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La buona condotta è la sesta opera della scrittrice e traduttrice Elvira Mujčić ed è entrato a far parte delle ottanta opere proposte per il Premio Strega 2023. Il volume, uscito per i tipi della Crocetti Editore, parla della vita in un piccolo centro del Kosovo a maggioranza serba. La vita del paese viene scossa dal risultato delle elezioni. Il vincitore non è “abbastanza serbo” per Belgrado, che manda subito un nuovo primo cittadino per occuparsi delle faccende amministrative. Tuttavia la questione diventa più complicata del previsto e le cose non vanno esattamente come tutti si aspettavano. Mujčić indaga la vita di una piccola comunità, per vedere come nasce e si sviluppa il nazionalismo e quali strade intraprende. L’abbiamo raggiunta per un’intervista telefonica per approfondire alcuni aspetti de La buona condotta.
Ne La buona condotta la controparte albanese non è mai impersonificata da nessuno di concreto. È una presenza senza volto o azioni. Nel tuo Kosovo, il problema e la sua – più o meno – soluzione sono entrambi interne alla comunità serba?
In realtà no. L’idea era proprio quella di togliersi da questa dinamica: “Chi è che il problema, chi c’era prima, chi ha ragione e chi ha torto”. Il motivo per il quale ho scelto di raccontare il nazionalismo all’interno di una sola componente della popolazione è proprio questa possibilità di indagare da dove nasca l’odio o su come si sviluppi il nazionalismo, su come poi si costruisca attraverso i social network e la propaganda. Nel momento in cui noi iniziamo a rappresentare due parti, ci perdiamo un po’ nella polarizzazione delle idee e indubbiamente sfuma la possibilità di uno studio – diciamo – quasi antropologico.
Non vorrei essere fraintesa, ma a me non interessava raccontare le due parti nel loro conflitto e cercare di capire se qualcuna delle due avesse più o meno responsabilità. Volevo più che altro vedere come agisce all’interno di una comunità il pensiero nazionalista, come agisce la paura e come ci si può ribellarsi a questa dinamica. Si può essere serbi di un certo tipo? Diversi rispetto a quello che ci si aspetta? Che cosa bisogna fare per appartenere a una nazione? Bisogna sposare la causa totalmente? Ed è la ragione per cui ci sono questi due sindaci: uno è un po’ meno serbo di come dovrebbe, l’altro sembra esserlo di più.
L’idea, l’intenzione del romanzo era di togliersi dal classico racconto degli uni contro gli altri, ma cercare di stare dentro una comunità e vedere come agisce la comunità in sé. È ovviamente un aspetto positivo del genere umano quello di saper fare comunità, di saper fare gruppo, ma allo stesso tempo ne vediamo tantissimi limiti. A me interessava questo: cercare di stare in questo tipo di narrazione, in questo tipo di intenzione.
Il Kosovo del tuo romanzo è un luogo claustrofobico, dal quale è quasi impossibile fuggire e che tuttavia attrae i protagonisti e, in qualche modo, li costringe a tornare. A tuo avviso c’è la possibilità di un riscatto in loco o la fuga è l’unica soluzione?
Secondo me questa possibilità c’è. Infatti, ci sono dei personaggi che tornano e che non vedono l’ora di andarsene, perché sono abituati a vivere all’estero e quindi questo mondo di miseria, che pensavano di essersi lasciati alle spalle, ritorna appena mettono piede sul suolo. C’è anche chi è rimasto lì per tutto il tempo e pensa di non potersene andare. Ma a un certo punto del libro questa situazione inizia a invertirsi. C’è chi decide di restare, di provare a fare qualcosa nonostante le assurdità della situazione, nonostante l’ingestibilità di alcune questioni.
L’andare e il tornare – dal mio punto di vista – sono delle spinte che appartengono un po’ a tutti. Noi siamo una specie che emigra, che va, che torna, che cerca e per qualcuno che va c’è sempre qualcuno che torna.
Il Kosovo non fa differenza in questo caso. Tutti i paesi della ex Jugoslavia sono luoghi di grande esodo. C’è una migrazione molto più forte adesso che negli anni delle guerre. Sicuramente per molti, penso che la soluzione sia andare. Però non sempre. Perché ci sono sia in questo romanzo, ma anche nella realtà sia singoli che gruppi di persone che decidono di restare e fare qualcosa. Ovviamente è molto più difficile che in altri luoghi del mondo e anche se la gente che emigra è la maggioranza, non c’è un’unica sola tendenza.
La buona condotta parla anche del ruolo dei social network, sia nel contesto politico, ma anche nella vita di tutti i giorni di una comunità. La complessità sembra però non faccia parte del linguaggio di questi media. A tuo avviso c’è la possibilità di recuperarla nell’epoca dei social o è una partita persa?
Io sono un’ottimista e ho sempre l’idea che qualcosa possa succedere. Noi non viviamo nel migliore dei mondi possibili, ma neanche nel peggiore. Non credo che prima fosse tutto più facile e tutto più semplice. Le persone vivono il proprio tempo e ogni tempo è caratterizzato da alcune difficoltà. I social network sono un problema per come vengono gestiti da alcuni, però sono anche una grande opportunità. Ci sono sempre due facce diverse della stessa medaglia. Penso che in realtà ci sia bisogno di un’educazione che non è solo legata ai social network. Il nostro modo di guardare alle cose è estremamente semplificato e semplicistico. E questo lo vediamo ai pranzi di famiglia, alle riunioni di lavoro o di partito. Vediamo quanto è sempre più difficile portare avanti un discorso complicato, articolato: funzioniamo per slogan. Io quindi non darei tutta la colpa ai social network, anzi. Semplicemente sono una lente di ingrandimento di qualcosa che è innato in tutti gli aspetti della nostra vita, non soltanto quelli virtuali.
Elvira Mujčićè anche una traduttrice. Questo libro è scritto in italiano che però è la tua lingua di adozione. Secondo te sarebbe stato diverso se tu l’avessi scritto nella tua lingua madre?
Sicuramente sì, perché la mia capacità di scrivere nella mia lingua madre è abbastanza infantile. Io ho questa lingua che ovviamente per le traduzioni letterarie si presta molto bene, perché è una lingua che io comprendo, che sento. Colgo la sensibilità delle parole. Ma è una lingua che per moltissimi anni è rimasta passiva. Per cui la sentivo, la leggevo però non la parlavo, perché vivevo e vivo tuttora in Italia. Per cui questo serbo-bosniaco-croato-montenegrino – come vogliamo chiamarlo – questa lingua non è una lingua nella quale riesco a creare. Non sarei assolutamente stata in grado di scrivere nessun romanzo nella mia lingua madre.
È una condizione che di solito suscita un certo stupore perché uno dice “ma come nella tua lingua madre non riesci?”. Però la cosa che l’esilio rende possibile è anche questa: che la lingua madre a un certo punto diventi una lingua che si conosce meno della lingua di adozione. Mi è successo che venisse tradotto un mio romanzo – “Dieci prugne ai fascisti” – in bosniaco ed è stato tradotto da una traduttrice e questa cosa mi ha fatto molto divertire. Questa identità è una cosa talmente sfuggente e talmente ibrida che addirittura si torna nel proprio paese tradotti da qualcun altro.
Per ultimo vorrei farti una domanda un po’ che esula dal tuo romanzo, ma tratta della terra di cui hai parlato. Il Kosovo secondo te che cosa diventerà in futuro? Che cosa bisogna immaginarci?
Ovviamente il futuro del Kosovo non dipende dal Kosovo e non dipende solo e unicamente dalla Serbia. Dipende da una comunità internazionale e in questi giorni ci sono una serie di incontri e di accordi tra la Serbia e il Kosovo. Credo che dipenda molto da quali saranno le scelte di una geopolitica un po’ più vasta rispetto ai soli due attori principali. Mi sembra che si vada nella direzione di cercare di far riconoscere alla Serbia l’indipendenza del Kosovo. Bisognerà provare a farlo in un modo che sia accettabile dalla Serbia, perché poi adesso c’è una situazione abbastanza paradossale. La vita politica della Serbia è stata, soprattutto quella nazionalista, incentrata sulla questione del Kosovo negli ultimi 30 anni. Molto più della Bosnia è stato il Kosovo il baluardo dell’identità. E adesso sembra inevitabile il riconoscimento. Come si fa a dire alla gente: “Va beh vi abbiamo ossessionato per 30 anni, ma adesso lo riconosciamo”. Bisogna trovare una formula, perché ovviamente se la Serbia vuole fare dei passi verso l’Europa, e in generale verso questo blocco del mondo, credo che che dovrà trovare un modo per riconoscere il Kosovo.
E questo, almeno visto da fuori, sembra una sorta di stabilizzazione della zona. Dal momento in cui non c’è più il rischio di un continuo riaccendersi delle conflittualità, dal momento in cui si pone un riconoscimento e quindi si rispetta anche un certo paese, quei territori riusciranno a essere in qualche modo un po’ più protetti e pacificati. Non ci saranno più le cose ridicole che ogni tanto arrivano all’opinione pubblica, proprio perché sono talmente assurde – come può essere la questione delle targhe – che i media si ravvivano con le “storie balcaniche”. Credo. Però ripeto: io sono un’ottimista, per cui non so se la mia visione del mondo abbia poi una qualche attinenza con il reale.
La buona condotta, Elvira Mujčić, Crocetti Editore, 2023
Autore dei libri “Questo è il mio posto” e “Curva Est” - di cui anima l’omonima pagina Facebook - (Urbone Publishing), "Predrag difende Sarajevo" (Garrincha edizioni) e "Balkan Football Club (Bottega Errante Edizioni), e dei podcast “Lokomotiv” e “Conference Call”. Fra le sue collaborazioni passate e presenti SportPeople, L’Ultimo Uomo, QuattroTreTre e Linea Mediana. Da settembre 2019 a dicembre 2021 ha coordinato la redazione sportiva di East Journal.