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Mentre scriviamo sembra reggere la fragile tregua tra Israele e Hamas dopo quasi due mesi di bombardamenti e massacri dell’esercito israeliano contro la Striscia di Gaza e i suoi abitanti. Sarebbe un errore considerare l’operazione israeliana semplicemente come una risposta agli attacchi dei miliziani di Hamas del 7 ottobre. La “questione palestinese”, infatti, non nasce due mesi fa e l’offensiva israeliana lanciata all’indomani di quelle stragi è solo l’ultima di una lunga serie.
In passato, tra i paesi che hanno difeso la causa palestinese, la Jugoslavia ha avuto un posto speciale. Nonostante sia stato tra i primi a riconoscere lo Stato di Israele, presto il paese guidato da Josip Broz Tito si schierò con il mondo arabo e successivamente con l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp), giocando un ruolo fondamentale anche grazie alla guida del Movimento dei Non Allineati.
I lavori dell’Unscop
Con la Dichiarazione Balfour del 1917, l’idea del movimento sionista di creare “un focolare nazionale per il popolo ebraico” in Palestina ottenne il sostegno dell’Impero britannico, successore di quello Ottomano nel controllo della regione. Dopo le persecuzioni subite in Europa, la creazione di uno Stato ebraico cominciò a diventare sempre più concreta. Il trasferimento di centinaia di migliaia di ebrei in Palestina alimentò il conflitto con la popolazione araba, tanto da spingere la Gran Bretagna a rimettere il mandato alle Nazioni Unite che, nel maggio 1947, crearono un Comitato Speciale sulla Palestina (Unscop) formato da 11 paesi, tra cui la Jugoslavia, con l’esclusione delle grandi potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale.
All’interno del Comitato, con il sostengo di India e Iran, Belgrado si fece portatrice di una soluzione “jugoslava” con la proposta di dare vita a uno Stato federale di Palestina che comprendesse uno Stato arabo e uno ebraico, con un’unica nazionalità (palestinese) concessa a tutti i gruppi etnici e con Gerusalemme capitale divisa in due comuni. La proposta non ottenne però la maggioranza dei voti dei membri dell’Onu che invece sostennero, con l’astensione jugoslava e il voto favorevole dell’Unione Sovietica, la formazione di due Stati indipendenti con Gerusalemme sotto amministrazione internazionale.
Il riconoscimento di Israele
Quando David Ben Gurion, il 14 maggio 1948, dichiarò la nascita dello Stato di Israele passarono solo pochi giorni perché la Jugoslavia ne riconoscesse l’esistenza. Le autorità jugoslave, attratte dal sistema di ispirazione socialista dei kibbutz, permisero agli ebrei presenti nel paese di trasferirsi in Israele rinunciando però a tutte le proprietà che furono cedute allo stato. Si stima che tra il 1948 e il 1952 furono più di 8.600 gli ebrei che lasciarono il paese balcanico. Il coinvolgimento jugoslavo andò però ben oltre, sostenendo militarmente l’esercito israeliano nella guerra del 1948 permettendo il transito di armi provenienti dalla Cecoslovacchia e dirette in Israele attraverso il porto croato di Šibenik (Sebenico) e l’aeroporto montenegrino di Nikšić.
L’avvicinamento ai paesi arabi
Poco più di un mese dopo la nascita di Israele si consumò un evento politico che segnò lo sviluppo del socialismo jugoslavo nei decenni successivi e che provocò una spaccatura all’interno del blocco comunista. Il 28 giugno 1948 il Cominform decise di espellere la Jugoslavia, sancendo la definitiva rottura tra Tito e Stalin. L’episodio ebbe importanti ricadute sulla politica estera jugoslava con qualche apertura verso il blocco occidentale ma soprattutto con la creazione di un’alternativa ai due blocchi dominanti.
Tito trovò un ottimo alleato nel primo ministro socialista egiziano Gamal Abd el-Nasser, salito al potere nel 1954. Tra i due, protagonisti indiscussi della Conferenza di Bandung (1955) e della successiva nascita del Movimento dei Non Allineati (1961), si instaurò una stretta amicizia personale e una proficua collaborazione politica. L’alleanza tra i due paesi si rafforzò notevolmente durante la crisi di Suez del 1956. La nazionalizzazione della compagnia che gestiva il canale voluta da Nasser aveva infatti provocato la reazione militare di Israele, sostenuto da Francia e Gran Bretagna. Dopo aver provato una mediazione tra le parti, la Jugoslavia, che nel frattempo si era riavvicinata a Mosca pur mantenendo la propria autonomia politica, si schierò apertamente con l’Egitto condannando l’attacco israeliano e presentando, e facendo adottare, all’Assemblea Generale dell’Onu una proposta di cessate il fuoco e il dispiegamento di una forza di pace internazionale, cui partecipò con circa 300 uomini.
Né con Israele né con l’Olp
A partire dagli anni Sessanta, il peso della Jugoslavia nello scacchiere internazionale aumentò notevolmente. Lo stesso Ben Gurion nel 1962 tentò di organizzare un incontro con Tito per convincerlo a parlare con l’egiziano Nasser per il raggiungimento di un accordo di pace tra Israele ed Egitto. Tito rispose alla richieste solo diversi mesi dopo apprezzando le intenzioni di Ben Gurion ma rifiutando la proposta perché non sufficientemente in grado di influenzare le decisioni egiziane.
Dall’altro lato, pur considerando sempre più Israele uno strumento dell’imperialismo occidentale in Medio Oriente, per la Jugoslavia la questione palestinese si limitava al tema del rientro dei profughi del 1948, senza considerare il diritto ad uno Stato palestinese né tantomeno la messa in discussione dell’esistenza dello Stato ebraico. Anche per questo i rapporti con l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, nata nel 1964, si mantennero a un livello non ufficiale fino alla guerra dei sei giorni del 1967. Lo statuto originario dell’Olp considerava infatti la lotta armata come unica forma di resistenza, mentre Belgrado spingeva ancora per una risoluzione pacifica e politica del conflitto con il coinvolgimento delle Nazioni Unite. Più volte le autorità jugoslave rifiutarono la richiesta di aprire un ufficio di rappresentanza dell’Olp a Belgrado.
La rottura delle relazioni diplomatiche tra Jugoslavia e Israele
Il definitivo cambio di schieramento avvenne durante la guerra dei sei giorni, combattuta tra il 5 e il 10 giugno 1967 tra Israele, Egitto, Siria e Giordania che portò all’occupazione israeliana della Palestina (comprese la Cisgiordania e Gaza), della penisola del Sinai e delle alture del Golan.
Poche ore dopo l’inizio delle ostilità, il governo jugoslavo condannò senza mezzi termini l’aggressione israeliana chiedendo l’immediato cessate il fuoco. Nel frattempo non mancarono le azioni di solidarietà in favore dei paesi arabi con l’invio di cibo e medicinali per milioni di dollari, raccolti anche grazie alla partecipazione dei lavoratori jugoslavi che donarono l’equivalente di una giornata di stipendio.
Ancora più significativo quello che successe nei giorni immediatamente successivi. Il 7 giugno, Tito ricevette una telefonata dal sovietico Leonid Brežnev che lo invitava ad un incontro dei leader dei partiti comunisti per decidere come reagire alla crisi in Medio Oriente. Tito, scavalcando i suoi collaboratori, accettò l’invito e due giorni dopo partì per Mosca. Si trattava della prima partecipazione jugoslava a un summit del genere dalla rottura con Stalin del 1948. La linea stabilita durante l’incontro, cui solo la Romania non aderì, prevedeva la rottura delle relazioni diplomatiche, ma non economiche e culturali, con Israele. La sera dell’11 giugno 1967 il vicesegretario di Stato agli affari esteri Mišo Pavićević fece recapitare al governo israeliano una nota di protesta in cui specificava che se Israele non avesse ritirato immediatamente l’esercito dai territori occupati, le relazioni diplomatiche tra i due paesi sarebbero state interrotte. Cosa che avvenne due giorni dopo.
La proposta di pace jugoslava
Visto il sempre maggiore coinvolgimento jugoslavo nella vicenda, il presidente statunitense Lyndon Johnson chiese a Tito di assumere il ruolo di mediatore. Anche in questo caso, però, la proposta venne respinta dal Maresciallo dato il sostegno statunitense a Israele, stato aggressore che non aveva mai rispettato le risoluzioni dell’Onu. Lo stesso Tito si recò in Egitto, Siria e Iraq nel mese di agosto. Come riportato dalla trascrizione di un incontro tra le massime autorità jugoslave ed egiziane dell’agosto 1967, Tito ribadì alla controparte statunitense che “gli Stati arabi non capitoleranno mai e un giorno saranno costretti a imbracciare le armi per le ingiustizie perpetrate contro di loro e saranno pienamente giustificati a combattere come vorranno”.
Il leader jugoslavo giocò tuttavia un importante ruolo di mediazione, pur sostenendo apertamente i paesi arabi, proponendo un piano che prevedeva il ritiro delle forze israeliane dai territori occupati dopo il 5 giugno, la garanzia da parte delle grandi potenze dei confini esistenti prima del conflitto, l’apertura del Canale di Suez e la libertà di navigazione nel Golfo di Aqaba fino alla decisione della Corte internazionale di giustizia. Praticamente un ritorno agli equilibri precedenti l’offensiva israeliana.
L’obiettivo era raggiungere un cessate il fuoco senza costringere i paesi arabi a riconoscere formalmente lo Stato di Israele. La proposta non venne però accolta, in favore della Risoluzione Onu 242 approvata il 22 novembre 1967 che prevedeva, tra le altre cose, il ritiro delle forze israeliane dai territori occupati, la cessazione di ogni dichiarazione di belligeranza, il riconoscimento reciproco della sovranità e l’inviolabilità territoriale ed indipendenza politica di ogni stato della regione. Dopo la sconfitta diplomatica Belgrado continuò a sostenere militarmente l’Egitto, raggiungendo diversi accordi per la fornitura di armi.
Il sostegno all’Olp
Gli equilibri cambiarono nuovamente dopo la morte di Nasser avvenuta nel 1970 e l’ascesa al potere in Egitto di Anwar al-Sadat. Quest’ultimo, in un primo momento, si riavvicinò all’Unione Sovietica dopo la reciproca diffidenza del periodo di Nasser e cercò in tutti i modi di ottenere il sostegno di paesi occidentali come la Francia e la Gran Bretagna. Nel frattempo l’Olp era stato invitato per la prima volta al summit dei Non Allineati di Lusaka del 1970, a dimostrazione del sempre più marcato supporto verso la lotta palestinese. In questa fase, Belgrado cominciò a sostenere la formazione di uno Stato comprendente Gaza e la Cisgiordania e accettò, nel 1971, di aprire una rappresentanza dell’Olp nel paese. L’anno successivo Yasser Arafat, insieme a rappresentanti di Fatah e del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (di ispirazione marxista), visitò per la prima volta la Jugoslavia pur senza incontrare il presidente Tito.
Questi eventi prepararono il terreno a un’azione diplomatica ancora più spinta, soprattutto dopo la Guerra del Kippur del 1973. In quell’occasione Tito non condannò l’offensiva militare dei paesi arabi ma al contrario lanciò un chiaro messaggio a tutte le cancellerie mondiali per il riconoscimento delle legittime aspirazioni nazionali del popolo palestinese. Un posizionamento netto che spinse anche l’Unione Sovietica a riconoscere, per la prima volta, tale diritto. Il riconoscimento ufficiale dell’Olp come rappresentante legittimo palestinese chiuse il cerchio. Lo stesso Arafat ricordò durante un incontro del 1974 a Brioni, in Croazia:
“Quando sono venuto in Jugoslavia per la prima volta, è stato con il presidente Nasser. Ricordo ancora le parole che mi disse prima del nostro arrivo in Jugoslavia quando mi disse che saremmo andati a trovare il più grande e leale amico degli arabi.”
Negli anni successivi Belgrado continuò a rappresentare uno dei più stretti alleati dei palestinesi. Non solo a livello diplomatico ma anche culturale, con l’accoglienza di centinaia di studenti nelle università jugoslave, ed economico, con numerose raccolte fondi delle organizzazioni socialiste del paese slavo.
Dopo la morte di Tito
Il 5 maggio 1980 moriva Josip Broz Tito. La scomparsa del carismatico leader aprì le porte a un periodo di crisi e a un repentino crollo della credibilità del paese a livello internazionale. In pochi anni la Jugoslavia perse il suo ruolo di potenza diplomatica, attraversata da dissidi interni e dai tentativi di cancellare la memoria dei precedenti trent’anni.
Pur senza dimostrare particolare simpatia verso Israele, il regime di Belgrado si mostrò sempre meno entusiasta nel sostenere la causa palestinese. I colloqui segreti portati avanti con il Mossad a partire dall’inizio degli anni Ottanta rappresentano forse il caso più emblematico del nuovo corso. La normalizzazione delle relazioni venne avviata alla fine del decennio, con le prime visite ufficiali di politici israeliani come quella del 1987 di Elázar Granot, segretario generale del partito di sinistra Mapam.
Gli scambi commerciali e culturali, mai interrotti neppure durante il periodo titino, si fecero sempre più frequenti. La visita, nell’estate del 1990, del primo ministro serbo Stanko Radmilović con circa 300 uomini d’affari jugoslavi in Israele rappresentò il chiaro segnale che la Jugoslavia era ormai pronta a ristabilire relazioni diplomatiche con Israele. Cosa che avvenne nel gennaio 1992 quando della Jugoslavia non era ormai rimasto quasi più nulla.
Dottore di ricerca in Studi internazionali e giornalista, ha collaborato con diverse testate tra cui East Journal e Nena News Agency occupandosi di attualità nell’area balcanica. Coautore dei libri “Capire i Balcani Occidentali” e “Capire la Rotta Balcanica”, editi da Bottega Errante Editore. Vice-presidente di Meridiano 13 APS.