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Fin dalle prime settimane seguite all’invasione russa dell’Ucraina, la scrittrice russa Julia Yakovleva ha iniziato a raccogliere in forma, per così dire, analogica (carta e penna alla mano) le impressioni, i pensieri e i racconti spontanei di bambini e adolescenti russi tra i 5 e i 17 anni in merito a quanto stava (e sta) accadendo. Questi testi - raccolti in un racconto corale intitolato Orrore, schifo, guerra, nel quale si fa spazio anche il commento dell’autrice stessa - sono stati tradotti e pubblicati a fine gennaio dalla casa editrice il Mulino. La traduttrice, Martina Napolitano, ha chiacchierato con l’autrice in merito a questo progetto ora disponibile in lingua italiana.
Come hai selezionato i bambini e gli adolescenti con cui interagire?
Di fatto non li ho affatto selezionati. Ho parlato con tutti quelli con cui ho avuto la possibilità di dialogare. A prescindere da sesso, età, ceto sociale o da dove vivono. Tanto più a lungo si trascinerà questa guerra, tanto più la gente impazzirà e prenderà a etichettare l’altro. Dietro a queste etichette scompaiono le identità personali.
Ora questo non avviene soltanto in Russia, ma anche in Ucraina e in Occidente. Talvolta mi pare che si tratti di una malattia che questa guerra ha messo in mostra. Una malattia di carattere etico che ha colpito tutti. Questa oggettivazione la vedo ovunque, quando si parla dei “russi”, degli “ucraini”, dell’“Occidente”. Lo trovo disgustoso. Ai miei occhi tutte le persone sono prima di tutto persone, sono delle identità.
Qual è stato il tuo approccio mentre cercavi di stabilire un contatto con questi tuoi interlocutori? E come hanno reagito loro al tuo interesse?
È stato tutto molto elementare: “Ti faccio qualche domanda, ti va di parlare un po’?”. Tutto qui. In molti avevano molta voglia di aprirsi. Altri all’inizio erano scettici. Eppure, tutti alla fine hanno parlato moltissimo. Tutti volevano raccontare qualcosa di se stessi, di quello che provavano e pensavano.
Come hai scelto i frammenti di conversazione più adatti e come li hai inseriti nella struttura di questo testo corale?
Sinceramente non ricordo. Durante i primi mesi di guerra, ero sotto shock, provavo orrore. Mi sono mossa in maniera istintiva, sentivo che andava fatto così. E ora non riesco a ricordare quei mesi. Evidentemente è un meccanismo legato allo sconvolgimento emotivo. L’unica cosa che capisco ora è che è stato un bene che io abbia trascritto queste testimonianze. Altrimenti non si sarebbero conservate.
Tra gli intervistati ci sono anche bambini e ragazzi della provincia? A tuo modo di vedere, in cosa si distinguono la vita in città e quella in provincia in questo periodo in particolare?
Penso che non sia una questione di geografia. Dipende piuttosto dalla famiglia che hai, dai genitori che hai. Ho incontrato genitori che sanno come contrapporsi alla propaganda di stato e che difendono i figli da essa. Ma ho anche visto genitori che sostenevano la guerra e che ritenevano che la Russia avesse diritto di iniziarla; in questi casi, erano i figli a difendersi da soli da ciò che dicevano loro i genitori. C’erano poi famiglie dove figli e genitori condividevano le stesse opinioni. In ogni caso, tutti erano ugualmente terrorizzati, davvero tutti comprendevano che ciò che è successo ha cambiato in maniera irreversibile il corso della loro vita.
Negli ultimi mesi continui a registrare le testimonianze dei bambini e degli adolescenti sulla guerra e le sue conseguenze?
No, dopo che ho iniziato a pubblicare qualche articolo a riguardo è diventato pericoloso per i miei interlocutori in Russia.
Sei ancora in contatto con alcuni ragazzi? Come pensi che proseguirà la loro vita nei prossimi mesi?
Con alcuni ancora mi sento ogni tanto. Penso che nessuno di noi sappia cosa succederà e come cambierà la nostra vita. Io per prima non ne ho la minima idea. Non ho nemmeno le forze per dare un senso a ciò che avviene adesso.
Alcuni dei bambini intervistati hanno poi lasciato la Russia con la famiglia?
Sì. Nei primi mesi erano emigrate soltanto alcune prime famiglie, con la conseguenza che i bambini hanno perso i propri amici, separandosi da loro per sempre e sentendone molto la mancanza. Poi sempre più persone hanno iniziato a lasciare il paese.
Per questi bambini la vita di sempre è stata distrutta. Hanno perso la loro casa. Hanno perso la cosa più importante che ci deve essere durante l’infanzia: quel senso di sicurezza e protezione nell’interagire con il mondo. E questo trauma se lo porteranno addosso per tutta la vita. E qui si parla di bambini russi. E se prendiamo i bambini ucraini? I bambini che sono stati uccisi? I bambini che sono rimasti feriti? I bambini che sono stati separati dai genitori? Certo, dicono che i bambini si abituano in fretta. Ma io non posso farci nulla: quando penso alle sofferenze e alle distruzioni che ha portato questa guerra, vorrei dire soltanto una cosa a chi l’ha organizzata: che siate maledetti.
Dottoressa di ricerca in Slavistica, è docente di lingua russa e traduzione presso l’Università di Trieste, si occupa in particolare di cultura tardo-sovietica e contemporanea di lingua russa. È traduttrice, curatrice di collana presso la casa editrice Bottega Errante ed è la presidente di Meridiano 13 APS.