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Cosa unisce la guerra di Valona del 1920 tra gli insorti albanesi e i soldati italiani con la rivolta dei bersaglieri di Ancona nel giugno dello stesso anno?Un libro di Luigi Balsamini e Marco Rossi ripercorre la vicenda.
È l’estate del 1920. Quella macelleria umana comunemente chiamata Prima guerra mondiale è ufficialmente terminata da più di un anno e mezzo, eppure le scarpe chiodate continuano a solcare i campi di battaglia di mezza Europa: dalla Russia alla Turchia, dai Balcani al nord Africa, i cannoni non tacciono.
L’Adriatico non fa differenza. Sulla sua sponda orientale i ribelli albanesi assaltano i capisaldi italiani lungo la costa nella cosiddetta guerra di Valona, desiderosi di riunificare il tanto agognato stato schipetaro e gettare a mare le ultime, disperate, ambizioni colonialiste italiane. Contemporaneamente, sulla sponda occidentale, i bersaglieri di Ancona si ammutinano proprio contro quel “loro” stato che vorrebbe mandarli in Albania a reprimere gli insorti e mantenere i possedimenti d’oltremare. Sulle barricate degli uni e degli altri, suggestivamente, sventolano bandiere dello stesso colore: il rosso e il nero della nascente nazione albanese in un caso, il nero e il rosso della rivoluzione anarchica e socialista nell’altro. Un’incredibile storia fatta di anticolonialismo, antimilitarismo e un pizzico di internazionalismo.
Il risentimento anti-italiano che sfociò nella guerra di Valona non montò all’improvviso. A onor del vero, quando nel 1914 i primi soldati di un’Italia ancora neutrale misero piede per la prima volta a Valona, in una giovanissima Albania sconvolta dai tumulti sociali e dal risentimento contro l’appuntato principe di Wied, l’opposizione interna fu piuttosto contenuta: il pericolo più impellente sembrava infatti provenire più dalle mire espansionistiche delle vicine Serbia e Grecia piuttosto che dall’Italia, che si impegnava invece a contrastarle. Già dai tempi della prima guerra balcanica, infatti, serbi e greci erano penetrati in territorio albanese senza più smobilitare le loro forze, nemmeno a seguito della nascita dell’Albania nel 1912.
Anche dopo l’entrata in guerra e l’invio di ingenti forze in territorio albanese per fronteggiare l’Impero austro-ungarico nei Balcani ed assicurarsi così la supremazia marittima, il regno d’Italia continuò a mandare messaggi rassicuranti ai “fratelli albanesi” sul suo intento di mantenere “l’indipendenza del popolo albanese, la cui spiccata e antica nazionalità fu invano, per scopi interessati, discussa e negata” (Luigi Balsamini, Marco Rossi, I ribelli dell’Adriatico, 2021). Dello stesso tenore il proclama di Argirocastro, siglato dal ministro degli esteri Sonnino nel 1917, con il quale “con l’amicizia e la protezione dell’Italia” si assicurava l’indipendenza dell’Albania.
Se per qualche tempo questa retorica riuscì a mantenere tendenzialmente favorevole l’opinione degli albanesi riguardo al protettorato, la maschera dell’imperialismo italiano cadde e rivelò le sue vere intenzioni con la pubblicazione da parte dei bolscevichi delle clausole segrete del patto di Londra del 1915, che sancivano i termini per l’ingresso in guerra del regno d’Italia. Secondo quanto pattuito, gli Alleati si impegnavano a garantire all’Italia l’annessione di Valona, dell’antistante isola di Saseno e di una porzione di territorio attiguo non meglio specificata, oltre che la spartizione del neo-stato tra Serbia, Montenegro e Grecia. Quest’ultima, tra l’altro, siglò un ulteriore accordo segreto con l’Italia nel giugno del 1919 proprio per la spartizione dell’Albania. Con buona pace del proclama di Argirocastro e delle dichiarazioni d’intenti degli anni precedenti.
Fu allora che la percezione albanese nei confronti degli italiani iniziò a mutare. Nel dicembre del 1918 il Congresso di Durazzo rigettò le rivendicazioni di tutte le potenze limitrofe sulle porzioni di territorio assegnate all’Albania, così come sancito dal trattato di Londra del 1913, e proclamò un governo provvisorio alternativo a quello ufficiale sotto il protettorato italiano. L’intransigenza degli italiani riguardo alle proposte avanzate dal governo provvisorio non fece altro che radicalizzare la posizione degli albanesi, che alla conferenza di Parigi dichiararono di non volersi sottomettere “all’umiliazione di un mandato con il quale si proponeva di togliergli la sovranità e l’indipendenza già riconosciute nel 1913” (Balsamini, op. cit.).
A inizio 1920 fu convocata a Lushja l’assemblea nazionale albanese, che sconfessò definitivamente il governo fantoccio di Durazzo e ne costituì uno nuovo a Tirana, appoggiato dalla maggior parte della popolazione. L’assemblea pretese il ritiro di tutte le milizie straniere presenti sul territorio albanese, definite truppe d’occupazione, e rigettò al mittente l’imposizione di un protettorato, sotto qualsiasi spoglia. Ma il governo italiano, sopravvalutando la propria posizione e sottostimando le capacità organizzative degli albanesi, mantenne inalterate le proprie rivendicazioni, incluso il sostegno all’impopolare governo di Durazzo. La guerra di Valona era alle porte. Senza rendersene conto, il regno d’Italia navigava verso la tempesta perfetta.
La guerra di Valona
Il 3 giugno il neo costituito Comitato di difesa nazionale, già forte di alcune migliaia di uomini armati, presentò un ultimatum alle truppe d’occupazione italiane, chiedendo di abbandonare le loro posizioni e di lasciare l’Albania entro il 5 giugno. Il comunicato non potrebbe essere più esplicito:
Da cinque anni Valona, culla dell’indipendenza albanese, è governata come una delle più basse colonie; oltre la lingua, l’amministrazione e la nostra bandiera ci furono negate con le condizioni più severe peggio ancora che durante il regime turco, allorquando dominava in Albania. Però la sedicente libera Italia senza vergognarsi ha provocato la spartizione dell’Albania a mezzo di trattati segreti, venendo meno al suo onore per aver annullato un trattato già da essa firmato a Londra nel 1913 […]. Ed è per questo che il popolo albanese, il quale ritiene che la spartizione dell’Albania è opera dell’Italia, che col suo programma imperialistico cerca di tenersi Valona come una colonia, […] non potendo più tollerare di vedersi portare alla vendita, come il bestiame, al mercato dell’Europa per soddisfare le brame italo-greco-serbe, ha deciso di impugnare le armi per chiedere all’Italia il passaggio dell’amministrazione di Valona, Tepelenë e Chimara, paesi questi che dovranno essere rimessi al più presto al governo nazionale di Tirana.
Ultimatum del comitato di difesa nazionale albanese. (Balsamini, op. cit.)
Non ricevendo risposta alcuna, alla scadenza dell’ultimatum gli albanesi lanciarono un’offensiva su larga scala contro le posizioni italiane: la guerra di Valona era iniziata. Tra i 5mila e i 6mila insorti cinsero d’assedio la città portuale, difesa unicamente da 4-5mila effettivi. Al cannoneggiamento della città – effettuato da pezzi d’artiglieria sottratti agli italiani stessi – rispose il bombardamento della marina militare italiana, che non fu però in grado di interrompere i continui assalti nemici. L’attacco del 9 giugno, in particolare, venne respinto a stento e solo scontando gravi perdite. Il 23 dello stesso mese un nuovo attacco, forte di 4mila uomini, non riuscì a penetrare le linee di difesa italiane solo per il simultaneo cannoneggiamento effettuato dalla regia marina e per il sostegno aereo di velivoli accorsi in tutta fretta dalla Puglia.
Dopo cinque anni di guerra, con il morale a terra, la mancanza di adeguate truppe di rincalzo, di equipaggiamenti idonei e con la malaria a falcidiarne le fila, la misura era decisamente colma. Ed esplose con tutto il suo portato rivoluzionario al di là dell’Adriatico, ad Ancona.
La rivolta dei bersaglieri di Ancona
La situazione socio-politica nell’Italia del dopoguerra era catastrofica. Quattro anni di guerra avevano depauperato le casse statali e fatto crollare il tenore di vita delle classi popolari. Il reddito nazionale netto rimase inferiore al livello prebellico fino al 1923, mentre il debito pubblico, l’inflazione e il deprezzamento della lira piegavano il potere d’acquisto degli italiani e impedivano la ripresa economica. In questo contesto critico maturarono le condizioni per quello che passò alla storia come biennio rosso: un’ondata senza precedenti di mobilitazioni operaie e contadine che, forti dell’azione propagandistica anarchica e socialista e sulla scia della rivoluzione d’ottobre in Russia, sconvolsero lo stivale tra il 1919 e il 1920.
In questo contesto pre-rivoluzionario, composto da scontri quotidiani tra manifestanti e forza pubblica, da occupazioni di fabbriche e latifondi, il governo spinse per mantenere forzatamente l’occupazione militare dell’Albania e stanziare fondi per sostenere la guerra di Valona. Ai primi di giugno truppe di rinforzo come la brigata Piacenza (1.500 effettivi) erano già giunte a destinazione, ma non senza diverse asperità dovute al contesto politico di quegli anni: i marittimi di Taranto, venuti a conoscenza dello scopo della spedizione, riuscirono a ritardare la partenza del piroscafo Calvi, carico di soldati e armamenti, per qualche giorno. Allo stesso modo il 10 giugno a Trieste un centinaio di arditi, spalleggiati da lavoratori e rivoluzionari, disobbedirono all’ordine di partenza e, rivolgendo le armi contro i propri ufficiali, diedero vita ad un’insurrezione armata che venne difficilmente domata solo con l’intervento di guardie regie ed esercito. (Balsamini, op. cit.)
Ma è solo ad Ancona che la situazione sfuggì completamente di mano. Il 24 giugno alla caserma Villarey giunge l’ordine: l’undicesimo reggimento bersaglieri deve partire al più presto per l’Albania. Lo sconforto serpeggia tra la truppa: dopo anni di mobilitazione, con la conclusione della Prima guerra mondiale ci si aspettava di fare presto ritorno alle proprie case, non certo di andare a morire per il regno d’Italia in suolo albanese. L’indomani alcuni commilitoni contattano la locale camera del lavoro, spiegando le loro intenzioni di non imbarcarsi. Di loro spontanea iniziativa quella notte stessa passano all’azione, disarmando e imprigionando gli ufficiali di stanza, armandosi e barricandosi all’interno della caserma. È l’inizio della rivolta dei bersaglieri di Ancona.
L’indomani la notizia dell’ammutinamento e delle ragioni dei bersaglieri inizia a circolare ad Ancona. I cittadini solidarizzano immediatamente con la loro causa, alcuni entrano in caserma e sottraggono munizioni e armamenti. A qualche ora di distanza, la caserma è cinta d’assedio dall’esercito, pezzi d’artiglieria dalle alture circostanti puntano direttamente sul battaglione di insubordinati. Ma anche i soldati chiamati a sedare la rivolta simpatizzano con la causa dei bersaglieri: il genio militare, chiamato a innalzare barricate nei dintorni della caserma, rifiuta di eseguire l’ordine, le navi della marina ancorate al porto vengono sabotate e gli artiglieri si dimostrano particolarmente irrequieti. (ibidem) Sono in queste circostanze che si verificano i primi scontri a fuoco tra carabinieri e ammutinati, causando alcune vittime.
Nel frattempo da Roma viene fatto partire un treno carico di guardie regie per sedare la ribellione anconetana, che da sedizione militare prende sempre più le forme di una rivolta di popolo. I ferrovieri di Terni però, compresa la provenienza e la destinazione del convoglio, rimuovono la locomotiva dai vagoni e si rifiutano di far procedere il treno. Poco oltre, a Falconara Marittima, lo stesso raggruppamento è vittima di un’imboscata a colpi d’arma da fuoco che causa diverse perdite. Anche gli artiglieri giunti via mare da Pesaro sono accolti a ferro e fuoco dai quartieri popolari adiacenti al porto.
Se infatti l’ammutinamento rientra nel giro di un giorno assicurando l’impunità per i rivoltosi e la garanzia di non fare più partire il reggimento per l’Albania, sono ora i quartieri popolari di Ancona a sollevarsi. Le pattuglie isolate vengono disarmate dalla popolazione, barricate sono erette ovunque e vengono presidiate da quelle stesse armi e munizioni sottratte da Villarey. Un assalto di guardie regie a Borgo Pio per rimuovere gli sbarramenti popolari viene respinto a colpi di mitragliatrice, mentre la sommossa si estende a tutto il circondario: a Jesi il Comitato d’agitazione assume tutti i poteri e inizia l’arruolamento per “l’esercito rosso”. (Balsamini, op. cit.) Contemporaneamente i lavoratori di tutti i settori proclamano spontaneamente lo sciopero.
Il governo, già alle prese con la guerra di Valona e preoccupato per la propagazione della rivolta armata, opta per il ricorso alle maniere forti. Il 27 giugno la regia marina, che dall’altra parte dell’Adriatico stava bersagliando le posizioni degli insorti albanesi, bombarda Ancona, città del regno, e i rivoltosi anconetani. Militari provenienti da tutto il circondario entrano in città e, non senza combattimenti e asperità, sedano l’insurrezione. Nel giro di qualche giorno anche gli ultimi focolai di resistenza sono estinti. Iniziano la repressione, le incarcerazioni e i processi per sedizione. Ma nonostante la soppressione violenta del moto rivoluzionario, una cosa è ormai chiara al governo: l’occupazione militare dell’Albania e la guerra di Valona, fortemente invise tanto ai soldati quanto al proletariato italiano, dovevano cessare.
Fine (momentanea) del colonialismo italiano in Albania
Forzato sia dalla situazione sul campo che da quella interna al paese, il 5 agosto 1920 il V governo Giolitti sigla il protocollo di Tirana con la controparte albanese, sancendo il ritiro delle truppe, il riconoscimento dell’integrità territoriale dell’Albania e la sua piena sovranità. Gli italiani mantengono il solo possesso dell’isola di Saseno, strategica per il controllo del canale d’Otranto. Dopo cinque anni di guerra, più di due miliardi di lire spese, circa 240mila effettivi coinvolti, 15mila ammalati di malaria e un difficilmente quantificabile costo in termini di vite umane e materiale bellico persi, “l’imperialismo straccione” era costretto alla ritirata. Era la conclusione della guerra di Valona e la fine, momentanea, dell’occupazione militare dell’Albania.
Mosso da un sincero interesse per la storia e la cultura della penisola balcanica, si è laureato in Studi Internazionali all’Università di Trento, per poi specializzarsi in Studi sull’Europa dell’Est all’Università di Bologna. Ha vissuto in Romania, Croazia e Bosnia ed Erzegovina, studiando e impegnandosi in attività di volontariato. Tra il 2021 e il 2022 ha scritto per Osservatorio Balcani Caucaso Transeuropa. Attualmente risiede in Macedonia del Nord, dove lavora presso l’ufficio di ALDA Skopje.