Come potrai immaginare, questo progetto ha dei costi, quindi puoi sostenerci economicamente con un bonifico alle coordinate che trovi qui di seguito. Ti garantiamo che i tuoi soldi verranno spesi solo per la crescita del progetto, per i costi tecnici e per la realizzazione di approfondimenti sempre più interessanti:

  • IBAN IT73P0548412500CC0561000940
  • Banca Civibank
  • Intestato a Meridiano 13

Puoi anche destinare il tuo 5x1000 a Meridiano 13 APS, inserendo il nostro codice fiscale nella tua dichiarazione dei redditi: 91102180931.

Dona con PayPal

Jugoslavia in Italia: lo spomenik di Barletta

Nell’Italia centro-meridionale sono presenti tre grandi spomenici jugoslavi: a Sansepolcro, in provincia di Arezzo, a Roma, nel cimitero di Prima Porta e a Barletta. Per parlare di quest’ultimo abbiamo contattato l’architetta Rosanna Rizzi, già redattrice de Il Cimitero degli Slavi di Dušan Džamonja a Barletta, esercizio di schedatura di opere di architettura contemporanea per il corso di Storia dell’Architettura del Novecento; curatrice del profilo Flickr Spomen Kosturnicu, che raccoglie fotografie in bianco e nero scattate tra dicembre 2003 e ottobre 2007; amministratrice della pagina Facebook Spomen Kosturnica Barletta, che mira a sensibilizzare l’opinione pubblica per la tutela e la cura del monumento.
Partiamo dalla storia dello spomenik, ovvero quando è stato costruito, quanto ci è voluto, perché fu fatto proprio a Barletta e come fu accolta in città l’idea di quest’opera molto diversa dal gusto italiano per i luoghi commemorativi.

Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, Italia e Jugoslavia vivevano ancora l’irrisolto nodo dei confini e della “questione Trieste” e la sua riconsegna, a seguito del Memorandum di Londra del 1954, costituì il primo cenno di distensione tra i due paesi. Seguirono molteplici accordi di traffici di merci e persone che permisero gli intensi scambi commerciali e culturali che avvennero negli anni seguenti.

È da inquadrare in questo nuovo clima l’accordo, firmato nel 1960, di esumare, traslare e rimpatriare le rispettive salme cadute in terra straniera durante la seconda guerra mondiale. L’elezione del primo governo di centro sinistra guidato dal democristiano Aldo Moro e sostenuto dal partito socialista consentì di avviare un intenso dialogo tra Italia e Jugoslavia per adempiere a questo impegno. Difatti l’accordo del 15 aprile 1964, stipulato a Roma da Ivo Vejvoda, Ambasciatore della Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia, affermava che

“il Governo Italiano è d’accordo che il Governo Jugoslavo […] sistemi definitivamente sul territorio italiano i cimiteri e le tombe dei caduti e morti combattenti della Guerra di Liberazione Popolare Jugoslava, come pure degli jugoslavi caduti e morti nelle guerre precedenti. A tale scopo il Governo della Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia farà eseguire sul territorio italiano i seguenti lavori:

– ai fini della traslazione e della concentrazione delle Salme provenienti da vari Cimiteri e tombe, costruirà tre Ossari commemorativi nelle città che saranno designate dalle competenti Autorità italiane sulla base dei desideri e delle richieste espressa dalla parte jugoslava; per quanto riguarda le specifiche ubicazioni degli Ossari, queste saranno determinate di comune accordo dalle due Delegazioni;

– costruirà nei Cimiteri, ove sono inumate Salme di caduti jugoslavi, minori Ossari commemorativi e più precisamente nel cimitero militare di Trieste e nei cimiteri urbani di Gorizia e Gonars”.

In molti comuni pugliesi, dopo la caduta del fascismo erano stati allestiti ospedali di fortuna e campi profughi, in cui migliaia di jugoslavi, semplici civili o partigiani delle Brigate d’Oltremare, giunsero feriti dalle varie regioni della Federazione, occupate dal nazifascismo. I profughi giungevano stremati, feriti o morenti a bordo di piccole imbarcazioni, dopo aver lottato strenuamente dall’altra parte dell’Adriatico. Chi riuscì a rimettersi venne rimpatriato, gli altri vennero sepolti nei cimiteri locali. A Barletta tanti furono curati presso l’ospedale militare “Raffaele Musti”, ma 175 combattenti caduti furono sepolti presso il campo slavo allestito dai loro connazionali nel 1944 nella parte nord-ovest del cimitero di Barletta.

Fu questa l’area di 2.300 metri quadrati che il Comune di Barletta, guidato dal sindaco democristiano e allievo di Aldo Moro Michele Morelli, il 30 dicembre 1967, con deliberazione n. 75 della Giunta Municipale, concesse in uso al governo jugoslavo, allo scopo di dare degna sepoltura alle salme già presenti e “di raccogliere in un sol posto anche i resti mortali dei militari jugoslavi sepolti in altri cimiteri”.

L’atto di concessione in uso della superficie si perfezionò a Roma il 10 gennaio 1968 presso il ministero degli Affari Esteri e prevedeva che:

  • il Governo jugoslavo pagasse al Comune di Barletta un canone annuo simbolico di 5mila lire (art.4),
  • che tutte le incombenze relative alla custodia, alla manutenzione e alla conservazione dell’Ossario spettassero all’Ambasciata jugoslava in Roma e che fosse impiegato un guardiano retribuito dal governo jugoslavo anche per eventuali lavori di giardinaggio e manutenzione (art. 5),
  • mentre tutte le spese relative alla sistemazione del terreno e alla costruzione dell’Ossario, nonché tutte le spese di cui sopra fossero di competenza del Governo Federale (art. 6).
Spomenik di Barletta
Come riporta la mappa allegata all’opuscolo dell’inaugurazione del Memoriale di Barletta, erano infatti centinaia i partigiani slavi sparsi tra Italia Meridionale, Sicilia e Sardegna.
Quali furono le fasi che portarono concretamente alla nascita dello spomenik?

Nel 1968 la Repubblica Socialista Federativa della Jugoslavia e la SUBNOR (Unione delle Associazioni dei Combattenti della Guerra di Liberazione Nazionale) bandirono un concorso per la realizzazione del Memoriale, vinto nello stesso anno dallo scultore Dušan Džamonja insieme all’ingegnere architetto Hildegard Auf-Franić con il progetto n° 11570.

Spomenik di Barletta
Plastico del progetto n. 11570 a cura di Dušan Džamonja, 1968. Foto conservata presso l’Archivio di Stato di Bari

Nell’arco di pochi mesi furono espletate tutte le pratiche e le autorizzazioni necessarie per la costruzione dell’Ossario commemorativo degli jugoslavi caduti sul territorio della Repubblica Italiana nella seconda guerra mondiale e nelle precedenti, grazie all’impegno del Sindaco Morelli, alla sollecitudine del ministero della Difesa italiana – Commissariato generale onoranze caduti in guerra e del governo jugoslavo. 

Il 21 maggio 1969 il progetto esecutivo, redatto e firmato da Džamonja, Auf-Franić e Miljenko Simić, insieme alla relazione statica firmata dall’ingegner Aldo Maria Palmiotti e dall’impresa di costruzioni edili Calò Giacomo di Domenico vennero depositati alla prefettura di Bari.

La costruzione del grande monumento ebbe inizio il 30 settembre 1969 e fu seguita con grande interesse dall’amministrazione comunale, desiderosa di adempiere agli accordi presi con la Jugoslavia per dare degna sepoltura ai caduti sparsi per la penisola italiana e, nel giro di pochi mesi fu realizzata dall’impresa locale Calò Giacomo di Domenico, in base al progetto di Džamonja, con la direzione lavori affidata a Palmiotti, a spese del governo jugoslavo. Dopo soli otto mesi, il 12 giugno 1970, furono conclusi i lavori e compilato il certificato di collaudo dall’ingegner Carlo Savella.

Spomenik di Barletta
Il cantiere per la costruzione dell’Ossario, 1969-70, Impresa Giacomo Calò, Archivio Resistenza e Memoria di Barletta

Il 4 luglio 1970, mentre in Jugoslavia si celebrava la giornata del Combattente a 29 anni dall’avvio della rivoluzione armata, a Barletta avvenne la solenne inaugurazione dello spomenik alla presenza di Marjan Cvetković, membro del Consiglio federale jugoslavo, delle più alte cariche italiane e di una folta delegazione jugoslava, compresi i parenti dei combattenti deceduti. Durante la cerimonia vennero deposte le cassette contenenti i resti di 825 vittime, esumati da varie sepolture nell’Italia meridionale e insulare, mentre sulle lastre bronzee furono riportati i nomi di altri 463 partigiani, dei quali non erano state reperite le spoglie, per un totale di 1.288 caduti.

Spomenik di Barletta
Inaugurazione del Monumento: la cerimonia di deposizione di 6 delle 320 urne conservate presso l’Ossario, 4 luglio 1970, Foto Trinacria – Gianni Gentiluomo, Archivio della Resistenza e della Memoria di Barletta.

Non vi sono tracce scritte delle reazioni dei cittadini barlettani al futuristico monumento calato in poco tempo nel cimitero cittadino, tranne un breve cenno a cura di un giornalista della Gazzetta del Mezzogiorno, che, parlando dell’opera appena completata e dell’apprezzamento del governo jugoslavo nei confronti dell’impresa Calò che aveva realizzato l’Ossario a perfetta regola d’arte, lo descrisse sinteticamente così: “un monumento dalla linea architettonica svelta e moderna”.

Ma cosa prevedeva il progetto vincitore di Dušan Džamonja?

Lo scultore croato immaginò un complesso architettonico dalla forte valenza paesaggistica, dato che il lotto assegnato per l’opera sorge su “una sporgenza verso il mare, la cui posizione è ideale per la dominazione sulla costa e per la vista, oltre il mare aperto, verso la Patria”. Džamonja, nell’Argomentazione spaziale, ideale e tecnica del progetto, indicò che gli accessi all’area erano limitati a una strada a ovest e a una a sud, quest’ultima piantumata a cipressi dall’alto fusto su di un lato, che impedivano di osservare in modo completo l’Ossario commemorativo dalla parte del cimitero, per cui sviluppò la sua idea contando sull’esperienza diretta del complesso monumentale da vicino e sul fatto che il monumento fosse visibile dal mare.

Pertanto, se la barriera arborea doveva esserci, il progettista preferì almeno che fosse simmetrica, suggerendo al comune di integrare con un nuovo filare di alberi il lato opposto a quello esistente e di completare quest’ultimo con alcuni alberi della stessa specie.

Džamonja espresse il contenuto commemorativo scolpendo scenograficamente l’intero spazio che gli era stato messo a disposizione. La composizione del progetto in pianta risulta asimmetrica, ma si sviluppa a raggiera da un nucleo centrale ellittico, costituito dall’oculo posto sulla cripta. L’unità volumetrica plastica di base è un monolite in cemento armato, semplificazione architettonica del sarcofago, che si ripete e aumenta di volume in cerchi concentrici dalla periferia del monumento verso il suo centro e cresce gradualmente in verticale.

Questa crescita verticale non solo sostiene la già forte espressione plastica, ma anche il contenuto ideale dell’intero insieme: il ritmo delle masse accumulate si irrigidisce nel nucleo del monumento nei possenti contrafforti con cui l’autore ha voluto dare l’impressione di una “guardia circolare sull’apertura della cripta”, in modo che al centro della composizione tutta la potenza repressa si trasferisca nel grande oculo che apre l’ossario verso il cielo. Il solaio si regge attraverso quattro steli arditamente imperniate che penetrano fino alle fondamenta della cripta, collegando, letteralmente e simbolicamente, lo spazio commemorativo con lo spazio sepolcrale. Ma la funzione simbolica di quei semplici volumi – in cui sono chiaramente leggibili i dettagli lessicali di una scultura spiccatamente laica – non si esaurisce. L’intero ossario commemorativo è allo stesso tempo un belvedere storico con una gigantesca finestra aperta sul mare. Sullo sfondo il Mare Adriatico. E poi: la patria.

Spomenik di Barletta
L’ingresso al monumento con la scalinata di accesso alla cripta e la terrazza verso il Mare Adriatico – Foto di Rosanna Rizzi, 2017

Il principio di addizione di elementi verticali rimanda simbolicamente all’idea di moltitudine che, raccolta in un insieme omogeneo, si riferisce alla comunità e all’ideologia della “fratellanza e unità dei popoli”. Questo è uno dei principi costruttivi che caratterizza i memoriali di Džamonja, insieme alla capacità di vivere l’esperienza dell’integrazione fisica e psicologica dei visitatori nel monumento, in ragione delle esclusioni delle visuali date dalle steli/vele e dalla sensazione di spaesamento ottenuta dalla ripetizione spaziale e radiale dei blocchi più bassi. In realtà, la percezione del monumento, pensata dai progettisti, è quella esperita all’interno, in uno spazio emozionale e coinvolgente, dove la visione che il visitatore ottiene, grazie ad una “geometria misteriosa”, è di una tensione centripeta verso l’alto.

Džamonja utilizzò il cemento armato faccia a vista per tutta la struttura, perché lo riteneva una materia moderna, più economica di marmo e granito, adatto a realizzare opere di grandi dimensioni, capace di integrarsi bene nell’ambiente in cui si inseriva il monumento e capace di esprimere al meglio il ricordo delle vittime. “L’importante era sapere come lavorarlo e renderlo vivo”.  

L’Ossario si estende per una lunghezza di 70 metri e un’ampiezza di 20, ed è strutturato su due livelli per un’altezza complessiva di 11 metri. L’accesso al monumento, come pure i percorsi nell’intero complesso, sono liberi e illimitati, tranne che per la cripta e la terrazza sul mare, il cui ingresso è dato dalla scalinata in granito che parte dal viale del cimitero davanti all’Ossario. Il nodo centrale della cripta, progettata interamente sotto la superficie del suolo e destinata a cerimonie, è sottolineato da una vasca ribassata rivestita in mosaico rosso, posta al centro della composizione ed al di sotto dell’oculo da cui dipartono a raggiera i percorsi verso i limiti del lotto.

Le pareti laterali della cripta sono rivestite da tre file di elementi plastici identici in bronzo di Dušan Džamonja che, con il loro ritmo severo accentuano la solennità dello spazio sepolcrale. Al di là di queste pareti vi sono gli spazi effettivamente funzionali dell’Ossario, gli angusti ambiti in cui sono conservate le spoglie dei defunti. Incassate nella superficie su cui vi sono i rilievi, simmetricamente rispetto alla scala, vi sono due lastre di bronzo sulle quali sono stati fusi, in caratteri plastici, i nomi dei partigiani, ordinati in due elenchi: “Caduti e morti nell’Italia meridionale” (Pali i umrli u južnoj Italiji) e “Dispersi sul territorio dell’Italia meridionale” (Nestali na teritoriji južne Italije) e che contemporaneamente servono come porte d’entrata nello spazio interno della cripta.

Allo stesso livello della cripta si apre una terrazza, visibile dal livello superiore, lateralmente chiusa da elementi verticali della stessa altezza di quelli della cripta, che accentuano così la direzione dello sguardo verso il mare aperto dell’Adriatico e verso la Jugoslavia.

Spomenik di Barletta
La terrazza sul Mare Adriatico. Foto di Rosanna Rizzi, 2007

Quella “finestra” sull’infinito come anelito alla vita e alla libertà, dopo tanto dolore, sofferenza e morte, che Dušan Džamonja usa simbolicamente per “chiudere il cerchio” dell’Ossario e spingere le anime dei caduti verso casa.

Per il suo simbolismo laico, per la sua plastica monumentalità, lo spomenik ha sempre suscitato ammirazione e meraviglia in tutti coloro che si sono recati e si recano presso il cimitero cittadino; per l’altezza degli elementi scultorei che si stagliano contro il cielo azzurro di Puglia come colonne di un tempio costruttivista, che proiettano sulla scenografia cimiteriale le loro ombre dai netti profili. Tanti visitatori sono rimasti affascinati dai molteplici blocchi di cemento squadrati, geometrici, che costituiscono nell’insieme una massa compatta, interrotta dalle steli a forma di vela. Tanti si sono stretti in silenzio intorno alla vasca in mosaico rosso che ricorda il sangue versato dai partigiani jugoslavi nella lotta di liberazione dal nazifascismo. Come fosse un’astronave aliena calata tra le piccole tombe ha sempre ammaliato me e tanti barlettani, segretamente orgogliosi di custodire sia le spoglie di giovani combattenti che la loro monumentale e scenografica tomba.

Ci sono storie o aspetti da raccontare circa il rapporto di Džamonja con Barletta?
Spomenik di Barletta
Ritratto di Džamonja sul cantiere dell’Ossario, 1970

Purtroppo non ho particolari aneddoti da raccontare sul rapporto tra Dušan Džamonja e Barletta, ma mi è sembrata emblematica la sua scelta di “autorappresentarsi” sul Catalogo del Padiglione Jugoslavo della 35° Biennale di Venezia, 1970, attraverso una foto scattata proprio sul cantiere dello spomenik di Barletta, in una posa sognante, o forse solo accecato dal forte sole pugliese.

Bisogna però ripercorrere la strada artistica che ha portato lo scultore croato a realizzare l’Ossario Commemorativo dei combattenti jugoslavi caduti e morti nell’Italia meridionale durante la seconda guerra mondiale a Barletta, per avere qualche risposta.

Džamonja si avvicinò alla scultura commemorativa subito dopo aver concluso l’Accademia di Belle Arti, attirato dal compito “pubblico” che poteva ricoprire con la sua arte, un compito dal grande peso simbolico a seguito della fine della Seconda guerra mondiale.

La realizzazione di monumenti commemorativi in tutta la Jugoslavia era parte di un programma del governo di Tito che spingeva artisti e popolazione a riflettere su quanto era avvenuto in una guerra così dolorosa e traumatica.

Džamonja realizzò il suo primo monumento nel 1952 a Londra e cinque anni dopo scolpì un’opera in memoria delle vittime del nazismo a Dachau e ad Auschwitz. In quel momento capì che la memoria degli eventi storici doveva cambiare: non era più sufficiente utilizzare le parole per descrivere la macchina di eliminazione di massa di milioni di persone escogitata e messa in pratica dal nazismo. Era convinto di dover cercare, attraverso la libertà di scelta di materiali e interpretazioni, di porre l’accento sulla funzione psicologica dell’insieme, perché il Memoriale rappresentava lo strumento del ricordo dei fatti e delle memorie dei singoli.

In seguito ai contrasti tra Tito e Stalin, la Jugoslavia si allontanò dai movimenti artistici dell’Unione Sovietica, imperniati sul realismo socialista, e creò un nuovo linguaggio dai tratti unici e riconoscibili dando il via alla costruzione degli spomenici, enormi strutture nel tormentato paesaggio jugoslavo che commemorano gli eroi e le vittime della guerra.

Grazie a una legge del 1948, che garantiva la libertà dell’espressione artistica, Džamonja e i suoi colleghi riuscirono a realizzare decine e decine di spomenici in piena libertà, senza alcuna imposizione del partito, solo attraverso la partecipazione a concorsi pubblici, in cui il miglior progetto era scelto per meriti artistici e simbolici.

Così Džamonja nel 1968 partecipò al concorso per la realizzazione dell’Ossario di Barletta dove vinse il primo premio. In un’intervista del 2007 affermò di essere riuscito a realizzare pienamente la sua espressione artistica solo con tre grandi opere: il Monumento dedicato alla Rivoluzione nella Moslavina, a Podgarić in Croazia; il Memoriale a Mrakovica, sul Kozara in Bosnia Erzegovina e proprio lo spomenik in memoria dei feriti jugoslavi che si trovavano in cura nel Sud Italia a Barletta. E il Presidente della Repubblica Federale Jugoslava cosa pensava degli spomenici di Džamonja? A proposito di Podgarić, durante l’inaugurazione del monumento, Tito affermò: “Džamonja, io non amo l’arte astratta ma questa sua opera parla molto bene della nostra rivoluzione!”.

Spomenik di Barletta
Džamonja e Tito durante la cerimonia di inaugurazione del Monumento alla Rivoluzione di Kozara, sulla vetta dell’altipiano di Mrakovica, in Bosnia Erzegovina, 10 settembre 1972, Fonte: Fototeca del Museo di Storia della Jugoslavia
Quando qualche anno fa abbiamo visitato lo spomenik di Barletta, l’abbiamo trovato in condizioni abbastanza complesse, alcune parti erano circondate da nastro che impediva di avvicinarsi. È ancora così? Chi dovrebbe occuparsi dell’opera?

Come riportato in precedenza, il Protocollo concernente l’erezione e il mantenimento a Barletta di un Ossario per i Militari Jugoslavi deceduti in Italia durante l’ultima guerra in applicazione dello scambio di note del 15.04.1964, stilato a Roma il 10 gennaio 1968, prevedeva che tutte le spese di manutenzione e conservazione dell’Ossario fossero di competenza del Governo Federale della Jugoslavia.

Ma, dopo la dissoluzione della Federazione e la nascita delle repubbliche indipendenti, a chi spetterebbe oggi la cura e la tutela dello spomenik di Barletta?

In base a quanto dichiarato da alcuni diplomatici serbi incontrati in questi anni di ricerca, la Repubblica di Serbia, non essendo uscita dalla Federazione come le altre repubbliche, avrebbe ereditato tutti i trattati e gli accordi internazionali della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia. Quindi spetterebbe a Belgrado occuparsi della manutenzione dell’opera.

Facile, no? No, impossibile da realizzarsi. O meglio, troppo difficile, poiché capire come applicare accordi internazionali degli anni Sessanta, concessioni comunali e normative nazionali su un monumento dall’altissimo valore simbolico, storico, architettonico e paesaggistico è come sbrogliare una matassa di fili insanguinati che giungono dalla seconda guerra mondiale, attraversano un mare salvifico, si incastrano nei luoghi di sepoltura in tutta l’Italia meridionale e insulare, trovano finalmente pace in un monumentale sepolcro a Barletta e poi restano intrappolati tra le pieghe di un’altra guerra che sgretola e distrugge la loro patria. Ma quei fili sono persone provenienti da ogni luogo della attuale ex-Jugoslavia che hanno già combattuto per la libertà e che ora si trovano sospesi, a rischio di cadere giù in un precipizio che si affaccia sullo stesso mare che li ha abbracciati.  

Ma come si è giunti a questo punto?

I primi interventi di ripristino dei blocchi di cemento avvennero solo tre anni dopo la fine della costruzione dello spomenik a opera dell’Impresa Calò tramite il Consolato jugoslavo a dimostrazione dell’estrema attenzione che si aveva al degrado del materiale. È però del 1988 la prima manutenzione ordinaria a cura dell’architetto Giuseppe Cej di Gorizia per la sistemazione della pavimentazione in blocchi di granito, ma soprattutto per realizzare opere di impermeabilizzazione delle parti in calcestruzzo e per la tutela di tutte le superfici dell’Ossario tramite un rivestimento protettivo.

Dalla documentazione d’archivio ritrovata non risultano più tracce di manutenzioni, a meno di pulizie di tutto il complesso monumentale a cura del Comune di Barletta in occasione di particolari ricorrenze come il 25 aprile o il 2 novembre, giorni in cui delegazioni delle varie repubbliche giungevano e giungono ancora oggi per commemorare i propri cari.

Le mie ricerche sull’opera cominciarono nel 2003 quando mi fu affidato il compito di schedare un’opera di architettura del ‘900 in Puglia, durante il corso di Storia dell’Architettura Contemporanea, tenuto dal Professor Giovanni Leoni all’interno del Corso di Laurea in Architettura presso il Politecnico di Bari, lavoro che confluì ne “Il Cimitero degli Slavi di Dušan Džamonja a Barletta”, archiviato nel 2007 presso la biblioteca comunale “Sabino Loffredo” di Barletta e che mi permise di approfondire la conoscenza dell’opera e di decidere che avrei tentato in tutti i modi di tutelarla.

A proposito dello stato di conservazione dello spomenik, nel 2006 scrivevo: “In seguito all’espansione urbana e demografica della città, oggi l’area che circonda l’Ossario è completamente satura di cappelle ed è circondata da campi per tombe. Nessuna costruzione funeraria compete però in maestosità e grandezza con il cimitero slavo, che resta l’elemento caratterizzante dell’area e riferimento spaziale per i visitatori. Il suggerimento dei progettisti di piantumare una fila di cipressi simmetrica all’esistente fu portato a termine, ma la lenta crescita degli alberi, non ha ancora realizzato la visione speculare prospettata. Dal punto di vista formale, l’Ossario si presenta allo stesso modo in cui lo si poteva osservare nel 1970.

Ciò che è mutato nel tempo è la sua pelle, piena di rughe e macchie, come se il tempo avesse dovuto per forza lasciare le proprie tracce. L’assenza di adeguati rivestimenti e protezioni agli agenti atmosferici, la vicinanza al mare e quindi l’alta esposizione alla salsedine e all’umidità, hanno modificato la cromia delle superfici con efflorescenze ed incrostazioni, fessurando le strutture, già deboli all’azione dei terremoti. Le siepi che circondavano l’Ossario si sono diradate e la ghiaia dei vialetti si è sparsa su tutta la superficie, perennemente ricoperta di sabbia”.

Dal 2006 la situazione è solo peggiorata: il tempo, il mare e l’incuria hanno aggredito lo spomenik e l’assenza di responsabili per la sua tutela hanno completato il quadro. Già dai primi mesi del 2017 lo spomenik è stato chiuso da transenne e cinto da nastro segnaletico bianco e rosso, quasi fosse la scena di un crimine: quello dell’abbandono.

Il 29 novembre 2017 il settore manutenzioni del comune di Barletta ha comunicato al ministero della Difesa – Commissariato generale onoranze caduti in guerra lo stato in cui versa il monumento Ossario: “esso ha gravi problemi statici in quanto essendo costruito su un dirupo è spaccato a metà per cedimenti franosi, per cui necessita da tempo di consolidamento statico/manutenzione e, pertanto, per sicurezza viene disposta la recinzione del sito nelle parti periferiche compromesse ed oltretutto confinate sul dirupo da un muretto troppo basso”. Il tecnico incaricato geom. Ruggiero Bufo conclude con la richiesta che vengano informate “le Autorità giuste a tutela e salvaguardia del monumento stesso nonché della sicurezza e pubblica incolumità”.

Nonostante varie sollecitazioni all’amministrazione comunale da parte di associazioni locali, dell’ANPI “Dante di Nanni” di Barletta, della Fondazione Gramsci di Puglia, del Professor Luigi Dicuonzo dell’Archivio Resistenza e Memoria, dell’IPSAIC di Bari, la costituzione del Comitato Tutela Ossario dei Caduti Jugoslavi, ancora nulla pare muoversi. I nodi sono tutti in quella matassa di cui parlavo prima, perché, seppure fosse la Serbia oggi responsabile dello spomenik, non sono solo di partigiani serbi le spoglie lì custodite. Le altre repubbliche non sarebbero anch’esse interessate a consentire di proseguire il riposo di loro giovani combattenti, garantendo all’Ossario di resistere ancora allo scorrere della storia? E come risolvere i complicati rapporti che già hanno portato ad una terribile guerra conclusasi solo poco tempo fa? E come accordarsi su chi dovrà sostenere le spese per il ripristino e la tutela dell’opera?

Dušan Džamonja ci ha lasciato nel 2009 e forse non sapeva che il suo grande memoriale avesse già subito un così repentino degrado, ma affermava, parlando delle ostilità che aveva subito da parte della Chiesa per la realizzazione del memoriale dedicato ai caduti croati nell’ultima guerra degli anni Novanta a Zagabria perché autore di importanti monumenti in memoria di partigiani, che per lui “la vittima è vittima, una persona torturata o ammazzata, a prescindere da qualsiasi appartenenza politica, religiosa o nazionale, per me non c’è differenza”.

È con questo spirito che tutti gli sforzi dovrebbero convergere per salvare lo spomenik di Barletta dall’oblio e dalla distruzione.

Uno spiraglio sembra aprirsi grazie all’appassionato interessamento di un giovane architetto veneziano, Enrico Toniato, che ha redatto la propria tesi di specializzazione sull’Ossario, in cui propone soluzioni al ribaltamento del piano terrazzato sul terrapieno sottostante e presenta ottime proposte per mettere in sicurezza il monumento, conservarne strutture e superfici e renderlo maggiormente accessibile.

La tesi «Spomenkosturnica»: Ossario dei Caduti Slavi a Barletta. Strumenti per un piano di conservazione e fruizione di un monumento del XX secolo, relatrice professoressa Sara Di Resta, svolta nell’ambito della Scuola di specializzazione Iuav in Beni Architettonici e del Paesaggio di Venezia e discussa presso lo Iuav il 10 marzo 2021, ha vinto il 15 settembre scorso il “Premio in memoria dell’Ingegner Luigi Santarella” – I Edizione, come miglior tesi relativa ad opere storiche in calcestruzzo armato.

Elaborati grafici della tesi di specializzazione dell’architetto Enrico Toniato

Inoltre il tema degli spomenici è divenuto di grande interesse a livello internazionale, tanto da generare negli ultimi anni grandi quantità di pubblicazioni, video, schedature, tesi, ricerche, fumetti, magliette e persino tour organizzati sui luoghi degli spomenici al di là dell’Adriatico.

Una delle ultime novità editoriali, edita ad ottobre 2023, è BRUTALIST ITALY!, a cura di Roberto Conte e Stefano Perego, che annovera, tra i più di 100 edifici brutalisti italiani documentati in anni di lavoro e migliaia di chilometri percorsi, anche l’Ossario commemorativo degli slavi di Barletta. La foto scelta dagli autori, realizzata dalla terrazza a sbalzo sul terrapieno, mostra i danni causati dal tempo e reclama urgenti interventi di tutela e cura.

Mi auguro che tale fermento culturale spinga ad un serio dibattito qui in Italia, che giunga ad una proficua interlocuzione con le repubbliche della ex-Jugoslavia per sciogliere al più presto quella matassa di fili insanguinati e dare nuovamente dignità all’Ossario commemorativo dei combattenti jugoslavi caduti e morti nell’Italia meridionale durante la seconda guerra mondiale di Dušan Džamonja.

Un aspetto che mi interessa molto è il rapporto, anche oggi, della città con l’opera. C’è interesse? Viene ignorata?

Mi piacerebbe rispondere che l’Ossario di Dušan Džamonja è uno degli argomenti più attuali in città, ma, se escludiamo sparuti gruppi di intellettuali, ricercatori, storici, giornalisti o architetti, che continuano a torturarsi nella speranza che i propri sforzi giungano ad un qualche risultato per la tutela dell’opera, gran parte dei cittadini barlettani ignora completamente la storia e l’importanza del memoriale.

Negli anni ci sono state mostre e convegni sulla presenza dei profughi jugoslavi a Barletta che hanno permesso di esporre le fotografie di cantiere e dell’inaugurazione, custodite prima dalla famiglia Calò e oggi dall’Archivio Resistenza e Memoria curato dal Professor Luigi Dicuonzo. Vi sono stati lezioni aperte destinate agli studenti delle scuole secondarie sulla Resistenza a Barletta e sul ruolo delle Brigate d’Oltremare, costituitesi nella vicina Gravina per andare a liberare la Jugoslavia dal nemico nazista, ma non saprei se vi è traccia nella memoria dei giovani barlettani.

Mi piacerebbe dirlo, ma non posso. Così come non posso sapere quanto lo spomenik di Barletta resisterà.

Affido a questo scritto il compito di diffonderne la conoscenza, così come cerco di fare attraverso la pagina Facebook Spomen Kosturnica Barletta che curo dal 2017 e che ha appena 152 follower. Pochi per un’opera così importante, ma si sa che la crudeltà dei social è proporzionale al valore di gran parte dei suoi contenuti.

Chiudo con un riferimento artistico che affascinò tanti poeti, musicisti, letterati e uomini di stato e che mi è sempre sembrato calzante per l’opera. Chissà cosa ne penserebbe l’autore…

Lo spomenik di Barletta è ancora oggi perfettamente visibile da tutta la Litoranea di Ponente e si erge statuario sul ripiano costiero che domina la spiaggia, come fosse una nave dalle vele spiegate, pronta per attraversare il Mare Adriatico e tornare in Jugoslavia. O la concretizzazione nella realtà dell’Isola dei Morti (Die Toteninsel) di Arnold Böcklin, dove un impianto volumetrico solido e compatto, denso di alti e verdi cipressi, immerge l’osservatore in un’atmosfera ipnotica, carica di simbolismo e mistero.

Confronto tra Die Toteninsel III (Alte Nationalgalerie, Berlin) e l’Ossario commemorativo degli slavi visto dalla Litoranea di Ponente di Barletta

Condividi l'articolo!
Gianni Galleri
Gianni Galleri

Autore dei libri “Questo è il mio posto” e “Curva Est” - di cui anima l’omonima pagina Facebook - (Urbone Publishing), "Predrag difende Sarajevo" (Garrincha edizioni) e "Balkan Football Club" (Bottega Errante Edizioni), e dei podcast “Lokomotiv” e “Conference Call”. Fra le sue collaborazioni passate e presenti SportPeople, L’Ultimo Uomo, QuattroTreTre e Linea Mediana. Da settembre 2019 a dicembre 2021 ha coordinato la redazione sportiva di East Journal.