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Giornalista e professore universitario originario di Sarajevo, Neven Andjelić racconta la sua esperienza a Radio Sarajevo durante la guerra di Bosnia, riflettendo sui temi dell’oggettività del giornalismo e della libertà di espressione.
Lei ha lavorato per Radio Sarajevo a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta. Come è arrivato a ricoprire questa posizione? Che cosa voleva dire essere giornalista in quegli anni in Bosnia?
Iniziai quando ero uno studente, nel 1986, e successivamente divenne il mio lavoro. Il programma per cui lavoravo si chiamava Omladinski Radio Sarajevo (ovvero la sezione giovanile di Radio Sarajevo) e in tutta la Jugoslavia i media che erano denominati Omladinski avevano più libertà. Il regime non sopprimeva la libertà di espressione: in questo modo i media avevano l’opportunità di portare avanti dibattiti su alcuni argomenti fondamentali come i sistemi multipartitici, il ruolo della società civile e altri aspetti che venivano dati per scontati in Occidente, nelle democrazie liberali.
A metà degli anni Ottanta la Bosnia Erzegovina era forse la Repubblica jugoslava più conservatrice e comunista, ma poi gradualmente – anche grazie all’esistenza di questi media giovanili – alcuni scandali in cui le élite erano coinvolte vennero alla luce. Ai giorni nostri non sarebbe stato nulla di così sconvolgente, ma all’epoca, visto che l’ideologia prevalente era quella dell’egualitarismo socialista, questi scandali portarono la popolazione a rendersi conto dell’ipocrisia di chi li stava governando. Così la Bosnia Erzegovina perse questa élite molto conservatrice tra il 1987 e il 1988, che venne rimpiazzata da persone con meno esperienza: tutto d’un tratto la società più conservatrice divenne forse la più liberale e, ironicamente, alcuni dei giornalisti che non potevano pubblicare il loro lavoro a Belgrado o a Zagabria si trasferirono a Sarajevo.
La mia esperienza personale nel mondo del giornalismo iniziò in questo periodo: gli altri mi vedevano come un giornalista molto giovane e molto coraggioso che si scontrava con l’autorità, ma a dire il vero le autorità molto raramente facevano qualcosa per ostacolare il nostro lavoro. Ovviamente tutti i mezzi di informazione erano pubblici, non c’erano media privati ai tempi ma anche se lavoravamo per lo stato la nostra libertà di espressione era garantita. Le cose sono poi cambiate nel 1990, dopo il referendum in Bosnia, quando io divenni caporedattore a Omladinski Radio Sarajevo e le élite nazionaliste misero sempre di più sotto controllo il sistema d’informazione. Poco tempo dopo, nel 1992, iniziò la guerra in Bosnia e sempre più giornalisti si avvicinarono agli ideali nazionalisti che stavano prendendo piede, per interessi personali o per reale senso di appartenenza a un’etnia, ma quelli che occupavano le posizioni dirigenziali a Radio Sarajevo rimasero liberali. E questo è come ci siamo trovati all’inizio della guerra, durante la quale ho continuato a lavorare per Radio Sarajevo, non più nella sezione giovanile.
Qual era il ruolo di Radio Sarajevo durante l’assedio? Com’è cambiato il vostro lavoro dopo l’inizio della guerra?
Avevamo due frequenze diverse, un primo e un secondo canale. Poi, poco dopo l’inizio degli scontri violenti, ci siamo resi conto che i trasmettitori sulle montagne attorno a Sarajevo erano finiti sotto il controllo dei serbi. Quindi noi ci rivolgevamo a tutta la Bosnia, ma la maggior parte del paese non poteva sentirci. Per questo motivo, poche settimane dopo abbiamo iniziato a trasmettere attraverso un solo canale. Eravamo anche a corto di personale: molta gente aveva smesso di venire a lavorare perché aveva paura, e in effetti era davvero una situazione pericolosa. Solo io e pochi altri continuavamo ad andare al lavoro tutti i giorni. Dopo un paio di mesi però è cambiato tutto: il governo dichiarò lo stato di guerra e istituì la mobilitazione nazionale. D’un tratto le persone che avevano smesso di andare al lavoro iniziarono a ritornarci perché così facendo non avrebbero dovuto unirsi all’esercito. Nel frattempo si incominciavano a vedere sempre di più le differenze tra noi giornalisti, tra quelli che proclamavano il loro patriottismo molto apertamente, anche a costo di non essere professionali, e quelli che cercavano di continuare a fare informazione in modo oggettivo.
In effetti, il lavoro dei giornalisti durante le guerre jugoslave è stato criticato per essere pesantemente schierato e mancare di oggettività. Può raccontare qualcosa in più in merito?
Quattro mesi dopo l’inizio della guerra il governo mandò un fax in redazione, in cui c’era scritto tutto quello che i media nazionali potevano e non potevano dire, quali fonti usare o non usare. Quando vidi quel comunicato decisi di licenziarmi: andai dal mio capo e gli dissi che non potevo più continuare a lavorare per Radio Sarajevo, perché non volevo che nessuno mi dicesse come fare il mio lavoro. E dopo una lunga chiacchierata il mio capo mi chiese come si potesse essere oggettivi in quel contesto, quando qualcuno cerca di ucciderti mentre tu stai facendo il tuo lavoro. A dire il vero, anche per me questo era un aspetto cruciale. Non era una questione di scegliere con chi schierarsi: le circostanze avevano determinato da che parte stavamo. Se ti trovavi dalla parte dei serbi, dalla parte di chi chiaramente stava commettendo più atrocità, allora avevi la possibilità fisica di spostarti altrove. Ma bloccati dentro Sarajevo era fisicamente impossibile lavorare con oggettività o opporsi al pensiero nazionalista dominante. Ci ho provato a promuovere una narrazione diversa, ma più la guerra proseguiva e meno avevo successo.
L’’inizio dell’assedio è spesso associato alle grandi manifestazioni pacifiste di fronte al parlamento bosniaco. Io – e forse questo è il successo più grande che io abbia mai ottenuto – sono stato uno di quelli che ha incitato la gente a prendere parte a queste proteste. Questo dice molto sulla popolarità di Radio Sarajevoe su quale fosse inizialmente la direzione della stazione radio: provare a prevenire la guerra con mezzi pacifici e senza schierarsi con nessuno. Utopico forse, ma al tempo questo era il nostro pensiero. E all’inizio questo atteggiamento era apprezzato da molte persone. Gradualmente, le cose sono cambiate. Mi avevano tolto la possibilità di fare il redattore o il reporter, mi occupavo di monitoraggio. Il modo in cui lavoravo non piaceva più alla redazione, e io stesso non sapevo più bene come comportarmi. Così nel 1993 ho iniziato a cercare modi per lasciare Sarajevo.
Capita di sentire di giornalisti stranieri che avevano sviluppato un forte senso di attaccamento a Sarajevo, come una necessità di renderle giustizia. Ha notato anche lei questo atteggiamento?
Alcune persone sicuramente sentivano il dovere di mettersi al servizio di Sarajevo. Le troupe straniere che arrivavano a Sarajevo venivano perché era una storia da non perdere: una guerra nel cuore d’Europa. Molti di questi giornalisti sentivano un forte attaccamento a Sarajevo, che vedevano come una specie di bastione del multiculturalismo, che difendeva un’idea di diversità in Europa. E quello che stavano facendo a Sarajevo era evidente per qualsiasi straniero che arrivava in città. Era tutto un disastro, quindi era facile sentire molta vicinanza nei confronti della città. Molti di questi giornalisti sentono ancora questo tipo di attaccamento. Non va dimenticato che i giornalisti stessi si sono trovati coinvolti nell’assedio: tutti hanno corso rischi, alcuni sono stati feriti, alcuni sono morti. Il problema principale che avevano però, era che la maggior parte di loro dipendeva da fixer locali, che non erano necessariamente professionisti dell’informazione, ma semplicemente persone che parlavano molte lingue e che avevano una macchina per portare i giornalisti in giro per Sarajevo.
C’è una graphic novel molto interessante, scritta da Joe Sacco, che si intitola The fixer – a story from Sarajevo. Joe Sacco era arrivato a Sarajevo come tutte le altre crew straniere ed era andato all’Holiday Inn, dove si ritrovavano giornalisti stranieri, diplomatici, spie. Tutti stavano lì, perché era un centro di informazione. Sacco quindi assunse una guida locale, una delle persone che si presentavano all’Holiday Inn sapendo che avrebbero trovato da lavorare. Dopo aver lavorato a lungo con la sua guida, a Sacco sembrò che questo fixer fosse perfetto: conosceva tutti e tutti lo conoscevano, e raccontava ottime storie. Il problema che Sacco scoprì in seguito era che questa persona aveva il piccolo vizio di inventarsele, le storie. Quindi Sacco invece che un libro su Sarajevo finì per scrivere un libro sul suo fixer, cosa che sottolinea molto bene il problema delle troupe straniere. I giornalisti che arrivavano da fuori erano obbligati a contare su persone senza poterne verificare appieno il lavoro. Quindi i giornalisti stranieri diffondevano spesso informazioni sbagliate, anche se non intenzionalmente. Era quindi visibile che i media stranieri, generalmente, cercavano di promuoversi come intellettuali che si battevano in favore di Sarajevo.
L’ultimo rapporto dell’Associazione dei giornalisti bosniaci segnala un grave aumento della violenza nei confronti dei giornalisti, che vengono sempre più spesso attaccati. Cosa significano questi attacchi? Che cosa possiamo dedurre sullo stato attuale della libertà di espressione in Bosnia?
I cambiamenti tecnologici stanno portando a un cambiamento globale: possiamo chiamarlo democratizzazione dei media o deprofessionalizzazione dei media. Chiunque può essere un giornalista adesso. Quindi la domanda è: quanti di quelli che sono stati attaccati sono veramente giornalisti di professione? In molti casi, potrebbe trattarsi di attivisti politici disallineati con il regime, che non possono essere tecnicamente definiti giornalisti. Ad ogni modo, questa situazione è un ribaltamento della situazione presente durante la guerra, durante la quale le élite politiche decidevano chi poteva lavorare nei media. Adesso tutti i criteri si sono persi e si sta diffondendo un’interpretazione sbagliata della democrazia. La gente si sente automaticamente autorizzata a dire la sua su qualsiasi cosa, anche ostacolando le fonti di informazioni istituzionali.
Nel caso specifico della Bosnia, il problema è che il paese ha un numero incredibilmente grande di media, rispetto alla popolazione ridotta (circa 3 milioni di persone). Ci sono le emittenti nazionali, quelle delle due entità, e poi altre 37 piattaforme autorizzate, di cui la maggior parte è privata. E tutto questo non include il mondo del digitale (che conta 69 piattaforme) e altre 148 radio con licenza. La situazione è quindi problematica. Innanzitutto non c’è un mercato per supportare tutta questa offerta, quindi i media devono contare sui fondi che le autorità locali mettono a disposizione, ovvero partiti politici che possono influenzarli. In secondo luogo, non c’è nessun modo in cui una società così piccola possa mettere a disposizione un numero sufficiente di giornalisti. Questa situazione porta chiaramente a un declino della qualità dell’offerta mediatica. In aggiunta a tutto questo, bisogna considerare che il livello di democrazia in Bosnia è molto basso: sicuramente questo mette i giornalisti professionisti che provano a fare un lavoro serio in difficoltà. E la minaccia non viene soltanto dalle élite politiche, ma anche da persone comuni che sentono di avere il diritto di attaccare o minacciare i giornalisti, che è un problema più serio. Un’altra criticità è che molto spesso solo chi ha accesso a fondi stranieri riesce a mantenere la propria indipendenza rispetto agli attori locali, provando a fare giornalismo in modo professionale. Questi media, però, vengono poi spesso accusati di essere traditori che si sono venduti agli stranieri.
Laureata in Studi Interdisciplinari e Ricerca sull’Europa Orientale, ha vissuto un po’ ovunque nei Balcani occidentali. Si interessa di tutto quello che è successo e succede al di là del muro di Berlino. Lentamente, sta imparando il serbo-croato.