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di Andrea Caira e Arianna Cavigioli, autori di “La resistenza oltre le armi” (Mimesis, 2021)
Nell’introduzione alla versione italiana di Breviario mediterraneo di Predrag Matvejević, Claudio Magris elogia la capacità del pensatore di Mostar nel “difendere la soggettività senza abdicare all’universalità”. Quello che potrebbe sembrare un consiglio propedeutico per interpretare la complessità del pensiero di Matvejević, ha in realtà il sapore di un’esortazione ad abbracciare una rinnovata e più ampia conoscenza. Proprio Matvejević, nel corso dell’opera, sembra voler stimolare le capacità euristiche contenute nelle interazioni umane insinuando costantemente dubbi e riflessioni nel lettore. “Che cos’è l’archivio storico linguistico?”, appare domandarsi, “come si forma? Come si differenzia? Come si tramanda?”.
Lo scrittore di Mostar fa notare quanto sia difficile fissare un elemento naturale come il mare all’interno di un preciso cromatismo: “lo definiscono solitamente azzurro, ma non lo è sempre”, scrive l’accademico, “sotto le nuvole è grigio, nell’oscurità nero, al sorgere e al tramontare del sole dorato. […] A Omero pareva che il mare di notte avesse il colore del vino denso delle isole”. Se dunque risulta essere un’ardua impresa quella di descrivere ciò che teoricamente dovrebbe essere oggettivo, quasi impossibile è rispondere adeguatamente a tale pretesa per ciò che concerne gli eventi interpretabili e soggettivi. Il rischio maggiore in cui si potrebbe incorrere non prestando la giusta attenzione alle varie espressioni della natura umana è quello di finire nelle sabbie mobili del semplicismo e, dunque, del riduzionismo. Pertanto, lo sguardo di Matvejević non sembra essere troppo distante da quello di March Bloch quando richiamava i giovani storici a rompere con una postura “intellettuale uniforme” per ricollegare gli eventi e i personaggi in un tempo determinato, immergendoli “nell’atmosfera mentale del loro tempo”. Insomma, l’invito è chiaro: seguire quante più tracce lasciate dal passato per ricostruire gli avvenimenti.
Se risulta essere un’ardua impresa quella di descrivere ciò che teoricamente dovrebbe essere oggettivo, quasi impossibile è rispondere adeguatamente a tale pretesa per ciò che concerne gli eventi interpretabili e soggettivi.
L’assedio di Sarajevo
L’assedio di Sarajevo rappresenta ancora oggi un oggetto di forti discussioni, studi e ricerche in sede storiografica. È probabilmente uno degli eventi maggiormente polisemici dell’epoca contemporanea, la cui interpretazione può mutare in relazione alle fonti utilizzate. Tra le varie eredità della guerra, infatti, c’è quella di aver generato una nazione che sfugge agilmente a ogni dovere di memoria, e che ricostruisce una narrazione storica sul recente passato partendo dalle risignificazioni delle comunità locali. Allo stesso tempo, prendendo sempre a prestito le parole di Matvejević, l’assedio della capitale è contemporaneamente sia un dramma collettivo – di una città, di una popolazione, di una specifica comunità e della diplomazia internazionale -, che un trauma soggettivo – come uomo, donna, fratello, figlia, lavoratore, anziano. Ora, sebbene non sia raro ascoltare termini come memoria collettiva, memoria locale, o memoria di gruppo, è bene tener presente che, ci ricorda lo storico orale Alessandro Portelli, “il processo delle memoria e l’atto di ricordare sono sempre individuali; gli individui, non i gruppi, ricordano”.
L’assedio della capitale è contemporaneamente sia un dramma collettivo – di una città, di una popolazione, di una specifica comunità e della diplomazia internazionale -, che un trauma soggettivo – come uomo, donna, fratello, figlia, lavoratore, anziano.
Pertanto, se l’assedio di Sarajevo nella sua complessità rimane un dramma che ancora oggi i cittadini della capitale custodiscono come un fardello, si peccherebbe di riduzionismo tentando di incasellare quei quattro anni e mezzo di guerra in un immaginario generalista e oleografico dei conflitti. Orbene, il senso di osservare le increspature della macro-storia per comprendere meglio l’intreccio di questa con la vita personale dei cittadini non è un gioco di semplice retorica, ma un esercizio storiografico fondamentale per far emergere nuovi tasselli potenzialmente trascurati. Pertanto, allocare la narrazione dell’assedio unicamente su un piano di ricostruzione fattuale degli eventi sarebbe tanto corretto quanto parziale. Perché se da una parte è inconfutabile e necessario ricostruire uno spazio urbano dilaniato dalla guerra, dalla fame e dalla paura, dall’altra è opportuno ricordare che la cittadinanza di Sarajevo rispose contrapponendo al primitivismo nazionalista l’inclusività della cultura. Davanti alla perseveranza con la quale le truppe cetniche bombardarono la capitale, gli artisti, gli scrittori, i cantanti, i registi e i performer sentirono la necessità di (ri)affermare il proprio corpo attraverso le espressioni culturali. Ritornare ad essere soggetti attivi e capaci di influire sulle dinamiche belliche e non meri assediati agiti dal contesto. Comprendere il ruolo della resistenza spirituale e intellettuale di Sarajevo diventa così fondamentale per allargare la visuale sul campo storico e connettere meglio i rapporti individuali e collettivi.
La cultura: uno sguardo generale
Come riporta la piattaforma multimediale del collettivo FAMA (Federal Agriculture and Marketing Authority) durante l’assedio furono organizzati 3.102 eventi culturali, 177 mostre nelle sei gallerie cittadine, 48 concerti della sola filarmonica di Sarajevo, 263 libri pubblicati, 156 tra documentari e cortometraggi e 182 premiere a teatro, con più di 2.000 spettacoli visti da più di mezzo milione di spettatori. Grazie a questi espedienti i cittadini riuscirono a colmare la mancanza dell’elettricità con la fantasia, cercando, attraverso “l’arte dell’arrangiarsi”, un barlume di normalità. Indubbiamente uno degli obiettivi era anche quello di instaurare un dialogo con il mondo circostante attraverso linguaggi alternativi, con il duplice scopo divulgativo-aggregativo.
Gli esempi che si potrebbero riportare sono tanti e di diversa natura ed entità. Indubbiamente merita di essere menzionato il lavoro del docente dell’Accademia di Arti Sceniche di Sarajevo Haris Pašović che, nell’inverno del 1993, alla guida di un gruppo di arditi del MESS (Festival Internazionale del Teatro) programmò il primo Sarajevo film festival (Sff), ovvero la versione embrionale dell’attuale festival Sarajevo Film Festival (SFF). Per quell’occasione venne scelto il titolo Beyond the end of the world, in omaggio all’opera di Wim Wenders. I dieci giorni del primo festival riscossero un enorme successo tra la cittadinanza. Circa 20.000 persone, secondo le stesse stime offerte da Pašović, presenziarono all’evento, gustando, per quanto fosse possibile in un contesto bellico, le proiezioni di 150 pellicole cinematografiche. Proprio in quell’occasione venne inaugurato l’Apollo War Cinema,polo multifunzionale attivo per tutto il periodo bellico. Sebbene per molto tempo l’Apollo War Cinema rimase il principale centro cinematografico metropolitano, non fu il solo. Il Kino Prvi Maj, ad esempio, ricoprì un ruolo altrettanto cruciale nelle vite della popolazione. Costruito nel 1928 come spazio di ricreazione per gli operai di Sarajevo e trasformato nel 1946 in cinema, nel 1992 accolse anche la celebre Marcia di 500 organizzata da Don Albino Bizzotto (Mir sada).
Durante l’assedio furono organizzati 3.102 eventi culturali, 177 mostre nelle sei gallerie cittadine, 48 concerti della sola filarmonica di Sarajevo, 263 libri pubblicati, 156 tra documentari e cortometraggi e 182 premiere a teatro, con più di 2.000 spettacoli visti da più di mezzo milione di spettatori.
Sul versante radiofonico non si può non ricordare l’iniziativa promossa dal giurista e docente universitario Zdrawko Grebo. Grebo diede vita a una stazione radio per preservare la cultura urbana della città. Radio Zid era politicamente schierata contro ogni forma di nazionalismo, compreso quello di matrice bosniaca. Il 14 gennaio 1995, grazie al sostegno di artisti stranieri, la Radio organizzò Rok pod Opsadom (Rock sotto assedio), un festival che, nonostante i problemi tecnici e il coprifuoco, rappresentò un momento di catarsi collettiva. Zid, letteralmente “muro”, alludeva alla Berlino della Guerra Fredda e alla paradigmatica utopia di libertà che si irradiò in seguito alla sua caduta. L’iconico logo della radio, ispirato a un dettaglio del dipinto di Pieter Bruegel Proverbi Olandesi (1559), presentava una figura umana impegnata a sbattere la testa contro il muro, un ostacolo che avrebbe potuto aggirare facilmente, ma che preferiva affrontare.
Il teatro
Tra i molteplici semi culturali piantati durante l’assedio, probabilmente l’albero più fiorente fu il teatro. Sarajevo ha sempre avuto una solerte cura della sua tradizione teatrale e ha saputo evolvere i propri linguaggi e approcci performativi nel corso della storia, specialmente con il supporto del direttore Jurislav Korenić, che nel cuore del Novecento contribuì a trasformare la capitale bosniaca in uno dei maggiori centri teatrali della Jugoslavia. Inoltre, il teatro, essendo catartico e sociale per sua natura, possiede uno straordinario potere lenitivo e aggregativo in condizioni di particolare disagio psichico. Forse è per questo che nonostante la capitale bosniaca fosse circondata e bombardata giornalmente dalle truppe nemiche, ospitò più di duemila performance – 1.112 al Kamerni Teatar 55, 526 dalla compagnia del Sartr Teatar, 336 al Pozorište Mladih (Teatro dei Giovani) e 183 al Narodno pozorište Sarajevo (Teatro Nazionale di Sarajevo).
Il repertorio teatrale spaziava dalle classiche tragedie e commedie fino ai monologhi; dai musical, fino agli spettacoli di marionette. Senza tralasciare la prosa e le poesie. Data la voluttà dei cecchini di affievolire la resistenza dei sarajevesi e ogni spazio che contribuiva ad alimentarla, furono presi di mira diversi edifici teatrali. Dunque, l’inagibilità di alcuni teatri, sommata al rischio di un attacco nemico e alla necessità di fronteggiare quanto possibile l’ostica mobilità urbana, condusse attori e registi a organizzare spettacoli in cantine, corridoi dei palazzi, negli ospedali, sul confine e persino per strada. Uno dei teatri attivi durante la guerra, il Sartr Teatar, fu fondato nel maggio del 1992, proprio in pieno assedio, su iniziativa dei due registi Dubravko Bibanović e Gradimir Gojer, l’ingegnere Đorđe Mačkić e l’autore Safet Plakal. Anche conosciuto come War Theatre, era un’istituzione indipendente e senza una sede fissa; le sue performance venivano ospitate da altri spazi come il Pozorište Mladih e il Kamerni Teatar 55, ma soprattutto nelle cantine di abitazioni e nelle sale d’attesa degli ospedali.
Alla non convenzionalità dei luoghi di debutto si aggiungevano numerosi altri dettagli straordinari. Il biglietto d’ingresso, ad esempio, si pagava, nella maggior parte dei casi, con una candela, subito utilizzata dagli organizzatori per illuminare il palco in assenza di luce elettrica. Mancavano anche materiali per creare costumi e set di scena, così, sovente i cittadini donavano vecchi oggetti e vestiti procurati in cantine domestiche o magazzini abbandonati. Il pubblico d’altro canto, non si fece inibire dinanzi alle debolezze tecniche, tant’è che mai una performance sotto assedio fu can- cancellata o rimandata: le sale sempre piene erano probabilmente la testimonianza più vivida del dinamismo resistenzial-culturale. In questo senso fu emblematica la reazione dell’audience all’attacco sferrato al Narodno pozorište Sarajevo (Teatro Nazionale di Sarajevo) durante la prima di Tvrđava (Fortezza), diretto e riadattato dal regista e direttore Tahir Nikšić nel 1993. Dato il coprifuoco serale la prima della performance sarebbe dovuta iniziare alle 13.00, ma venti minuti prima una bufera di mortai si abbatté nei pressi del teatro. Per fortuna non ci furono feriti e i duecento spettatori, anziché allontanarsi dall’edificio, si rifugiarono al suo interno, dove la performance iniziò con soli venti minuti di ritardo. Quello che accadde al Narodno pozorište Sarajevo fu la conferma della brama intellettuale da parte dei sarajevesi, ma anche la prova dell’impossibilità di sponsorizzare un evento culturale attraverso i canali informativi classici. Da quel momento le performance furono pubblicizzate tramite il passa parola.
Alla non convenzionalità dei luoghi di debutto si aggiungevano numerosi altri dettagli straordinari. Il biglietto d’ingresso, ad esempio, si pagava, nella maggior parte dei casi, con una candela, subito utilizzata dagli organizzatori per illuminare il palco in assenza di luce elettrica.
Alla tenacia del pubblico corrispondeva un impegno considerevole da parte dei lavoratori del teatro. Per preparare gli spettacoli registi, attori e scenografi vivevano letteralmente sul palco, dormivano a terra e mettevano in comune quel poco di nutrimento che riuscivano a racimolare. Spesso le prove venivano svolte da seduti perché i lavoratori erano così deperiti da non riuscire a reggersi sulle proprie gambe. Era come se l’attività incessante di attori, registi, scenografi e l’interesse degli spettatori fossero direttamente proporzionale all’aggravarsi delle condizioni d’assedio. Per molti artisti il teatro era una seconda casa, e l’ultimo barlume di quella fratellanza jugoslava sembrava sopravvivere proprio all’interno delle compagnie stesse, in cui distinzioni etniche e di genere non esistevano. Per certi versi la produzione scenica di Sarajevo sotto assedio potrebbe essere ricondotta alla tradizione teatrale partigiana. Entrambi, armi di resistenza contro il potere reazionario, puntarono a maturare nello spettatore la necessità di uno spirito egualitario, senza differenze etniche e di classe. In effetti il grande drammaturgo francese Antonin Artaud credeva nel teatro come un’immensa forza distruttrice e rigeneratrice, in grado di sconvolgere gli ordini prestabiliti, distruggere le convinzioni e le false credenze degli uomini, di far crollare le maschere etniche e di ceto. Come dichiarò il regista, nonché professore dell’Accademia delle Arti Sceniche di Sarajevo Dino Mustafić, il teatro sotto assedio non accennò mai a rivendicazioni romantiche di impronta nazionalista, al contrario sostenne un repertorio teatrale il più internazionale e cosmopolita possibile.
Il teatro, come nell’Antica Grecia, era diventato uno dei centri nevralgici della vita sociale, assolvendo un ruolo, oltre che ricreativo e politico in senso lato, d’aggregazione. La funzione della tragedia greca era proprio quella di incitare la catarsi negli spettatori tramite l’identificazione con i personaggi scenici, con l’obiettivo finale di esorcizzare i propri mali. Il teatro a Sarajevo fu proprio questo: una medicina che permetteva sia di soffrire che di guarire collettivamente. Fu proprio la connessione tra alcuni canovacci, prodotti o riadattati sotto assedio, e la realtà quotidiana dei sarajevesi a produrre un’organicità tra l’istituzione e gli spettatori. Il confine tra il dramma dell’assedio e gli spettacoli teatrali era così labile che in alcuni casi si potrebbe parlare di Meta-Teatro. Un esempio fu la rappresentazione di Zid (Il muro), ripreso dall’omonimo romanzo di Jean-Paul Sartre incentrato sulle atrocità della guerra civile spagnola, evidenziava una sorta d’analogia tra il conflitto iberico e la guerra in Bosnia. Il regista Dino Mustafić riadattò il romanzo filosofico in uno spettacolo teatrale che fu presentato al Kamerni Teatar 55. Il personaggio principale dell’omonimo romanzo filosofico si era imbattuto in una trappola dei franchisti, che lo avevano obbligato a scegliere tra la sua vita e la rivelazione del nascondiglio di un amico rivoluzionario. Non poteva esistere un parallelismo più adatto con la situazione dell’assedio per calare il tipico dubbio esistenzialista di stampo sartriano, che antepone l’unicità dell’esistenza alle scelte sociali, politiche e culturali. Il set che preparò Mustafić si avvaleva della presenza ingombrante, ma dinamica, di un muro in legno, gentilmente offerto dalle società funebri Pokop e Bakije – le uniche a disporre di materiale ligneo in quel periodo. Per tutta la durata dello spettacolo la parete in legno veniva cambiata di posizione, evitando così di generare un senso di inesorabile oppressione nel pubblico ma, anzi, suggerendo la natura transitoria della prigionia. Come ebbe a dire anche la scrittrice e regista Susan Sontag – giunta più volte nella capitale bosniaca per mettere in scena un riadattamento del dramma beckettiano Aspettando Godot – in un’intervista concessa a John F. Burns del New York Times, “Sarajevo è la Guerra civile spagnola del nostro tempo, ma la differenza nella risposta è sorprendente”.