema destra. Per questo motivo, istituzioni, associazioni e movimenti più moderati cercano di non lasciare che la commemorazione diventi una festa anti-europeista e anti-immigrazionista, organizzando manifestazioni di vario tipo in diversi luoghi simbolo della rivolta per giorni e giorni.
Nella polarizzazione sociale, geografica e politica che vive la Polonia dopo i primi anni Duemila, anche la rivolta è divenuta oggetto di dibattito. Sebbene il valore dimostrato dai rivoltosi sia riconosciuto quasi universalmente, in molti si rifanno all’analisi storiografica che vede l’insurrezione come un atto avventato e sconsiderato, in un momento in cui la guerra volgeva comunque al peggio per la Germania e i sovietici erano ad un tiro di schioppo dalla sponda occidentale del fiume.
Dall’altra parte, diversi storici e analisti sottolineano il valore politico della rivolta, che nel suo fallimento avrebbe comunque dimostrato la ferrea volontà d’indipendenza e di orgoglio nazionale dei polacchi, rendendo più complicata un’assimilazione nell’Unione Sovietica.
Un terzo dibattito riguarda la scarsa assistenza da parte degli alleati occidentali durante la rivolta – i quali probabilmente non hanno ritenuto conveniente supportare i soldati di Varsavia – e il lassismo sovietico, che non disdegnava uno spargimento di sangue bipartisan per disfarsi dei più rigidi oppositori dell’Esercito Nazionale.
L’insurrezione di Varsavia e il pop
Oltre al già citato Il pianista, se volete approfondire la storia di Varsavia e della rivolta di Varsavia durante la guerra, consigliamo la visione di Miasto ‘44 (Città ‘44) di Jan Komasa, disponibile su Netflix,I dannati di Varsavia (Kanał) del mitico Andrzej Wajda.
Per il settantanovesimo anniversario dell’Insurrezione, il rapper Sokół ha dato vita alla canzone Miłość zawsze jest (L’amore c’è sempre), il cui video musicale si ispira al matrimonio di Alicja e Bolesław Bieg, due insorti che che nell’agosto 1944 si sposarono nella zona di Varsavia momentaneamente liberata. Come ha raccontato Biega in un’intervista del 2014, il matrimonio è stato una vera festa, con sardine, pan di spagna e vini francesi sottratti ai tedeschi.
Infine, la cantante polacca Monika Brodka ha recentemente rilasciato il suo alum WAWA (uno dei nomi affettuosi di Varsavia) in cui fa propri i temi e gli eventi dell’Insurrezione. Sulle note jazz e lamenti delle sirene di guerra, il disco è un monumento alla contemporaneità della rivolta anche tra i più giovani.
Laureato in European and Global Studies, ha trascorso due anni in Polonia, prima a Cracovia per studio, poi a Danzica lavorando per la Thomson Reuters. Ha scritto una tesi di laurea magistrale sulla securitizzazione della gestione della pandemia da coronavirus in Polonia, e una tesi di master sull’infuenza politica della Conferenza di Helsinki in Polonia negli anni Settanta ed Ottanta