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“Libera” di Lea Ypi. Ingenuità e ribaltamento

Libera. Diventare grandi alla fine della storia della scrittrice albanese Lea Ypi (Feltrinelli, 2022) è un romanzo al tempo stesso paradigmatico e sorprendente. Paradigmatico, perché in effetti è un libro-testimonianza, quasi una “autobiografia in forma oggettiva”, che rassomiglia a tanti altri tentativi di raccontare da un punto di vista politico-personale lo snodo risolutivo del 1989-1991: il crollo del Muro di Berlino, la caduta del socialismo reale nell’est europeo e nei Balcani, l’ambigua fine di un mondo.

A livello sociale e culturale, quella fine significava anche la possibilità, da parte di molti (ma soprattutto di molte), di prendere parola, di esplorare diversamente dai canoni ufficiali una quotidianità che, mentre si dischiudeva verso incerti orizzonti di futuro, si scopriva anche pesantemente incrostata da un passato di difficile interpretazione.

Pensiamo, ovviamente, al celeberrimo Tempo di seconda mano (e, in generale, a tutta la produzione) di Svjatlana Aleksievič. Ma anche a un’altra scrittrice balcanica, la croata Slavenka Drakulić, che nel suo Come sopravvivere al comunismo (riuscendo persino a ridere) affermava che, nel riannodare i fili del crollo dei regimi socialisti, non solo il personale ma il banale fosse politico.

Oggetti, lacerti di memoria, frasi espresse a mezza bocca, vaghe emozioni che non si fanno storia: nella perdita di punti di riferimento, ogni cosa si sfalda del proprio senso eppure proprio per questo ogni cosa acquisisce senso, in potenza, perché costituisce, forse, un indizio, assume un nuovo valore simbolico (ancorché questo valore resti il più delle volte muto). “Vivere sotto il comunismo significava vivere sotto un diverso principio di realtà”, scrive Drakulić.

Ma, pur avventurandosi in un solco abbastanza riconoscibile, Libera è un romanzo, dicevamo, anche sorprendente.

La storia di “Libera”

Lo stile è asciutto, screziato qua e là, forse, da alcuni accenni di sentimentalismo ma in generale perfettamente mimetico rispetto alla condizione anagrafica della protagonista, ovvero Lea Ypi stessa: una ragazza nata a Tirana alla fine degli anni Settanta, nell’Albania che si apprestava a diventare orfana di Enver Hoxha, e che dunque vive il passaggio dal comunismo al libero mercato nello stesso momento in cui vive il passaggio dalla propria infanzia all’adolescenza e poi infine all’età adulta.

La sua è una famiglia che intreccia biografie “problematiche” per quelli che erano i dettami del regime: di fede musulmana (sebbene chiaramente non praticassero più visto che, come ricorda questo recente approfondimento di Paula Hysenbelliu Tushi, nel 1967 venne bandito qualsiasi credo religioso), di estrazione ricca (ma le cui ingenti proprietà erano state sequestrate per via delle collettivizzazioni) e addirittura imparentati con il primo ministro in carica durante gli anni Venti, Xhafer bey Ypi (la sua pronipote è in effetti l’autrice del libro).

Ma i suoi genitori (e la nonna, presente in casa) non sono dissidenti, se non a un livello soltanto intimo e mai esplicitato: i primi anni di Lea scorrono infatti sotto la ripetuta dichiarazione di fiducia da parte della propria famiglia nella bontà del Partito, sebbene qua e là scappino dubbi, imprecazioni smorzate e incertezza nello spiegare alcune contraddizioni, come delle interferenze che disturbano il lineare scorrere della quotidianità e della politica del paese.

Poi, appunto, gli anni del crollo: la scoperta da parte di Lea di essere stata spesso nutrita di “menzogne a fin di bene” e dunque la riscoperta, da parte di tutti, di nuove vocazioni: la madre si butta in politica, pervasa da un inedito senso di libertà e di adesione acritica allo spirito dei tempi (democrazia, privatizzazioni, costruzione della sempiterna “società civile”, ecc.), il padre passa di lavoro in lavoro fino a scontare sulla propria pelle i lati negativi della nuova situazione (da dirigente di un’azienda, si vede costretto a licenziare migliaia di dipendenti per via delle “riforme strutturali” fortemente caldeggiate, per non dire imposte, dalle istituzioni internazionali) mentre la nonna riprende contatto con le proprie origini aristocratiche.        

Sullo sfondo, ma non troppo, gli eventi più tragici successivi al crollo del comunismo: le prime disperate migrazioni di massa verso l’Italia con la nave Vlora che arriva al porto di Bari nel 1991 e soprattutto la guerra civile del 1997, che dividerà la famiglia di Lea e sulla scorta della quale Lea stessa approderà infine a Roma.

L’autrice racconta tutte queste vicissitudini, come detto, non solo attraverso gli occhi di una bambina-adolescente ma, in qualche modo, con la penna, con lo stile, di una ragazza in età acerba, dunque con una semplicità narrativa e di linguaggio che rasenta il tono della favola.

Allo stesso tempo, però, la consapevolezza che regge l’intreccio e l’acutezza con cui vengono messe a fuoco alcune questioni di fondo appartengono in tutto e per tutto alla Lea Ypi di oggi, che dopo l’esperienza italiana si è trasferita a Londra per diventare filosofa e studiosa di Karl Marx, Hannah Arendt, Immanuel Kant – un percorso intellettuale che nasce da e al contempo tradisce la sua biografia (uno sforzo di ripensare quello stesso comunismo di cui ha vissuto il crollo).

È da questo binomio che origina una certa efficacia del romanzo: i toni possono sembrare sì leggeri, di un’ironia trasognata e talvolta finanche canzonatoria, ma la struttura è quasi quella di un thriller filosofico-metafisico, di un incalzante e serrato confronto con domande intrise di storia e di pregnanza politica. Il passaggio che prova a restituire l’ambivalente atmosfera della fine del socialismo reale, o meglio della realtà socialista, in Albania è in effetti piuttosto azzeccato, e potrebbe quasi riassumere il senso dell’intera operazione:

Il cambiamento avviato con una serie di riforme veniva chiamato “rivoluzione”. In qualsiasi altra rivoluzione, ci sarebbero stati oppressori e oppressi, vincitori e vinti, vittime e carnefici. Nel nostro caso, la catena era così aggrovigliata che poteva esistere un unico schieramento. Giustiziare i leader, arrestare le spie o sanzionare gli ex-membri del Partito sarebbe servito solo a gettare benzina sul conflitto, a fomentare la sete di vendetta, a versare altro sangue. Gli unici responsabili che era legittimo additare erano quelli già morti, impossibilitati a giustificarsi o discolparsi. Tutti gli altri erano vittime. Tutti i superstiti erano vincitori. In mancanza di colpevoli, non restava che prendersela con le idee. Il comunismo cominciò a essere considerato una visione così assurda da alcuni, così omicida da altri, che bastava pronunciare la parola per coprirsi di ridicolo e attirarsi l’odio unanime. Era la rivoluzione di velluto, una rivolta della gente contro i concetti.

È qui che resoconto storico, radiografia politica e intuizione letteraria si toccano: se ancora, a distanza di oltre tre decadi, ci si torna a interrogare sul significato del biennio 1989-1991 è anche perché gli eventi che hanno scosso il mondo in quel periodo, e che hanno radicalmente cambiato il panorama sociale europeo e globale sono stati forse, e a dispetto della loro incalcolabile portata, delle rivoluzioni prive di palingenesi.

Un crollo appunto, o – come si dice spesso – un collasso, un’implosione: qualcosa che, al di là dell’euforia del momento, hanno almeno sotto certi aspetti esaurito ben presto la loro dimensione catartica.

Ma, riprendendo il passaggio citato da Lea Ypi, come può funzionare una favola senza che ci siano antagonisti chiari, senza che ci siano vincitori e vinti, vittime e carnefici, senza che esista un’epica? Senza la promessa di uno scioglimento finale? Ecco allora che Libera si gioca quasi tutto sul filo di queste antinomie: favola priva della premesse narrative della favola, testimonianza storica che però rifiuta il terreno della verità biografica, riflessione politica la cui forza sta nella consistenza letteraria e non nella solidità dei ragionamenti. “Romanzo di velluto”, come la rivoluzione che racconta.

D’altronde, come nel più classico dei ribaltamenti, è infine una bambina nella cui testa si agitano idee semplice e quasi manichee di bene e male, giustizia e ingiustizia a vederci più chiaro, a capire con più consapevolezza limiti e contraddizioni di un cambiamento epocale cui invece tanti adulti hanno guardato con l’ingenuità di un bambino, felici e condannati – tutto sommato – a essere liberi.


Libera. Diventare grandi alla fine della storia di Lea Ypi, traduzione di Elena Cantoni, Feltrinelli, 2022.

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Francesco Brusa
Francesco Brusa

giornalista pubblicista, collabora con diverse riviste e diversi siti on-line, occupandosi principalmente di quanto si muove a livello politico e sociale in area est-europea e anatolica. Ha scritto di proteste femministe in Polonia, dell’elezione del primo sindaco comunista eletto in Turchia, di compagnie teatrali clandestine in Bielorussia e di cosa vuol dire fare informazione indipendente in Transnistria.