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Penso che abbiamo bisogno di maggiore silenzio e ascolto, di maggiore empatia e capacità di ripensare la vita al di fuori di certe inerzie e automatismi.
Adrian Paci
È pieno inverno a Scutari quando il 28 gennaio 1969 nasce Adrian Paci. Se vi sembra di aver già sentito questo nome, non vi state sbagliando: Adrian Paci è un artista a 360 gradi. La sua fascinazione nei confronti del mondo dell’arte nasce fin da piccolo, fra gli scaffali della ricca libreria del padre. Durante la giovinezza, frequenta l’Accademia delle Belle Arti di Tirana e, grazie a una borsa di studio, partecipa al corso “Arte e Liturgia” tenuto presso l’Istituto Beato Angelico a Milano.
Momento chiave per la sua produzione creativa è il 2000, anno in cui si trasferisce con la sua famiglia in pianta stabile a Milano a causa dei disordini politici che stanno mettendo a soqquadro la sua terra natale. La migrazione, o meglio, il concetto di abitazione e di transizione, insieme alle dicotomie staticità-movimento e presenza-assenza, diventano il leitmotiv della sua arte, che si manifesta sotto le forme più svariate: pittura, scultura, installazioni e cortometraggi.
Opere
Ambientato nell’aeroporto di San Jose in California, la sua opera Centro di permanenza temporanea (2007) è un cortometraggio che vede protagonisti alcuni immigrati su una scala, in attesa di imbarcarsi su un aereo. I gradini della scala a poco a poco si riempiono, ma l’aereo è in ritardo, rendendo i passeggeri intrappolati in uno stato di transizione e immobilismo.
Altrettanto significativa è The Column (2013), installazione presentata sotto forma di cortometraggio in occasione della sua mostra Vie en transit alla Galerie Nationale du Jeu de Paume di Parigi. Il video percorre la storia di un blocco di marmo estratto da una cava nei pressi di Pechino, lavorato durante la tratta in nave dalla Cina verso l’Europa fino a trasformarsi in una colonna corinzia. Oltre a essere metafora della vita come viaggio e trasformazione, The Column riprende l’interazione umana degli operai sulla colonna.
Lo scorso 21 ottobre, a Giarre, Paci ha inaugurato la sua nuova opera, Compito#1. È dedicata a una selezione di agrumi e di agrumi antichi provenienti dalla Valle dei Templi, conservatisi grazie al FAI, all’organizzazione Radicepura e all’Orto Botanico di Palermo. L’opera nasce da riflessioni sul concetto di luogo e sul rapporto fra esperienza ed espressione, fra l’urgenza di esprimersi, e i limiti e le possibilità del linguaggio. Protagonista dell’opera è il mosaico, che propone un linguaggio lontano e oscuro. Ciononostante, non c’è volontà di codificarlo o di tradurlo. È lo spazio circostante a dare senso ai segni, che diventano forza vitale e ritmo dello spazio stesso, diventano l’ambiente.
Adrian Paci ha esposto in numerose mostre di fama internazionali, fra cui anche il MoMA di NewYork, la Biennale di Venezia, la Habana Biennale di Cuba e molte altre. È rappresentato dalla Kauffman Repetto Art Gallery, e a questo link potete visitare il suo portfolio.
Meridiano13 ha avuto il privilegio di venire a contatto con la sua profondità e sensibilità. Abbiamo chiacchierato di arte, di migrazione, ma soprattutto di attualità. Di seguito, la nostra intervista ad Adrian Paci.
Cos’è per Lei l’arte? Da cosa è nata la sua urgenza creativa e qual è il filo conduttore comunicativo che accomuna le sue opere?
«Ah iniziamo proprio da una domanda facile!… Non ho certo la pretesa di definire l’arte e non esiste una definizione “per Lei” (utilizza la lettera maiuscola personificando l’arte, ndr). La definizione o è generale o meglio non entrarci in quei territori. Invece sulla seconda parte potrei dire che spesso il mio lavoro nasce dall’incontro con qualcosa, dallo scoprire un vuoto in quella cosa, una potenzialità. Non nasce da un sapere, ma piuttosto da uno stupore e, anzi, cerca di mantenere questo stupore anche nel processo lavorativo, per far percepire il sapore delle tracce che caratterizzano poi la forma finita del lavoro, il che vuol dire mantenere nel lavoro finito quello spazio vuoto scoperto all’inizio dell’incontro».
Uno dei temi ricorrenti della sua arte è la dicotomia presenza-assenza, spesso in relazione alla casa. Cos’è per lei il concetto di “casa”? Che legame ha oggi con la sua terra originaria, l’Albania?
«In generale cerco di evitare di parlare del “concetto di casa”. La casa per me è sempre legata a momenti vissuti, a oggetti, voci, luci e ombre, odori e rumori, sensazioni, gioie e tristezze. Ci sono immagini, atmosfere, affetti. Non riesco a parlare di “concetto di casa” come se fosse una categoria astratta. L’assenza certo che attiva la memoria, la fantasia e allora le cose vengono avvolte da una dimensione diversa. Con l’Albania ho un rapporto di frequentazione abbastanza intenso, specialmente da quando con mia moglie abbiamo fondato Art House che vede la nostra casa trasformarsi in un piccolo centro di arte che ospita amici dal mondo dell’arte e si apre alla comunità. Da sette anni organizziamo incontri, piccole mostre, workshop, proiezioni di film, pubblicazioni… tutto nello spirito di un dialogo ravvicinato e intellettualmente stimolante».
Altro tema ricorrente delle sue opere sono l’esperienza, gli incontri e gli scontri degli esseri umani e non solo, ma anche con animali e piante. Come pensa che dovrebbe essere l’interazione fra gli individui e fra individui e ambiente circostante nella crisi ecologica e umanitaria che stiamo affrontando?
«Non vorrei mettermi nella posizione di chi offre delle “linee guida” su come dovrebbero vivere le persone, però credo che sia evidente che il mondo ci stia chiedendo un momento di riflessione. Credo che dovremmo tutti fare un passo indietro, ridurre il nostro protagonismo e riscoprire dentro di noi quella parte fragile che ci appartiene intimamente ed è autentica a qualsiasi essere vivente. Non credo molto nel “post-umano”, ma continuo a pensare che esiste e resiste un’umanità, forse marginale, che mantiene un rapporto più salutare con la terra. Penso che abbiamo bisogno di maggiore silenzio e ascolto, di maggiore empatia e capacità di ripensare la vita al di fuori di certe inerzie e automatismi. In generale, credo che ci sia bisogno di “coltivatori”, di chi si prende cura e di chi si interroga continuamente con la sua mente ma anche con il proprio corpo, con la fatica e la giocosità del proprio corpo. C’è bisogno di aria fresca e non di ideologie nuove».
Probabilmente è consapevole che parte della sua arte si diffonde anche tramite l’internet e tramite i meme. Si ritiene favorevole all’effetto innescato dai media sull’arte, nella fattispecie sulla sua?
«Eh, i meme… Ne sono stato “vittima” varie volte. Non io, ma il mio lavoro, specialmente “Centro di permanenza temporanea”. Non sono né favorevole, né contrario. Sono fenomeni più grandi di te e la cosa peggiore che puoi fare è metterti a difendere il tuo lavoro una volta che si incontra e ci si scontra con questi fenomeni. Il lavoro se la deve cavare da solo. Se è un buon lavoro resisterà e sopravviverà, altrimenti vuol dire che verrà ricordato come un meme. Mi auguro che (il mio, ndr) ce la farà a resistere e sopravvivere».
Lei ha da poco inaugurato Compito#1 a Giarre. Come descriverebbe il linguaggio utilizzato nel mosaico? Ci sarà anche un Compito#2?
«Compito#1 è un grande mosaico di 140 metri quadrati che prende spunto dalle pagine di un agenda dove Maurizio, un signore affetto dalla sindrome di Asperger, scriveva ossessivamente. I suoi segni mi hanno affascinato molto. Erano enigmatici ma essenziali e sembravano delle presenze organiche. Mi sono messo di fronte a questi fogli non con la pretesa di “decifrarli”, ma con la voglia di contemplarli. Così è nato un lavoro di riscrittura e di traduzione. Non si tratta di tradurre il loro significato, ma osservare il passaggio da una materia all’altra, da un gesto all’altro, da un tempo all’altro. Ci sono già altri Compiti dopo il Compito#1 di Giarre, anche se non così grandi come quello. Credo che continuerò ancora per diverso tempo a dialogare con le pagine di Maurizio e a elaborare questi passaggi che trovo ancora fertili».
Laureata in Lingue e letterature straniere a Milano con le tesi “Immagini gastronomiche nelle Anime Morte di N. V. Gogol’” e “Le dimensioni dell’individualismo e del collettivismo nella quotidianità in Russia e in Italia”, Laura Cogo è attualmente docente di lingua e letteratura. Collabora con Russia in Translation e Ilnevosomostro.