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Uscito per The Submarine nel febbraio 2018, seguendo la scia delle annate d’oro di Masha e Orso, questo articolo di Martina Napolitano vi racconta la breve storia dell’animazione rivoluzionaria, capace di coniugare fiabe tradizionali, lirismo poetico e pedagogia marxista.
Nel biennio 2014-2015 Masha e Orso, trasmesso dalla Rai, è stato il cartone più guardato in Italia, con picchi di 800mila spettatori. Stando ai dati di Kidz Global, l’88% dei bambini italiani conosce il cartone russo, un record in Europa (in Germania si parla del 44%). Su YouTube, è la serie più cliccata; la puntata “Masha + Kasha” è entrata nella top 10 dei video più guardati di sempre, il primo tra i non musicali e il primo di quelli in russo. Netflix l’ha definito il “fenomeno russo”.
Prima di Masha e Orso
Prima di Masha e Orso, tuttavia, di animazione russa (o prima ancora, sovietica) in Europa e Italia era arrivato poco o nulla. L’impressione (errata) che se ne può trarre è che questo “fenomeno televisivo” sia un prodotto geniale venuto fuori, chissà come, dal deserto asfittico della fantasia post-sovietica. Masha e Orso, in realtà, è per molti versi l’esito maturo di un universo parallelo che, poiché si sviluppò entro i confini dell’Urss, lo spettatore europeo non hai mai potuto apprezzare a pieno.
Come molti altri cartoni animati russi e sovietici, Masha e Orso prende liberamente ispirazione da una fiaba tradizionale (di cui si conservano a malapena i nomi dei personaggi, l’izba di Orso e la furbizia della bambina). Come di consueto, i dialoghi sono ridotti al minimo, molto è lasciato all’immagine, ai colori e alle canzoni: tutte caratteristiche che richiamano molto l’animazione sovietica. Stando a un sondaggio del 2014 condotto dal fondo Obščestvennoe mnenie, tra le preferenze dei russi, prima di Masha e Orso, viene solo il cartone sovietico Nu, pogodi! (traducibile come Aspetta un po’! o Me la pagherai!, trasmesso soprattutto negli anni Settanta e Ottanta), un’altra serie in cui i dialoghi sono pochissimi, ed è pertanto apprezzabile anche senza sapere la lingua. Nu, pogodi! – un po’ sulla falsariga di Wile Coyote e Beep Beep – racconta le avventure, potenzialmente infinite, di un lupo e una lepre che inevitabilmente gli sfugge.
La prima puntata della serie venne trasmessa nel 1969 all’interno del format di prova Vesëlaja karusel’, una sorta di Carosello sovietico non pubblicitario, che lanciò una serie di cartoni animati di successo come Antoška (nel quale il pigro Anton si rifiuta di andare a raccogliere le patate), Žil byl pës (“C’era una volta un cane”, basato su una fiaba ucraina che narra della solidarietà reciproca tra un cane cacciato di casa e un lupo), Troe iz Prostokvašino (“I tre di Prostokvašino”, sulle vicende di un bambino, un gatto e un cane che decidono di vivere da soli), Kot Leopol’d (“Il gatto Leopol’d”, micio istruito il cui credo è “Ragazzi, su, viviamo in pace”) e Bremenskie muzykanty (“I musicanti di Brema”, ma in versione rock’n’roll, cosa che all’epoca fece guadagnare alla regista Inessa Kovalevskaja non poche critiche e accuse di “occidentalismo”).
Rianimati gli spiriti durante il breve e precario disgelo chruscioviano, gli anni Sessanta e Settanta furono un ottimo banco di prova per gli animatori sovietici della SojuzMul’tfil’m (Unione Cartoni Animati), che riuscivano a sfornare fino a 47 serie animate diverse all’anno. All’inizio degli anni Ottanta questa unione era il più grande studio di animazione in Europa, con quasi 500 artisti. Nel 1969, oltre a Nu, pogodi!, comparvero sugli schermi dei bambini sovietici personaggi poi divenuti cult: Čeburaška (nel cartone Il coccodrillo Gena), Karlson e VinniPuch. Il primo, un animaletto strano dalle orecchie enormi, è dal 2004 il simbolo-mascotte della nazionale russa alle Olimpiadi. Il secondo proviene in realtà dalla fantasia svedese di Astrid Lindgren (l’autrice di Pippi Calzelunghe), ma la sua popolarità attraverso il cartone sovietico l’ha reso un’icona nazionale russa stampata persino sui francobolli.
Vinni Puch, infine, è la versione sovietica del Winnie the Pooh di A. A. Milne. In questi episodi sono assenti Christopher Robin (in parte fuso in Pjatačok, il nostro Pimpi) e Tigro. Inoltre, la figura stessa di Vinni Puch si discosta in parte dal Winnie the Pooh originale. L’autore del cartone sovietico Fëdor Chitruk lo descrive come “sempre preso da qualche piano grandioso, inevitabilmente complesso e iperbolico che in realtà si rivela essere poi una cosa così elementare che il piano stesso decade a contatto con la realtà; il suo mondo non corrisponde a quello reale e in questo traspare tutta la sua comicità. Certo, è di una ghiottoneria infinita, ma non è questo il punto centrale”. Vinni Puch, inoltre, canta sempre e in rima (tratto tipico dei cartoni russi) e molte delle sue frasi sono divenute citazioni nel linguaggio popolare.
Sempre in tema di rivisitazioni letterarie, tra 1967 e 1971 venne trasmesso Mowgli a puntate (o Maugli, secondo la traduzione russa); nel 1973 le puntate vennero unite in un film unico. A differenza del film della Disney (1967), la versione sovietica è rimasta molto fedele al libro di Kipling, pertanto anche più adulta nello spirito generale e nei contenuti – vi sono duelli, sangue, morte, suspense.
Oltre ai cartoni animati a puntate, gli anni Settanta hanno anche prodotto dei film di animazione ad oggi considerati tra i migliori mai realizzati al mondo: stando alla classifica del Laputa Animation Festival di Tokyo, prima di Fantasia della Disney (al terzo posto del podio) vengono Il riccio nella nebbia (Ëžik v tumane, 1975) e Il racconto dei racconti (Skazka skazok, 1979) al primo e secondo posto, entrambi diretti da Jurij Norštejn, entrambi di un lirismo che mozza il fiato – il secondo, interamente privo di dialogo, è stato scritto dal regista assieme alla nota scrittrice Ljudmila Petruševskaja. Nella stessa classifica, al 17esimo posto si colloca un altro cartone sovietico, La regina delle nevi (Snežnaja koroleva, 1957), basato sull’omonima fiaba di Andersen.
E prima degli anni Sessanta? Se nella Russia post-rivoluzionaria i primi anni Venti furono, come in tutte le altre arti, un terreno di sperimentazioni e scoperte (per quanto riguarda i cartoni animati, ad esempio, si veda il primo corto pensato per i bambini Sen’ka l’Africano, o La pista di pattinaggio, entrambi del 1927), l’avvento di Stalin impose progressivamente una cappa di censura e controllo.
Dal 1934 la formula del “realismo socialista” (l’imposta celebrazione della concezione socialista della società) soggiogò tutte le arti.
Per quanto riguardava i cartoni animati, questi vennero presto indirizzati unicamente al pubblico dei bambini e quindi ripuliti di contenuti politici e infarciti di materiale pedagogico. La posta (Počta, 1929) illustra quanto bravi siano i postini del mondo a recapitare le lettere; Mojdodyr (1939) narra di come gli oggetti scappino lontano dal bambino che non vuole lavarsi (e in questo quasi precede la danza degli oggetti verso la valigia di Merlino de La spada nella roccia). Nel 1937 intanto era stata fondata la SojuzMul’tfil’m e posta sotto la guida di Viktor Smirnov, che era stato precedentemente inviato a “studiare” (imparare a copiare) le tecniche d’animazione alla Disney. “Di tutte le arti”, diceva Lenin, “il cinema è per noi la più importante,” e Stalin non poteva che sottoscrivere: il cinema, e i cartoni, divennero presto un utilissimo strumento di propaganda (in una parola, agitprop).
La fine dell’Unione Sovietica portò anche alla conclusione della stagione d’oro della SojuzMul’tfil’m, non più impresa statale dal 1989. Nel nuovo mercato concorrenziale ebbe vita breve, divenendo per lo più uno studio di restauro delle pellicole sovietiche. Altri studi di animazione sono nati nel frattempo, come l’Animaccord di Mosca che produce Masha e Orso e la Melnitsa Animation che Deutsche Welle ha definito la “Walt Disney di Pietroburgo”.
La situazione per l’animazione russa post-sovietica non è comunque rosea e la produzione non è affatto florida, soprattutto in un mondo altamente concorrenziale come quello dei cartoni animati: la trentina di ore girate all’anno in Russia (meno di un decimo di quelle girate dalla SojuzMul’tfil’m negli anni d’oro) non possono ormai competere con le migliaia girate in Giappone e negli Stati Uniti.
Dottoressa di ricerca in Slavistica, è docente di lingua russa e traduzione presso l’Università di Trieste, si occupa in particolare di cultura tardo-sovietica e contemporanea di lingua russa. È traduttrice, curatrice di collana presso la casa editrice Bottega Errante ed è la presidente di Meridiano 13 APS.