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Ivica Đikić: “Ancora non sono riuscito a capire il perché di Srebrenica”

Nel 2020 la casa editrice friulana Bottega Errante porta in Italia un’opera dello scrittore, sceneggiatore e giornalista erzegovese Ivica Đikić. Si intitola Metodo Srebrenica e racconta con stile asciutto e giornalistico come si è consumata una delle più grandi tragedie europee del Novecento. La versione in lingua originale dell’opera però esce quattro anni prima e porta un titolo che dice poco ai lettori italiani, Beara, spostando radicalmente il focus del racconto.

Se vuoi leggere altri articoli sul genocidio di Srebrenica:
- “Il destino di Srebrenica probabilmente era già segnato”
- A Srebrenica fu genocidio, non un massacro
- “A come Srebrenica”. Un monologo-testimonianza di Roberta Biagiarelli
Metodo Srebrenica di Đikić, la copertina dell'edizione italiana

Parlare di Srebrenica: le scelte di Đikić

Chi è Beara? Nel 2002 l’ufficiale Ljubiša Beara viene condannato dal Tribunale dell’Aja, in quanto ritenuto diretto responsabile del genocidio di Srebrenica. È dalla sua figura che Đikić parte per raccontare quei giorni di luglio del 1992. Prima, però, lo scrittore ci guida in una lunga introduzione che ci fornisce il suo punto di vista, necessario per comprendere il suo percorso e la scelta di uno stile documentaristico per narrare i fatti di Srebrenica.

[…] in due riprese, dall’estate 2003 all’estate 2006, in un intreccio di fanatismo e ambizione, cominciai a scrivere un romanzo, o qualcosa che doveva crescere fino al rango di romanzo, a proposito del genocidio di Srebrenica. Ma non funzionava, semplicemente non valeva […]. Dopo aver interrotto il romanzo per la seconda volta, dovetti rassegnarmi alla constatazione che, di fatto, non ne sapevo niente dell’uccisione dei prigionieri bosgnacchi di Srebrenica, tranne il dato incontestabile della loro eliminazione.

Inizialmente Srebrenica resta sullo sfondo della vita di Đikić, che nel mentre continua a raccogliere materiale, a parlare con persone. Un giorno più o meno all’improvviso ha un’illuminazione:

All’inizio del 2014 mentre portavo a termine la stesura di un romanzo breve, tutto a un tratto mi apparve chiaro che il documentarismo, totalmente depurato da ogni tratto di finzione, o dove la finzione è in eccesso, con elementi romanzeschi profondamente inseriti nella struttura del testo e nell’approccio narrativo, era l’unico modo per scrivere un lavoro completo su Srebrenica. La mia fantasia infine si era probabilmente arresa di fronte alla superiore forza di ciò che era realmente accaduto.

È così che nasce Beara/Metodo Srebrenica. È così che uno scrittore come Đikić decide di raccontare uno dei momenti più bassi della storia del secolo scorso. In occasione dell’anniversario del genocidio, abbiamo deciso di intervistare questo autore, per indagare ancora più a fondo cosa significhi parlare di Srebrenica.


Srebrenica ormai non è più soltanto il nome di un toponimo geografico, ma è diventato un luogo/evento che è entrato a far parte della storia d’Europa. È quasi un nome collettivo che contiene al suo interno tante storie e significati. Perché ha deciso di raccontare questo momento storico partendo da un uomo soltanto, da un singolo, ovvero Ljubiša Beara?

Il colonnello Ljubiša Beara, a capo della Direzione della sicurezza del Quartier Generale dell’esercito della Republika Srpska, arrivò nell’area di Srebrenica, Bratunac e Zvornik l’11 luglio 1995 con un solo obiettivo: pensare, organizzare e compiere il genocidio. Ovvero uccidere tutti i prigionieri bosgnacchi – uomini e ragazzi – scappati dalla Srebrenica assediata. Alcuni ufficiali dell’esercito della Republika Srpska si trovavano lì in quel momento unicamente con quell’obiettivo. Ed era Beara a dirigerli. Tutti i restanti alti ufficiali dell’esercito che hanno preso parte alle operazioni di massacro, incluso anche il generale Ratko Mladić, non erano lì per l’organizzazione dell’uccisione di massa dei prigionieri. Solamente il colonnello Beara e alcuni dei suoi sottoposti si trovavano lì per quel motivo: dal 12 al 16 luglio 1995 si sono occupati esclusivamente dell’uccisione dei prigionieri bosgnacchi. Questa è una delle motivazioni principali che mi hanno portato a far diventare Ljubiša Beara il personaggio centrale del mio romanzo documentaristico sul genocidio di Srebrenica.

Nel prologo al suo libro afferma che nonostante tutto il lavoro di ricerca, di studio, di approfondimento non è riuscito a trovare una risposta chiara alla domanda: perché? Nel tempo che è trascorso dall’uscita del libro, si è avvicinato o allontanato dal trovare una risposta a questa domanda? 

No, non posso dire di essermi avvicinato alla risposta a questa domanda. Si trattava sicuramente di un mosaico di motivi diversi, e quando dico che non sono arrivato ad una risposta chiara alla domanda “perché” intendo di non aver capito quale sia stata la loro “argomentazione” finale per uccidere circa ottomila prigionieri. Tutti coloro che hanno preso parte al crimine sapevano cosa stessero facendo e quanto stessero radicalmente violando tutte le regole belliche e umane. Eppure non sono riuscito a immaginare il momento in cui il generale Mladić ha fatto emergere le motivazioni per le quali andassero uccisi tutti i prigionieri. E non sono neanche riuscito a stabilire perché i restanti alti ufficiali non si siano fatti delle domande e posti dei dubbi.

La sua opera si ferma con il massacro (solo il post scriptum è ambientato dopo, ma lontano dalla Bosnia). Eppure Srebrenica continua a essere una faglia nella costruzione dell’identità bosniaca. Quanto pesa a suo avviso la memoria di Srebrenica per la formazione di un’identità nazionale condivisa, che tenga conto delle complessità della Bosnia? 

Purtroppo il ricordo di Srebrenica, per quanto riguarda la Bosnia-Erzegovina, è rimasto principalmente limitato ai bosgnacchi. I croati di Bosnia e di Croazia, eccetto per motivi politici e formali, si comportano come se Srebrenica li riguardasse solo a livello incidentale. Non sentono Srebrenica come una loro tragedia. Non lo ritengono un evento che prevarica i confini. Per quanto concerne i serbi in Bosnia e Serbia, la corrente principale della loro élite politico-culturale, come della maggior parte dell’opinione pubblica, vive il ricordo di Srebrenica come una sorta di provocazione e ulteriore cospirazione del mondo intero nei loro confronti.

In questo si trova anche il punto chiave del problema: ovvero che i serbi come comunità politica e culturale si oppongono strenuamente al riconoscimento della verità su Srebrenica e, conseguentemente, ad adottare un comportamento da nazione cosciente e responsabile. Ciò, naturalmente, non è semplice per nessuna nazione al mondo, e non è semplice neanche arrivare a quel punto, e diventa praticamente impossibile arrivarci se le élite politiche, intellettuali ed ecclesiastiche respingono e relativizzano da anni ciò che è accaduto a Srebrenica. Per loro anzi sembra che sia  importante soprattutto ridurre o deridere la classificazione giuridica del genocidio. Questa è la trappola nella quale sono caduti i serbi e dalla quale non penso che si libereranno nel futuro prossimo.

Uno dei passi più interessanti del libro è quello che racconta le vicende di Vladimir Barović.

Il contrammiraglio della Marina Militare Jugoslava Vladimir Barović giunse in elicottero sull’isola di Lissa nel pomeriggio del 29 settembre 1991 […] e si diresse subito dall’ammiraglio Mile Kandić, comandante della regione. […] Kandić e Barović ebbero un colloquio breve e freddo sulla situazione di guerra in cui si trovavano e poi si lasciarono. Barović aveva ben capito che l’ammiraglio Kandić […] aveva intenzione di cannoneggiare spietatamente e disperatamente le città della Dalmazia.

Verso sera, il contrammiraglio Barović si recò nell’edificio dove si trovava l’ufficio sanitario della base navale di Lissa. Salì al primo piano e, senza che nessuno lo vedesse, si chiuse in una stanza nelle immediate vicinanze dello studio del medico di turno. Lasciò una breve lettera d’addio, estrasse la pistola, appoggiò la canna alla tempia e premette il grilletto. Morì all’istante. Lasciò scritto che il suo onore di montenegrino non gli consentiva di volgere le armi della Marina Militare Jugoslava contro il popolo croato in una guerra fratricida.

In questo modo il contrammiraglio sceglie una strada diversa e opposta rispetto a quella di Beara. Diventa simbolo di una ribellione impossibile, ribellione che può essere realizzata solo con l’annullamento di se stessi. Fu davvero impossibile rifiutarsi di percorrere una strada segnata se non a prezzo della perdita di se stessi?

Quelli sono due estremi, due possibilità che si trovano agli antipodi dello spettro umano e della vita. In mezzo a quegli antipodi c’è tutta una gamma di opzioni che portano un uomo a servire o a respingere il male. Questa decisione umana viene influenzata da molte circostanze e in guerra queste ultime possono essere impostate in modo estremo. Anche in tempo di pace e in circostanze civili, per resistere al male e alle ingiustizie della maggioranza è necessario coraggio e preparazione al sacrificio. In circostanze di guerra tutto questo diventa ancora più impellente, e viene amplificato. Quando parliamo del genocidio di Sreberenica il numero di persone che hanno opposto anche la benché minima resistenza ai massacri si riesce quasi a contare sulla punta delle dita di una mano.

Traduzione dal croato di Tobias Colangelo

Artwork a cura di Federica Ferri

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Gianni Galleri
Gianni Galleri

Autore dei libri “Questo è il mio posto” e “Curva Est” - di cui anima l’omonima pagina Facebook - (Urbone Publishing), "Predrag difende Sarajevo" (Garrincha edizioni) e "Balkan Football Club" (Bottega Errante Edizioni), e dei podcast “Lokomotiv” e “Conference Call”. Fra le sue collaborazioni passate e presenti SportPeople, L’Ultimo Uomo, QuattroTreTre e Linea Mediana. Da settembre 2019 a dicembre 2021 ha coordinato la redazione sportiva di East Journal.