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Kozara: memoria collettiva e spazio pubblico

Inaugurato nel 1972 per commemorare le vittime dell’operazione Kozara – uno dei molteplici tentativi dell’occupatore nazifascista di schiacciare definitivamente la resistenza partigiana – il monumento alla rivoluzione situato a Mrakovica, in Bosnia ed Erzegovina, ha attraversato diverse risignificazioni nel corso del tempo, passando dal simboleggiare la fratellanza e l’unità dei popoli della federazione jugoslava all’essere uno strumento nelle mani della propaganda nazionalista serbo-bosniaca. Divenendo così l’esemplificazione di un fenomeno diffuso, con sfumature differenti, in tutti gli stati post-socialisti dell’Europa dell’est: il cambiamento di significato, talvolta radicale, dello spazio pubblico.

Si sente spesso dire che, quando emergono tendenze nazionalistiche, l’interpretazione della storia diventa un campo di battaglia. In effetti, questo è esattamente ciò che è accaduto nei Balcani dopo il 1989. La fine della guerra fredda e la caduta dei regimi comunisti hanno riaperto il vaso di Pandora dei nazionalismi, con tutto ciò che ne è conseguito. Nei Balcani occidentali si è tornati a discutere sulle responsabilità serbe per l’inizio della Prima guerra mondiale e sul ruolo dei croati nelle atrocità commesse nel corso della Seconda guerra mondiale.

Come evidenziato da Christina Koulouri nel suo libro Historical memory in Greece, 1821-1930, la storia accademica andrebbe tenuta debitamente distinta dalla storia pubblica: mentre la prima prende forma dal dibattito accademico, la seconda scaturisce direttamente dallo spazio pubblico, inteso come ogni ambito esterno al mondo accademico (musei, monumenti, opinione pubblica, libri, film, toponomastica e così via). Inutile specificare che le due narrazioni possono non coincidere. Una simile distinzione andrebbe anche fatta tra il concetto di storia – nel senso oggettivo del termine, la fredda successione di cause ed eventi accertati a livello storiografico – e memoria, che riguarda invece il lato soggettivo, emozionale e talvolta personale degli eventi storici vissuti.

Per esempio, nel 1946 la Grecia fu scossa dalla guerra civile tra il regio esercito e la guerriglia comunista. Quando nel 1949 i primi prevalsero sui secondi, pensarono bene di rimuovere dalla storia pubblica del paese ellenico ogni riferimento al ruolo svolto dai partigiani durante la Seconda guerra mondiale. Ecco che una specifica narrazione dominante interviene a modellare la memoria collettiva della nazione. Laddove invece la lotta partigiana svolse un ruolo vittorioso tanto nella liberazione che nella successiva fondazione di una nuova entità politica, la storia pubblica fu molto più concentrata sulla commemorazione e persino sulla mitizzazione del ruolo dei partigiani.

La riscrittura della storia è dunque un fenomeno diffuso, e le élite politiche dell’Europa sudorientale, lungi dal costituire un’eccezione, ne hanno fatto ampio ricorso. Già all’epoca della scissione tra Tito e Stalin nel 1948, il confronto propagandistico raggiunse l’iconoclastia con la rimozione di tutte le immagini e i busti di Stalin in Jugoslavia e di quelli di Tito in Unione Sovietica, fino ad allora ampiamente presenti. La prima versione di Uz Maršala Tita, inno partigiano per eccellenza, inizialmente recitava così: Uz Tita, Staljina, dva junačka sina (con Tito e Stalin, due figli eroici). Dopo il 1948, qualsiasi riferimento a Stalin scomparirà: Uz maršala Tita, junačkoga sina (con il maresciallo Tito, un figlio eroico).

Uz maršala Tita

Durante e dopo le guerre jugoslave degli anni Novanta, la storia pubblica è stata riscritta a tutti i livelli: monumenti, feste nazionali, commemorazioni hanno subito il controllo censorio delle nuove istituzioni nazionali, preposte a valutarne scrupolosamente la compatibilità con la retorica ufficiale emergente. Si sono così affermate memorie collettive diverse e divisive degli stessi eventi, come testimoniano le divergenze sostanziali presenti nei libri di testo dell’una o dell’altra repubblica ex-jugoslava.

Si stima che, nel corso di questa transizione, circa tremila monumenti di epoca jugoslava su seimila siano stati danneggiati o distrutti solo in Croazia. La ridenominazione di strade, piazze e viali rappresenta un altro fenomeno indicativo: a Zagabria la piazza principale, trg Maršala Tita, nel 2017 è diventata trg Republike Hrvatske, mentre a Lubiana la via principale ha cambiato nome da Titova cesta a Dunajska cesta. Sempre a Zagabria, la statua equestre di Ban Josip Jelačić, invisa alle autorità socialiste per il suo ruolo nel soffocare i moti rivoluzionari in Ungheria e a Vienna del 1848, venne rimossa dalla piazza principale con la nascita della Repubblica socialista di Croazia. Tornerà al suo posto solo nel 1990, quando le nuove istituzioni croate rivalutarono in maniera positiva la figura storica di Jelačić.

Come si evince da questi pochi esempi, lo spazio pubblico contribuisce sempre alla definizione della memoria collettiva.

Dare forma alla memoria collettiva

La Jugoslavia di Tito ha sempre attribuito un ruolo cardine alla commemorazione dei tragici eventi legati alla Seconda guerra mondiale. Ciò avvenne per svariate ragioni. Innanzitutto, la società nel suo complesso necessitava di un riconoscimento pubblico per l’enorme livello di sofferenze subite durante il conflitto bellico, dalla resistenza contro l’invasore alla guerra civile tra collaborazionisti e partigiani. Nel volume Bad Memories. Sites, symbols and narrations of the wars in the Balkans, Luisa Chiodi stima che la sovrapposizione di questi conflitti causò più di un milione di vittime tra gli jugoslavi.

La popolazione sentiva la necessità di disporre di luoghi pubblici dove commemorare questo numero impressionante di vittime. In questo senso, il fiore di Jasenovac di Bogdan Bogdanović costituisce sicuramente uno dei complessi memoriali più famosi – ed oggi più discussi – dell’ex-Jugoslavia. Il monumento sorge nei dintorni dell’omonima cittadina croata, che durante la guerra ospitò il celeberrimo campo di concentramento controllato direttamente dagli ustascia. Furono i sopravvissuti e i parenti stessi delle vittime a richiedere al governo di destinare quel luogo ad uno spazio di commemorazione pubblica.

Il fiore di Jasenovac (foto di Nicola Zordan)

Naturalmente, il regime era più che disposto a offrire un simile servizio alla popolazione, ricorrendo a questo espediente per forgiare una nuova identità jugoslava, radicata nelle sofferenze comuni dell’esperienza bellica e nella figura del “partigiano coraggioso”, che difese gli inermi civili jugoslavi dalla brutalità e dalla barbarie dei nemici, sia interni che esterni. D’altro canto, le guerre svolgono sempre un ruolo cruciale nella memoria, tanto nella sfera individuale che in quella collettiva. Con lo slogan bratstvo i jedinstvo – fratellanza e unità – il comunismo venne presentato come l’unica forza in grado di superare una volta per tutte ogni tipo di nefasta e sanguinosa divisione etnica tra gli slavi del sud.

Se la narrazione dell’esperienza bellica è stata il mito fondante della Jugoslavia socialista, non deve sorprendere che la crisi del socialismo abbia coinciso con la reinterpretazione degli avvenimenti e dell’eredità della Seconda guerra mondiale. Il vuoto ideologico e politico lasciato dal crollo del socialismo nel particolare contesto della seconda Jugoslavia ha reso possibile una rinnovata, profonda e rapida mobilitazione delle masse su basi etniche. Così facendo, gli attori politici locali hanno riaperto con coscienza di causa le ferite della guerra, proponendo una narrazione alternativa a quella dominante, sottolineando divisioni e differenze piuttosto che elementi comuni, e barattando infine l’unità della federazione in cambio di una manciata di voti.

Nell’ex Jugoslavia è possibile analizzare la trasformazione politica sopra descritta ripercorrendo la storia, le vicissitudini e talvolta la risignificazione dei monumenti e dei suoi complessi commemorativi. Lo slittamento dal socialismo al nazionalismo ha causato, oltre al revisionismo storico, un dannoso ritorno di fiamma contro l’eredità socialista e la volontà di sbarazzarsi di tutto ciò che poteva richiamare a un comune passato jugoslavo.

I monumenti socialisti furono il primo bersaglio di questa guerra iconoclasta. Gran parte di essi venne distrutta o gravemente danneggiata durante e dopo le guerre di dissoluzione della Jugoslavia. Altri sono stati semplicemente dimenticati, relegati ai margini della vita politica e pubblica. Ma una parte ancora più piccola è stata vittima dello stesso revisionismo che ha colpito la storiografia ufficiale.

Rivisitare la genealogia di questi siti risulta di particolare interesse perché, attraverso di essi, è possibile individuare il livello di politicizzazione che li accompagna e, di conseguenza, smascherare la narrazione pubblica che li sottende.

Il monumento alla rivoluzione di Kozara

Nel 1942, le forze dell’Asse avviarono una travolgente offensiva nei pressi del massiccio di Kozara, per sradicare uno dei principali contingenti partigiani della regione. Ben consapevoli del fatto che i combattenti non avevano alcuna speranza di resistere senza il sostegno della popolazione locale, i nazisti furono particolarmente brutali anche contro i civili, rei di fornire protezione ai partigiani.

Nonostante la schiacciante inferiorità numerica, i partigiani riuscirono a rompere l’accerchiamento nemico e a ritirarsi, al duro costo di circa 2.100 vittime. Sebbene i numeri ufficiali varino da fonte a fonte, si stima che più di 20mila civili persero la vita durante e dopo la battaglia, metà dei quali nel vicino campo di concentramento di Jasenovac. L’offensiva di Kozara rappresentò la battaglia più imponente della guerra all’interno dei confini dello Stato indipendente di Croazia, e sicuramente una risorsa di primaria importanza per la propaganda socialista del dopoguerra, che ne fece un film nel 1962 (link al film Kozara sottostante, sottotitolato in inglese).

Kozara, 1962, Veljko Bulajić

Alla fine del conflitto, il sito del campo di battaglia divenne oggetto di qualche visita sparuta, principalmente da parte dei testimoni diretti o dei parenti delle vittime. Spontaneamente, queste persone iniziarono a riunirsi annualmente sulle pendici del monte Kozara, per ricordare quei tragici eventi e commemorare le vittime di una simile tragedia. Si trattava della risposta istintiva dei sopravvissuti, di un modo per rendere omaggio a coloro che erano venuti a mancare.

Un simile fenomeno non passò a lungo inosservato. Ben presto le autorità locali compresero il potenziale politico di quel luogo, e iniziarono a sfruttarlo. Già dalla seconda metà degli anni Cinquanta, il raduno iniziò a essere organizzato dal Partito. Il giorno ufficiale di commemorazione venne più volte spostato per meglio adattarsi alle altre festività nazionali, come la giornata nazionale dei compagni e la giornata della ribellione nazionale in Bosnia ed Erzegovina. Fu così che tale celebrazione iniziò lentamente ad assumere una portata più ampia.

Negli anni Sessanta e Settanta la località divenne talmente nota da attirare l’attenzione del governo federale. Kozara divenne allora un parco nazionale e nel 1972 Tito stesso inaugurò il noto memoriale, in ricordo dei partigiani che in quello stesso luogo avevano perso la vita appena 30 anni addietro. Tra l’inaugurazione e la metà degli anni Ottanta, il parco nazionale divenne oggetto di una massiccia ondata di turismo interno: in uno studio sul complesso memoriale, Dženan Šahović e Dino Zulumović hanno calcolato come nel solo decennio 1972-1982 siano passati per Kozara quasi 10 milioni di visitatori.

Nel corso di questo arco temporale, la narrazione comunista pose l’accento sulla retorica del sacrificio comune, evitando qualsiasi riferimento all’origine etnica delle vittime e parlando invece dei compagni uccisi in nome di un comune ideale di fratellanza e unità. Tuttavia, con la morte del carismatico leader jugoslavo e il deterioramento della situazione politica ed economica, il socialismo perse la sua attrattiva politica e, insieme ad essa, la sua narrazione iniziò ad essere messa in discussione. Tutto ciò ha comportato l’emergere di una nuova forma di revisionismo storico che ha fatto dell’eredità della Seconda guerra mondiale non più il terreno comune per una coesistenza pacifica, ma la causa di ulteriori divisioni e conflitti.

Kozara
Monumento alla rivoluzione, Kozara (foto di Gianni Galleri)

Per quanto riguarda il monumento di Kozara, ciò ha significato un cambiamento radicale della sua funzione politica. Già nel 1992, il monumento divenne l’epicentro della campagna politica post-comunista. Ante Marković scelse la Bosnia in generale, e Kozara in particolare, come luogo ideale per rilanciare un progetto politico democratico e pan-jugoslavo. Tuttavia, con il riemergere dei nazionalismi e l’inasprirsi delle tensioni tra le varie repubbliche, la proposta di Marković era inevitabilmente destinata alla marginalità.

A seguito della guerra civile che sconvolse la Bosnia ed Erzegovina, avvenne un cambiamento ancora più radicale. Il parco di Kozara finì all’interno della zona di amministrazione della Republika Srpska, perdendo completamente il suo significato originario. Tre le ragioni specifiche alla base di questa vera e propria risignificazione.

In primo luogo, il revisionismo storico propagandato da quel luogo. Kozara è diventato nel tempo un sito di commemorazione solo per i serbi, presentati dalle autorità come le uniche vittime degli eventi del 1942. In questa retorica vittimista e nazionalista, non vi è spazio per altre etnie: i serbi ortodossi sono diventati così gli unici a soffrire della brutalità ustascia. Se le denominazioni sono indicative, il nome ufficiale della festa nazionale che annualmente si celebra a Kozara dice già tutto: festa nazionale della popolazione serba di Bosnia.

In secondo luogo, l’introduzione di elementi religiosi nel sito ha contribuito a cambiare il significato del monumento. Oggi i visitatori sono accolti da una croce ortodossa posta all’ingresso del memoriale. Anche in questo caso, la collocazione è volta a sottolineare una ben determinata affiliazione religiosa (e poi politica) del monumento. Ma in origine il memoriale di Kozara non aveva nulla a che fare con la chiesa ortodossa serba.

Si deve infine menzionare il museo della memoria, che sorge all’interno del complesso. Esso, infatti, gioca un ruolo apertamente revisionista nell’interpretazione storica degli eventi. In epoca socialista, la struttura ospitava una mostra permanente sulla battaglia di Kozara, con esempi di unità e fratellanza tra le diverse etnie. In aperta contraddizione con la più recente propaganda serba, la mostra è stata coperta e sostituita da una nuova, che solleva l’idea del tutto capziosa e infondata dell’esistenza di progetti genocidi anti-serbi portati avanti da un ampio fronte formato da nazisti, croati e musulmani. Così, dalla politica di fratellanza e unità perseguita dal socialismo di stato, il monumento di Kozara è diventato il simbolo della contrapposizione etnica e del revisionismo storico diffuso dalla propaganda nazionalista.

Risignificazione dello spazio pubblico

L’evoluzione del significato attribuito al monumento di Kozara nel corso del tempo rende lapalissiano come le élite politiche al potere siano in grado di attribuire accezioni completamente diverse allo spazio pubblico, veicolando messaggi anche opposti tra loro, a seconda della narrazione ufficiale da propagare in un determinato periodo storico. In questo senso, il complesso di Kozara è esemplificativo. Si tratta di un monumento che esteticamente è rimasto praticamente uguale a se stesso, ma il cui significato è completamente mutato. Non ha subito, come molti altri monumenti, gravi distruzioni o atti di vandalismo, ma solo perché la propaganda nazionalistica degli anni Novanta è stata in grado di convertirne il significato: da simbolo di un’identità jugoslavia comune è divenuto uno strumento fazioso della propaganda nazionalista serbo-bosniaca.

Foto di copertina: Gianni Galleri

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Nicola Zordan
Nicola Zordan

Mosso da un sincero interesse per la storia e la cultura della penisola balcanica, si è laureato in Studi Internazionali all’Università di Trento, per poi specializzarsi in Studi sull’Europa dell’Est all’Università di Bologna. Ha vissuto in Romania, Croazia e Bosnia ed Erzegovina, studiando e impegnandosi in attività di volontariato. Tra il 2021 e il 2022 ha scritto per Osservatorio Balcani Caucaso Transeuropa. Attualmente risiede in Macedonia del Nord, dove lavora presso l’ufficio di ALDA Skopje.