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Lo scorso 1° luglio 2024 ci ha lasciato Ismail Kadare, lo scrittore albanese più amato e al contempo più dibattuto del panorama letterario contemporaneo. Ancorato alla sua terra d’origine, Kadare valica gli stretti confini balcanici e raggiunge lo scenario letterario europeo con romanzi che lasciano il segno della sua amata Albania nel pubblico di lettori, che si nutre dello stesso amore.
Per molti aspetti, Kadare rimane una figura intellettuale e letteraria discussa: relativamente alla sua produzione letteraria concernente il periodo della dittatura, alcuni gli attribuiscono la definizione di “scrittore dissidente”, altri quella di “scrittore ufficiale” del regime comunista albanese. Da parte sua, Kadare si considera uno “scrittore normale”.
Non mi sono mai definito un dissidente. La letteratura mi è bastata. Hosempre formulato le cose nella stessa maniera: ho tentato di produrre unaletteratura normale in un Paese anormale.
Ismail Kadare tra regime e letteratura
Nato il 28 gennaio 1936 ad Argirocastro, la stessa città natale del dittatore comunista Enver Hoxha (1908-1985), termina il liceo nel 1953 e intraprende gli studi presso la Facoltà di Lettere di Tirana. Nel 1958 ottiene una borsa di studio per l’Istituto di letteratura mondiale “Maksim Gorkij” di Mosca. Il periodo moscovita genera in lui una crisi morale e artistica, data la profonda contrarietà ai principi marxisti imposti nella letteratura. La sua ribellione sfocia nel suo primo romanzo Qyteti pa reklama – un vero e proprio contro-modello del Realismo Socialista.
Nell’estate del 1962, durante una sosta a Praga nel corso del viaggio di ritorno dal Festival mondiale della Gioventù democratica tenutosi ad Helsinki, Kadare è a un passo dal portare a termine la fuga. In virtù dello stretto legame con la letteratura e con la sua lingua, invece, desiste da tale proposito e inizia a dedicarsi intensamente alla scrittura: risale a questo periodo la stesura del suo capolavoro, Gjenerali i ushtrisë së vdekur (Il generale dell’armata morta, 1963), la cui pubblicazione in Francia, nel 1971, segna un cambiamento nell’orizzonte della ricezione, non solo della produzione letteraria di Kadare, ma di tutta quella parte della letteratura albanese del tempo dotata di talento.
All’inizio degli anni Settanta, due decisioni del Partito pongono Kadare in una posizione controversa, nonché in una sorta di trappola, tanto rispetto alla politica interna del suo Paese, quanto riguardo alla sua immagine di scrittore all’estero. L’attribuzione della carica di deputato (1970) e la richiesta (forse avanzata dallo stesso Enver Hoxha) di entrare a far parte del Partito (1971) si prestano ad una duplice chiave di lettura.
Nell’intenzione del regime, si trattava di una tattica per esercitare un maggiore controllo sul suo intellettuale maggiormente in vista; dalla prospettiva della critica europea, invece, ciò è stato recepito come un segnale di adesione, o pur sempre di cedimento, dello scrittore alla linea politica del suo Paese. In entrambi i casi, tuttavia, a Kadare non si profilava affatto la possibilità di un rifiuto, senza compromettere fatalmente la sua esistenza.
Svanita l’illusione di poter godere di una maggiore impunità letteraria, da lì a poco Kadare entrerà in una delle fasi più delicate della sua esistenza, caratterizzata da un’intensa attività letteraria, durante la quale, oltre a portare a termine la stesura di vari romanzi, tra cui Kështjella (I tamburi della pioggia, 1970) e Kronikë në gur (La città di pietra, 1971), si accinge alla redazione di Dimri i vetmisë së madhe (L’inverno della grande solitudine, 1973). Risale a questo periodo, il primo ed unico incontro con Enver Hoxha, a casa dello stesso dittatore, dove Kadare viene invitato dalla moglie, Nexhmije, dalla quale dipendeva l’archivio del Partito in cui era custodito il fascicolo segreto della rottura con Krusciov, che lo scrittore intendeva consultare.
L’intenzione letteraria di Kadare era quella di tendere una trappola al dittatore, di renderlo schiavo della sua opera; il suo romanzo sarebbe stato un’esca alla quale il tiranno avrebbe abboccato. Consapevole del fascino che la letteratura esercitava sul despota, Kadare intendeva realizzare un libro particolarmente “bello”, che lo avrebbe ammaliato, tanto che Enver Hoxha avrebbe finito per seguire l’esempio della figura positiva che Kadare avrebbe delineato per rappresentarlo.
Dopo una lunga attesa, durante la quale i dirigenti del partito e il capo in persona vagliano l’opera, essa viene finalmente pubblicata nel gennaio del 1973. La ricezione di questo romanzo, tuttavia, spacca in due il partito: da un lato, la vecchia guardia stalinista, tra cui i membri del Sigurimi, Mehmet Shehu e Hysni Kapo, si oppone alla circolazione del testo, accusato di ordire un complotto ai danni del dittatore; dall’altro, i liberali, rappresentati da figure come Ramiz Alia e Todi Lubonja, sono favorevoli al romanzo e lo considerano geniale. Sorprendentemente, il dittatore condivide il parere dei liberali, mentre la moglie, all’insaputa di tutti, parteggia per i veterani stalinisti.
Il romanzo è oggetto di pesanti denunce da parte di certe fazioni del potere, che ne richiedono il ritiro dalla circolazione. L’autore, dunque, sottopone la sua opera alle revisioni richieste, ma l’esito non è soddisfacente. Minuziose e serrate critiche sono espresse contro la sua opera. Sottoposto ad una nuova ed accurata rielaborazione, il romanzo appare, infine, nel 1978, con il titolo Dimri i madh. Il termine “solitudine” (vetmi in albanese) del titolo originale è stato aspramente rigettato.
Questo episodio segna un momento cruciale nella vita e nell’attività di scrittore di Ismail Kadare. La sorta di protezione sotto la quale finora è vissuto viene improvvisamente a mancare. Ogni suo comportamento e ogni suo scritto sono strettamente sorvegliati. I suoi avversari attendono la prima mossa sbagliata per punirlo.
È proprio in queste circostanze che Kadare cede ad un atto imprudente: consegna per la stampa il poema Pashallarët e kuq (I pascià rossi), nella quale vengono descritti membri del Comitato Centrale del Partito ed alti funzionari, che vanno di notte a violare le sepolture delle persone fucilate dalla rivoluzione.
Kadare gioca quindi la carta dell’autocritica: ammette che i suoi versi sono un’invocazione contro il Partito, ma insiste nell’affermare la non volontarietà di un simile oltraggio, indicandone le cause nella sua superbia come scrittore noto sia in patria che all’estero. In simili circostanze, il regime avrebbe inflitto la pena capitale a qualsiasi altro colpevole; nei confronti di Kadare, invece, la punizione stabilita consistette nell’allontanamento dalla capitale e nella proibizione di continuare a scrivere.
E il mistero avvolgerà questo poema ancora per alcuni anni. Redatto agli inizi del 1974, consegnato per la stampa alla rivista Drita nell’ottobre del 1975, il manoscritto inspiegabilmente sparisce senza essere stato pubblicato. In seguito alla caduta del regime qualche oppositore di Kadare ne mette addirittura in dubbio l’esistenza, pretendendo che lo scrittore si sia inventato tutto per poter prendere le distanze dalla politica del tempo e mostrarsi, in retrospettiva, come un intellettuale dissidente. Sulla vicenda, infine, viene fatta piena luce: Shaban Sinani, direttore generale dell’archivio nazionale albanese al tempo del comunismo, riporta alla luce il manoscritto, nel marzo del 2002.
Consapevole che il suo obiettivo di esercitare, attraverso la letteratura, un’influenza positiva sul dittatore per il bene del suo Paese, è fallito, e profondamente segnato dalla morte del padre, Kadare si convince a moderare l’atteggiamento di sfida nei confronti del regime. Ritorna al filone autobiografico e si cala nel passato remoto del suo Paese, trovandovi un’alternativa all’Albania di oggi. Nascono così Ura me tri harqe (Il ponte a tre archi), Prilli i thyer (Aprile spezzato), Kush e solli Doruntinën (Chi ha riportato Doruntina?) e Nëpunësi i pallatit të ëndrrave, quest’ultimo aspramente criticato per allusioni contro il regime, è stato interdetto, per poi essere pubblicato dopo la caduta del comunismo, con il titolo Pallati i ëndrrave (Il palazzo dei sogni).
Nel frattempo cede ancora una volta alla tentazione di trattare problematiche legate al regime e incentra il nuovo romanzo, Koncert në fund të dimrit (Concerto alla fine dell’inverno), sul tema dell’alleanza di Hoxha con la Cina e del graduale declino. All’improvviso, però, la situazione precipita: in seguito alla morte (ufficializzata come suicidio, ma tutt’oggi avvolta nel mistero) del numero due del regime, Mehmet Shehu, Koncert viene interdetto, per via di un’analogia ravvisata tra la vicenda Shehu e la trama del romanzo.
Solo nel 1988, tre anni dopo la morte di Enver Hoxha, il romanzo vedrà la luce della pubblicazione. Ciò che affascina in tutta questa vicenda è la relativa impunità di Ismail Kadare, il fatto di risultare i paburgosshëm (lett. “non imprigionabile”), per via dell’atteggiamento di protezione di Enver Hoxha nei suoi confronti, dovuto, presumibilmente, non solo alla fama di cui lo scrittore godeva in Francia, paese amato dal dittatore, ma anche in virtù del ritratto “positivo” di Hoxha in Dimri i madh, a cui il tiranno non voleva rinunciare – condannare Kadare avrebbe significato rinnegare tutta la sua produzione letteraria, e con essa anche il benemerito ritratto.
All’inizio del 1985, spinto da una forza diabolica, per verificare se il pericolo sia passato, Kadare pubblica la novella Nata me henë (Notte illuminata dalla luna). La reazione del regime rivela una svolta ai vertici del sistema: di fronte all’impellenza con cui la novella viene condannata, Kadare intuisce che le redini del potere sono ormai nelle mai della moglie del tiranno, Nexhmije, alla quale lo scrittore imputa una ristrettezza mentale ed un rancore vendicativo, che la rendevano più temibile del consorte, le cui sorti erano ormai fatte. Si sarebbe spento, infatti, proprio mentre aveva luogo la riunione per la condanna della novella di Kadare, l’11 aprile 1985.
Sebbene l’oppressione comunista in Albania fosse ancora lungi dall’essere conclusa, soprattutto nella percezione della gente, profondamente segnata da un quarantennio di terrore, alla fine degli anni ’80 iniziano ad emergere i primi segnali di un cambiamento politico.
Lo scrittore non crede certo in un repentino passaggio dalla dittatura ad una democrazia eletta dal popolo. Tuttavia, la direzione intrapresa dalla politica albanese in questa fase di transizione lo disillude profondamente: il potere, di fatto, continua a rimanere in mano alle stesse figure e alle stesse fazioni che hanno governato durante il regime, e che ora cambiano solo colore politico.
È il 25 ottobre 1990, quando, alle soglie della caduta del regime, annuncia la sua richiesta di asilo politico alla Francia. La sua intenzione è quella di non tornare in Albania fino al momento in cui una vera democrazia non sarà instaurata, garantendo certi principi quali la libertà di culto, il pluralismo e le elezioni libere.
La sua produzione letteraria continua in Francia, spostandosi su un filone differente, quello della testimonianza circa la sua attività di scrittore e di figura di spicco della società e della cultura albanese, soprattutto in relazione alle dinamiche del potere e della censura comunista. Ftesë në studio (Invito allo studio), Nga një dhjetori në tjetrin (Da un dicembre all’altro) e Pesha e kryqit (Il peso della croce) sono, dunque, il frutto delle riflessioni retrospettive dell’autore sul suo passato.
Nel 1993, inoltre, porta a termine il romanzo Piramida, avviato nel 1988, e nello stesso anno prende avvio la revisione artistica delle sue opere, finalizzata alla pubblicazione in due lingue (albanese e francese) della sua intera produzione letteraria. Negli ultimi due decenni interviene spesso nel dibattito sulle questioni identitarie del popolo albanese, sia nel contesto balcanico, soprattutto in riferimento al conflitto tra serbi e albanesi in Kosovo, sia riguardo la posizione dell’Albania rispetto all’Europa Occidentale. Il suo punto di vista è espresso in una serie di pubblicazioni a carattere letterario, principalmente sotto forma di saggi.
I premi e le traduzioni
Ismail Kadare è stato insignito di numerosi premi ed onorificenze a livello internazionale.
Nel 1992 ha ottenuto il premio mondiale Cino del Duca. A partire dal 1996 è membro associato a vita dell’Accademia delle Scienze Morali e Politiche di Parigi, nella quale ha preso il posto del filosofo Karl Popper. Nel 2005 gli è stato assegnato il primo International Man Booker Prize e nel 2009 il Premio Principe delle Asturie della Letteratura.
Nello stesso anno gli è stata conferita la Laurea Honoris Causa in Scienze della Comunicazione Sociale e Istituzionale dall’Università di Palermo. Nel 2015 gli è stato assegnato il Jerusalem Prize e nel 2019 è stato insignito del Neustadt International Prize for Literature 2020 e del “Premio Park Kyung-ni”. Il suo nome è stato più volte segnalato per il Premio Nobel per la Letteratura.
Sono diverse le opere di Kadare tradotte e pubblicate in italiano, grazie all’impegno dei traduttori e delle case editrici che se ne sono prese carico.
Per i tipi di Longanesi nella traduzione di Francesco Bruno sono apparsi nel 1989 Chi ha riportato Doruntina, (Kush e solli Doruntinën), La Piramide nel 1997, Tre canti funebri per il Kosovo, (Tri këngë zie për Kosovën) nel 1999, Freddi fiori di Aprile nel 2005, Vite avventure e morte di un attore nel 2006, L’Aquila nel 2007, La figlia di Agamennone, (Vajza e Agamemnonit), 2007, Il successore e I tamburi della pioggia, (Kështjella) nel 2008, Il generale dell’armata morta, (Gjenerali i ushtrisë së vdekur) nel 2009. Il crepuscolo degli dei della steppa è pubblicato da Fandango nel 2010. L’anno successivo sia Fandango che Longanesi pubblicano rispettivamente Il mostro e L’incidente, per poi passare a La nicchia della vergogna e L’occhio del tiranno, (Qorrfermani) quest’ultimo tradotto da Beniamin Guraziu, editi entrambi da Fandango nel 2011 e nel 2012.
Ancora nel 2012 è nuovamente Longanesi a pubblicare Un invito a cena di troppo e nel 2013 è Besa Muci a dare alla luce Eschilo il gran perdente nella trasposizione di Adriana Prizreni. Lo stesso editore, nel 2020, pubblica La commissione delle feste, tradotto da Fernando Cezzi. Nel 2017 subentra La Nave di Teseo, da cui sono stati tradotti ad opera di Liljana Cuka Maksuti e pubblicati: La bambola, nel 2017, La provocazione nel 2018, Aprile spezzato (Prilli i thyer) nel 2019, La città di pietra e Le mattine al Café Rostand, (Mëngjeset në Kafe Rostand), entrambi nel 2021. Nel 2022 Il Dossier O, nella traduzione di Francesco Bruno, Il palazzo dei sogni (Pallati i ëndrrave), dato allo stampe nel 2023.
L’eredità di Ismail Kadare
Kadare è considerato una delle voci più originali della narrativa europea e le sue opere delle pietre miliari della letteratura. Si tratta di una personalità conosciuta a livello mondiale, non solo in campo letterario, ma anche in quello politico e sociale, in qualità di difensore dei diritti umani. Il suo narrare guarda sempre le vicende socio-politiche albanesi: nei personaggi, nella trama, nei dialoghi che animano i suoi libri, si ritrova il grande desiderio di libertà che incarna quello dell’intero popolo d’Albania dell’epoca.
La sua penna racconta la storia del Paese delle Aquile, sia del passato, che del presente. Narra le sofferenze del popolo albanese, ma anche la sua forza e la sua urgenza di riscatto. Per una questione puramente biologica, vive diverse epoche: quella pre comunista, quella comunista che ha visto l’Albania nella morsa della dittatura per ben 45 anni e quella post comunista.
Nei tempi più feroci, in cui il regime conosce l’apice del suo potere, (anni Sessanta e Settanta), insieme a Fatos Arapi e Dritëro Agolli costituisce il trio degli autori più importanti d’Albania.
È stato membro fondatore della Lega degli scrittori e degli artisti albanesi e questo fa di lui un intellettuale parte del sistema, un membro privilegiato del regime, pur vivendo, come scrittore, sul filo del rasoio e sotto il controllo costante del Sigurimi. Kadare sviluppa però un sistema narrativo autentico, che implica un vasto utilizzo di metafore, utili per mascherare i suoi attacchi al regime, motivo per cui subisce drastiche censure, come succede per Il palazzo dei sogni.
Si tratta di un libro che oggi definiremmo distopico e che ripercorre, tramite le vicende del suo protagonista, quanto accade nel sistema albanese di quel periodo. Il volume viene redatto agli inizi degli anni Ottanta: di primo acchito appare come la ricostruzione dell’Inferno dantesco. Kadare propone una realtà molto simile a quello del primo libro della Divina Commedia: oscura, drammatica, misteriosa, premonitrice, sentenziosa, ambientata nell’epoca ottomana, ma che sembra ricondurre a quel presente, quello che lo stesso autore vive.
A tal proposito è necessario fare un’importante premessa: Kadare scrive durante il regime albanese, come altri scrittori balcanici sotto i poteri totalitari dei luoghi dove hanno vissuto. Le condizioni in cui egli si muove, però, non sono minimamente paragonabili a quelle degli altri, poiché la dittatura albanese è considerata la più sanguinaria dei Balcani. Questo fa di lui una figura controversa: ancora oggi l’opinione pubblica e intellettuale si divide tra chi asserisce l’asservimento di Kadare al potere e chi invece lo salva, dichiarandolo contro di esso.
In realtà, Kadare non ha mai paura del regime. Vive e scrive in quel periodo, ha contatti diretti con Enver Hoxha, sentendosi accusare, almeno inizialmente, di scrivere testi non particolarmente conformi alle regole: l’Albania, nei libri, deve apparire bella, ridente, unica. In qualche modo, quindi, l’autore si adegua alle richieste della dittatura, si fa vedere asservito per continuare a parlare al popolo tramite i suoi scritti, per creare storie che diventino la sua zona di confort, dalla quale poter andare contro il sistema, del quale fa parte.
Kadare attaccato per non aver rinnegato totalmente il regime, colpevolizzato per aver lasciato l’Albania nel 1990, per essersi trasferito in Francia. Accusato di non essere rimasto a fianco del suo Paese in un momento di incredibile e drammatica trasformazione. Ismail Kadare adorato e odiato, esaltato e affossato, idolatrato e incolpato. Cosa resterà di lui?
Una scrittura che lascia un’impronta indelebile nella storia della letteratura, nella quale si ritrova sempre l’uomo, il suo animo e tutte le contraddizioni che lo caratterizzano. La realtà descritta da Kadare è quella nella quale riconoscersi, una dimensione umana guardata sottecchi, poiché non possiamo chiedere agli scrittori di essere eroi. Essi sono quello che sono e ciò che ci lasciano.
* Anna Lattanzi è critica letteraria, coordinatrice di Scuola Passaggi, è appassionata di lettere e letture con un occhio molto attento ai Balcani e ancora più nello specifico alla letteratura proveniente dall’Albania, di cui scrive per Albania Letteraria.
Giovanna Nanci è traduttrice dall’albanese all’italiano e insegnante di lingua albanese e lingua italiana per stranieri. Calabrese di nascita, ha condotto gli studi presso l’Università della Calabria, dove ha conseguito il titolo di dottoressa di ricerca in studi linguistici, filologici e traduttologici. Prende parte a progetti dedicati all’indagine linguistica delle comunità italo-albanesi del Sud Italia. Ha all’attivo diverse traduzioni letterarie e nel maggio 2024 è vincitrice del premio di traduzione FjalaFest.