Come potrai immaginare, questo progetto ha dei costi, quindi puoi sostenerci economicamente con un bonifico alle coordinate che trovi qui di seguito. Ti garantiamo che i tuoi soldi verranno spesi solo per la crescita del progetto, per i costi tecnici e per la realizzazione di approfondimenti sempre più interessanti:
IBAN IT73P0548412500CC0561000940
Banca Civibank
Intestato a Meridiano 13
Puoi anche destinare il tuo 5x1000 a Meridiano 13 APS, inserendo il nostro codice fiscale nella tua dichiarazione dei redditi: 91102180931.
Cinquantasette medaglie, tra Europei, Mondiali e Giochi Olimpici, oltre a 42 titoli nazionali della Repubblica Democratica Tedesca. Tanti sono i successi che in più di quarant’anni anni di carriera ha raccolto Jutta Müller, una delle allenatrici più vincenti della storia del pattinaggio artistico su ghiaccio, scomparsa a 95 anni nel novembre 2023. Un tecnico vincente, ma soprattutto una personalità forte, rispettata, spesso temuta. Ecco la sua storia.
Lo sport nel sangue
Nata a Chemnitz, nel sud della Sassonia, nel 1928, sul finire della Repubblica di Weimar, Jutta Lötzsch, questo il suo cognome da nubile, ha la competizione nel DNA. Suo papà Emil, professione ferroviere, era stato infatti campione regionale di lotta nel 1930. Al termine della guerra Jutta, che da bambina ha iniziato con la danza e che per mantenersi fa l’insegnante, si dedica al pattinaggio di figura, su ghiaccio e su rotelle. Nel 1949 vince il titolo nazionale di coppia, insieme a Irene Salzmann, in un binomio tutto femminile, dovuto alla mancanza di partner maschi in quel periodo e nel 1953 è terza nell’individuale su ghiaccio, oltre a conquistare l’argento nel singolo a rotelle.
Allenatrice per volontà (degli altri)
Jutta, che in quel momento gareggia con il cognome Seyfert, quello del suo allora marito, sembra destinata almeno ancora a qualche anno di carriera. A mettersi in mezzo nel 1954, un giovane ma importante funzionario dello Staatliche Komitee für Körperkultur und Sport, il massimo organismo sportivo della DDR. Si chiama Manfred Ewald e impone a Jutta di diventare un allenatrice per le nuove leve del pattinaggio della Repubblica Democratica. Per questo si iscrive alla Deutsche Hochschule für Körperkultur (DHfK) di Lipsia, il più importante istituto di educazione fisica del paese. Nel 1955 inizia la sua carriera al SC Karl-Marx-Stadt, il club di quella che fino a qualche anno fa era Chemnitz. Sarà l’unico per cui lavorerà.
In principio furono Gaby e Anett
Un lavoro oscuro, quotidiano, duro, in un sport che nella DDR ancora non ha preso piede. Nel 1963 sul ghiaccio del palazzetto, Jutta deve allenare la 15enne Gabriele Seyfert, già campionessa della DDR nel 1961 a 13 anni. Non è un’omonima dell’ormai ex marito di Jutta, che ora è la signora Müller, è sua figlia. Per Gaby non è facile, anche perché Frau Müller non fa sconti a nessuno.
I risultati però si vedono. A partire dal 1966 la 18enne di Chemitz si impone sulla ribalta internazionale. Sale sul podio in tutte le competizioni più importanti. Argento ai Mondiali del 1966, oro agli Europei 1967 e argento, prima medaglia di sempre della DDR nel pattinaggio artistico ai Giochi Olimpici di Grenoble. Non vince solo perché davanti a lei c’è la statunitense Peggy Flemming, allenata dal milanese Carlo Fassi.
Dopo il ritiro della sua rivale, Seyfert vince due Mondiali, ma rinuncia a un probabile alloro olimpico a Sapporo 1972 per amore di Eberhard Rüger, suo compagno di allenamento, da cui nel 1974 avrà una figlia. Gaby, che ha rivoluzionato la percezione del pattinaggio nella DDR mettendoci dinamismo e interpretazione e ha reso popolare questo sport nella Repubblica Democratica, ha già la testa al futuro. Vuole allenare, come mamma. Tra le ragazze che segue sulla stessa pista di Jutta c’è una giovane, anche lei di Karl-Marx Stadt. Il suo nome è Anett Pötzsch. Per Gaby è una bella occasione ma dopo i primi successi le autorità della DDR la aggregano al gruppo di Jutta Müller.
Seyfert smette di allenare e come confesserà al sito del Mitteldeutscher Rundfunk in privato non si parleranno per anni. Anett Pötzsch tra il 1977 e il 1980 è la padrona del singolo femminile, con l’assolo delle Olimpiadi di Lake Placid dove la pattinatrice vince l’oro tra le donne, mentre Jan Hoffmann, altro allievo di Müller conquista l’argento tra gli uomini.
Witt e Müller, binomio perfetto
Nel 1977 al SC Karl-Marx Stadt arriva una ragazza di 12 anni, nata vicino a Berlino. Si chiama Katarina Witt e grazie al suo talento, alle sue doti fisiche ma anche agli insegnamenti della sua allenatrice diventerà una delle migliori pattinatrici di sempre. I rapporti tra i due non sono sempre facili, perché Jutta sa essere durissima e Katarina ha una grande personalità. Dal punto di vista tecnico il mix è esplosivo. Müller lavora sulla tecnica, ma soprattutto sulle possibilità espressive ed estetiche della giovane atleta. I risultati sono straordinari. Sei titoli europei consecutivi, quattro ori ai Mondiali e due, uno in fila all’altro, alle Olimpiadi di Sarajevo e Calgary. Due trionfi, il primo ottenuto con 0,2 di vantaggio sulla seconda e il secondo grazie a un esercizio perfetto sulla Carmen di Bizet, che hanno consacrato l’allenatrice e hanno fatto diventare per TIME Katarina “il volto più bello del socialismo”.
Nell’ombra con la Riunificazione
I trionfi di Katarina Witt sono gli ultimi per Jutta Müller. Quando cade il Muro di Berlino l’allenatrice, che ha preso la tessera della SED, il Partito di governo della DDR nel 1946, viene accantonata. La DEU, la Federazione degli sport del ghiaccio della Germania unificata non gli offre nessun incarico e lei si dedica soprattutto a lavorare con i giovani, come Stefan Lindemann nel 2000 oro ai mondiali Juniores e a dare consigli, come ad Aljona Savchenko campionessa olimpica nel 2018 per la Germania. Tra i seniores non allena più nessuno, se non l’amata Katarina Witt, quando nel 1994 decide di rientrare ai Giochi di Lillehammer dopo la parentesi del professionismo. Una personalità rispettata e riconosciuta anche dalla Federazione Internazionale che nel 2004 l’ha inserita nella sua Hall of Fame.
Pugno di ferro e guanto di velluto: Jutta Müller
Un’allenatrice Jutta Müller che coniugava rudezze e attenzioni alla persona più che all’atleta. Non si occupava solo dell’esecuzione sotto il profilo tecnico ma ne curava ogni aspetto, dalle musiche, ai costumi, fino all’acconciatura, lei che a bordo pista si presentava sempre truccata, con orecchini e pelliccia. Una che non tollerava ritmi blandi, poco impegno o disattenzioni, sgridava, ma che durante l’Avvento preparava dei dolci o suonava canti di Natale insieme ai suoi allievi. Nessuno dei quali, tranne Gaby Seyfert, è mai riuscita a darle del tu. Una donna complessa con grandissimo stile. Lo sapeva anche il suo secondo marito Bringfried Müller, nazionale di calcio della DDR e tre volte campione nazionale con il Wismut Aue, che gli chiese una mano per preparare le nuove maglie del club, di colore viola e bianco.
Classe 1984, nato a Sesto San Giovanni quando era ancora la Stalingrado d’Italia. Germanocentrico, ama la Spagna, il Sudamerica e la Mitteleuropa. Collabora con Avvenire e coordina la rivista Cafè Rimet. È autore dei volumi “C’era una volta l’Est. Storie di calcio dalla Germania orientale”, “Rivoluzionari in campo” e coautore di “Non solo Puskas” e “Quattro a tre”.