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Sono passati quattro mesi dalla sera in cui Anže mi ha raccontato la sua storia di soldato dell’esercito jugoslavo e disertore di quello sloveno. Il lavoro ci fa ritrovare nel terminal degli arrivi dell’aeroporto di Belgrado, lui da Lubiana, io e Guido (il collega che ha la responsabilità della gestione operativa del progetto per il quale tutti e tre stiamo lavorando), da Milano.
Non è la prima volta che vengo in questa città per la quale ho sempre nutrito sentimenti contrastanti e sono tentato di raccontare queste sensazioni a Guido: abbiamo condiviso molto in questi mesi e ho imparato a conoscerlo come una persona profonda e riservata, seria ma dal senso dell’umorismo raffinato, sulla quale si può contare sempre e comunque e con la quale mi pare di condividere diversi pezzi della visione del mondo; abbiamo trascorso gli ultimi mesi facendo la spola tra Milano e Lubiana per un numero spropositato di ore, per smantellare su incarico del cliente la vecchia struttura e cercando di impiantarne una nuova che rispettasse gli obblighi contrattuali e i vincoli economici e siamo così, forse, diventati amici.
Ciò nonostante, non dico nulla: certe esperienze e sensazioni a volte sembrano avere senso solo per se stessi e quando le si racconta si svuotano e afflosciano come palloncini al termine di una festa; così, aspettando il volo di Anže riempiamo il tempo con quattro chiacchiere di nessun rilievo, entrambi con la mente al giorno dopo. Domani infatti siamo attesi a Lubiana per conferire con il gruppo di lavoro del cliente, presentare i risultati di questo sfinente scrutinio e iniziare l’avventura vera, come se questi mesi non fossero stati altro che un prequel; ma intanto ci manca l’ultima tappa, con il ritorno a Belgrado: questa volta per conoscere Jovan, il nostro referente operativo superstite in Serbia, spiegargli il progetto e presentargli Anže, il suo nuovo capo, il tutto sperando di non avere problemi nel trovare un accordo per lavorare insieme.
Beirut, Balcani occidentali
L’uomo al quale devo rendere conto è quello che autorizza il pagamento di mezzo milione abbondante di euro ogni anno per pagare il nostro lavoro. Senza che se ne trovi traccia, è da lui che arriva l’input principale, la vera linea guida del nostro incarico: mettere a posto la struttura. Questo è il termine impersonale che usiamo per riferirci a un gruppo di esseri umani dei quali dobbiamo decidere il futuro professionale: rinnovare o meno i contratti dei fornitori esterni, confermare o cambiare i ruoli di quelli che erano i dipendenti del nostro cliente e che ora sono passati sul nostro libro paga. È per fare questo prima di ogni altra cosa che sono saltato da Lubiana a Domžale, da Novo Mesto a Zagabria e Belgrado come una pallina dei flipper della mia adolescenza, che sono passato – talvolta con Guido, molto più spesso da solo – in mezzo a tormente di neve in Croazia, alberghi desolati in Serbia, strette di mano diffidenti, conteggi infiniti, quadrature acrobatiche, mi dispiace ma credo che non abbiate i requisiti per continuare la collaborazione, benvenuta nel team: e poi renderne conto all’uomo che firma i bonifici.
Non ho mai incontrato prima, e so che non mi succederà più dopo, un negoziatore così duro. La prima volta che ci siamo trovati in riunione insieme, tre di noi da una parte e tre di loro dall’altra come in un western di serie B, è arrivata una telefonata in violazione del do-not-disturb che aveva imposto all’intero ufficio. Io, che stavo parlando, mi sono interrotto per consentirgli di rispondere ma lui, nell’arco di meno di due secondi e senza mai distogliere il suo sguardo di pietra dal mio, non ha fatto altro che allungare la mano, sollevare il telefono, staccare – no: strappare spiega meglio – il cavo e dirmi “you can go on, now”. Poi abbiamo discusso a lungo: clausole e cifre e penali e allegati e uffici e rappresentanti legali, ognuno facendo il proprio mestiere ma lui con un di più di durezza educata e intimorente che io non possiedo, certamente non a quel livello.
Al termine, una volta trovato l’accordo definitivo, più per stemperare la mia tensione che per altro, gli ho detto “Sai M., sei andato a tanto così dal farci rinunciare al lavoro, eppure noi siamo importanti per voi e tu lo sai bene”. Lui, questa volta sorridendo ma con gli stessi occhi insensibili, mi ha risposto “Sai dove sono nato e cresciuto? A Beirut. Mi hanno incarcerato non so quante volte perché andavo in piazza a protestare insieme agli altri studenti. Di cosa vuoi che abbia paura?”. Forse la grande casa automobilistica della quale era un giovane e promettente dirigente lo aveva mandato a farsi le ossa nei Balcani per caso, una casella della job rotation come un’altra. O forse no, chissà.
Una volta che Anže è arrivato ci spostiamo verso l’ingresso dell’aeroporto, dove Jovan ci attende. Ci presentiamo, ognuno nella sua versione della lingua franca che ci permette di capirci e lavorare insieme. Jovan è un bel signore di mezz’età, con i capelli sale e pepe tagliati senza grazia così come i suoi abiti; non dà l’impressione di essere un uomo particolarmente affabile e gioviale e in effetti, dopo averci fatti accomodare nella sua autovettura, affaticata ma tenuta con cura, si esprime in modo cortese ma quasi solo a monosillabi lungo tutto il percorso che ci porta fino ad Ada Ciganlija, la penisola artificiale messa tra le due rive della Sava.
Jovan ci guida verso il ristorante dove saremo suoi ospiti, un bizzarro locale dove veniamo fatti sedere a un tavolo di legno squadrato e massiccio sotto un sole impietoso mentre un pavone gira indifferente sollevando con le zampe piccoli sbuffi di polvere. Mi guardo intorno, osservando un pezzo di Belgrado inaspettato. Sembra uno scorcio rurale, immerso in una ricercata e un po’ artefatta tranquillità da mezzogiorno feriale, molto lontana dalla sacralità che si accompagna alla spettacolare imponenza della fortezza che domina la confluenza dei due grandi fiumi come dall’ipnotico grigiore esistenziale dei condomini di Novi Beograd.
Ci sediamo al tavolo: Guido di fronte a me, Jovan di fronte a Anže. Il cameriere, stretto e sudato in un gilet nero di tessuto invernale, prende le ordinazioni. Guido mi fa un cenno quasi impercettibile ma che capisco bene, come succede a chi, pur senza averlo scelto, si ritrova parte di una coppia di fatto con le sue abitudini e i suoi segnali: tocca a te, mi sta dicendo. Allora ringrazio Jovan per l’ospitalità, presento Guido e poi introduco Anže, dico che sarà il nuovo responsabile operativo di primo livello, quello con il quale Jovan avrà il contatto più frequente, probabilmente quotidiano, spiego che Anže è sloveno e che sarà il riferimento diretto con il quartier generale di Lubiana.
Mentre sto finendo di parlare, vedo Jovan fissare Anže e irrigidirsi in un’espressione che sembra di ira trattenuta a stento. Cerco di capire cosa sta succedendo mentre provo la sensazione fisica che un gigantesco blocco di ghiaccio sia appena caduto sul tavolo di legno del ristorante di Ada Ciganlija, congelandoci senza preavviso. Cerco di tenere a bada l’agitazione, quella che mi fa scambiare con Guido sguardi prima stupefatti e subito dopo preoccupati: non ci possiamo permettere di perdere Jovan perché altrimenti ci verrebbe a mancare l’unica risorsa operativa che ci è rimasta in Serbia, una persona che sa tutto del lavoro che si fa in questa filiale; e nemmeno possiamo mettere in discussione Anže, la cui nomina e relativa assunzione mi è costata lacrime e sangue con l’uomo di Beirut.
Faccio velocemente mente locale, e mentre avverto il frenetico sferragliare delle mie rotelle cerebrali mi rendo conto che ho organizzato questa riunione senza alcun dettaglio su Anže a Jovan, che con me è sempre stato cordiale nei pochi scambi di messaggi e telefonate che abbiamo avuto; mi chiedo se per qualche motivo personale o di appartenenza nazionale Jovan non abbia il dente avvelenato con Anže in quanto sloveno, se non siamo finiti dentro a un cascame della guerra che mai, a decenni di distanza dalla sua fine, ci saremmo immaginati di dover tenere in considerazione. Inizia un eterno, sfinente, per noi incomprensibile minuto di silenzio.
Non è un modo di dire: non lo cronometro, ma è un tempo infinito che diventa solido e dura fino a quando Jovan e Anže non si mettono a parlare tra di loro, immagino usando la lingua comune con la quale sono cresciuti entrambi. Io e Guido rimaniamo impietriti, spettatori non paganti di qualcosa che non riusciamo a capire, incuriositi, preoccupati e imbarazzati al tempo stesso e per molti motivi diversi. Il tono è gelido, secco: non astioso, ma colmo di una lontananza abissale; porto lo sguardo su Anže, che conosco da tanti anni, e fatico a riconoscere l’uomo solitamente allegro ai limiti dell’inopportunità nel tronco rigido che siede alla mia sinistra. I due alternano qualche frase, senza darsi sulla voce e anzi concedendosi spazio e tempo, e prendendosene prima di rispondere. Poi attraversiamo un altro momento di silenzio e tovaglioli arrotolati e vino bevuto senza sete né gusto, che si interrompe un secondo prima che io mi decida a chiedere cosa diavolo vi state dicendo, se non vi dispiace mettercene a parte. Ci pensa Jovan a tagliare il nodo nel suo inglese pietroso. Lo fa ignorando me e Guido, lo fa guardando Anže, lo fa dopo aver tirato un lungo respiro, dicendo, secco e stanco al tempo stesso:
In fondo, sono stati i nostri governi a metterci gli uni contro gli altri.
Non posso sapere perché dice quelle parole: se per convinzione, cortesia o bisogno; venire da una cultura almeno parzialmente diversa limita la possibilità di cogliere i segnali tenui, di vedere sotto i primi strati della rappresentazione della persona. Io e Guido siamo stati testimoni di qualcosa che non possiamo nemmeno dire di aver intuito, tanto meno capito: siamo cascati dentro qualcosa di più grande di noi del quale sappiamo poco o nulla, come quando assisti alla lite di una famiglia che non è la tua dove ogni parola ha dentro una storia e dieci ricordi e fa parte di un’arborescenza di gioie, rancori, affetti, invidie che non ti appartengono anche se ne vorresti essere messo a parte, magari solo per semplice curiosità.
Pur senza guardarlo, posso avvertire il mezzo sorriso che si allarga cauto sul volto di Anže, che risponde “è vero, hai ragione” e un secondo dopo è di nuovo lui, che forza la mano, che dice brindiamo al nostro nuovo progetto, e io e Guido ci fissiamo e fingiamo allegria e nascondiamo il sollievo che proviamo, e insieme a Jovan alziamo i bicchieri e firmiamo con il vino il cessate il fuoco, la tregua.
Storia di Jovan, che ci provò
Al pranzo di Ada Ciganlija è seguito il lavoro. Query, report, brief. Telefonate, email, ordini, fatture. Non ho mai avuto un’altra possibilità di sedermi a un tavolo insieme a Jovan, bere un caffè e saperne di più di lui, che pure non ho mai dimenticato pur avendolo incontrato di persona una sola volta. Ho deciso di scrivergli, vincendo più la sua ritrosia che il mio imbarazzo, per chiedergli se volesse raccontarmi qualcosa della sua vita e dopo diversi tentativi ha acconsentito. Questo è ciò che dice di se stesso, senza filtri: so che davanti a quel caffè le cose sarebbero state diverse, eppure mi pare di sentire la sua voce, e i suoi silenzi, e la sua diffidenza.
Ho una sessantina d’anni. Sono nato in Serbia, sono cresciuto in una bella famiglia, normale; posso dire di aver avuto una bella infanzia, e una giovinezza altrettanto piacevole. Vivo a Belgrado da tanto tempo, ma in passato ho vissuto in diverse città della ex Jugoslavia.
Mi considero una persona ben istruita: ho due lauree triennali da due diverse università, un master da una terza, e un po’ di istruzione aggiuntiva anche senza titolo di studio. Tutto questo non mi ha aiutato nella vita reale: anzi, per quello che è stato il passato in questa regione si è addirittura rivelato uno svantaggio. Ho cresciuto due figli; sono entrambi laureati in ottime università, il più grande vive e lavora all’estero da anni, e il più giovane ci andrà presto.
Non sono stato coinvolto in situazioni di guerra (se con questo intendiamo combattimenti), tranne il periodo dei bombardamenti del 1999, che ho trascorso nel mio appartamento con la mia famiglia. A quel tempo avevo una conoscenza solida della politica, delle guerre, degli eserciti: stavo finendo gli studi e prima dell’inizio delle guerre, nel periodo di pace della ex Jugoslavia, ero stato nell’esercito. Capii molto bene cosa stava succedendo, ma mi sentivo molto solo perché conoscevo solo poche persone che la pensavano come me. In quel periodo, ma anche prima, mi sono occupato di tante cose diverse: ho scritto saggi, drammi, romanzi, ho dipinto, ho scritto musica, ho realizzato giochi e animazioni al computer; ma dovevo anche fare dei lavori retribuiti per guadagnarmi da vivere e provvedere alla mia famiglia in quei tempi durissimi perché era quasi impossibile guadagnare abbastanza scrivendo o dipingendo – forse era possibile avendo a che fare con la musica turbo-folk che andava di moda allora, ma non mi piaceva.
Quindi, non riesco a pensare a me stesso come a “un comune cittadino colpito dalle diverse guerre che si sono succedute in sequenza”. Ma lascio a te la conclusione.
Quel che è avvenuto in quel periodo produce ancora un effetto enorme sulla mia vita, e non parlo solo della guerra. La cupezza degli ultimi trentacinque anni è ancora viva, in molti modi diversi: come azioni concrete, come loro falsa presentazione, come conoscenza distorta e interpretazione ingannevole, come motivazione subconscia e molto altro ancora. Basta guardare altre parti del mondo che hanno vissuto una situazione simile e ti sarà chiaro cosa voglio dire: ad esempio, parla con persone comuni di Strasburgo e Kehl in Francia e Germania e potrai vedere le “crepe nella realtà” di cui sto parlando. Sono cose che durano per generazioni e secoli e che in determinate situazioni possono bruciare come falò, soprattutto se qualcuno che ha autorità e potere decide di accendere il fuoco. Certo, saggi e intellettuali hanno scritto libri su libri ma chiaramente questi non sono serviti molto nella vita di tutti i giorni. E poi, dai un’occhiata al mondo di oggi… è necessario aggiungere qualcosa?
Comunque: sì, la guerra ha avuto una grande influenza sulle mie amicizie, sulla mia vita personale, e anche sulle mie decisioni sull’educazione e sul futuro dei miei figli. Persone che conoscevo, alcuni di loro amici intimi, sono state ferite, alcune anche in modo grave, altre sono morte, altre hanno perso la famiglia e altre, ho sentito dire, hanno perso la testa. Sono impazziti. Il mondo come lo conoscevamo è svanito.
Ho ancora amici che vivono in altri stati, le ex repubbliche della ex Jugoslavia. Per vedersi bisogna passare i valichi di frontiera. Adesso si può fare, passare i confini. Ma c’è stato un periodo, molto lungo, in cui è stato molto difficile o addirittura impossibile. Non c’erano smartphone, non c’era Internet, la posta andava persa. Comunicare con gli amici era difficile, e ne abbiamo pagato il prezzo.
Il mondo intorno sembrava fiorire mentre questa parte dell’universo, questa regione, appassiva. Siamo invecchiati. Il passato si è pietrificato. Ora, non è importante solo che il tempo sia passato, ma come è passato – per me, questo è il nocciolo della questione. Ho cercato di dare dei buoni consigli e ho provato a influenzare i miei figli come meglio potevo, sperando che il tempo passasse molto meglio per loro che per me, anche se in un’altra parte dell’universo. Forse sarebbe più chiaro se dicessi: in un altro paese – perché per me, se confronto altri paesi del mondo con questo, con il mio, quello dove vivo, ho la sensazione che questi appartengano a un universo completamente diverso. Penso che questo sia tutto. C’è stato un tempo in cui ho pensato molto a questi argomenti ma ho scoperto che era tutto inutile. Facevo parte di quelli che chiedevano una soluzione pacifica e umana ma siamo stati sconfitti, completamente e molto probabilmente per sempre: non solo perché “abbiamo perso”, ma perché mi sembra che nel frattempo il mondo intero abbia cambiato rotta dirigendosi verso qualcosa che non mi piace.
Insomma, quel giorno, nel ristorante di Ada Ciganlija, nel caldo torrido e con i pavoni che giravano tra i piedi, non ho capito nulla. Non sapevo niente dell’uomo che mi sedeva a fianco, quello che per tutto il tempo durante il quale abbiamo lavorato insieme, seppure a distanza, ho considerato come un soggetto burbero, pignolo, strambo. Non ero l’unico a farlo, ma questo non mi consola. C’era un mondo intero dietro quell’aria severa, quei capelli sale e pepe tagliati senza grazia così come i suoi abiti, quei modi bruschi: le sconfitte, le disillusioni, i dolori passati erano diventati la corazza, la difesa dalle sconfitte, le disillusioni, i dolori futuri. Non mi incolpo per non averlo saputo se non dopo aver deciso, per motivi puramente personali al punto da diventare egoistici, di provare a scalfire la superficie del suo carapace; lo faccio per aver giudicato, senza averne titolo, un uomo ricco di qualcosa di cui molti suoi simili sono poveri, una virtù preziosa, sfuggente quanto solida, chiamata dignità.
Si guadagna da vivere come marketing manager di un’agenzia di comunicazione. Conosce e frequenta i Balcani per motivi professionali e personali da una quindicina d’anni e ha scritto due libri: Zona di alienazione su Čornobyl’ e Il Tunnel sul suo viaggio in Bosnia.