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Sono settimane molto calde per la Bosnia ed Erzegovina. Com’è noto, il presidente della Republika Srpska Milorad Dodik dal 26 febbraio scorso, data in cui è stata emessa la sentenza di condanna in primo grado nei suoi confronti, ha avviato una campagna di secessione sempre più decisa. Per mera onestà intellettuale, va detto, il tema dello smembramento dello Stato bosniaco prosegue ininterrottamente dal 1995, anno in cui furono firmati gli Accordi di Dayton, ma la decisione del tribunale di Sarajevo e l’emissione del mandato di arresto internazionale hanno indubbiamente esacerbato le polemiche interne ed estere della BiH.
È bene ricordare che, nonostante a più riprese la classe dirigente della Republika Srpska abbia paventato in extrema ratio l’uso della forza, per ripiombare nella violenza – cosa che nessuno potrebbe mai augurarsi – sono necessari alcuni elementi fondamentali che in questo momento sembrano mancare nel territorio posto sotto l’egida di Banja Luka.
In primis servono soldi, e la Republika, com’è noto, non gode di particolari ricchezze; un esercito, ed è difficile pensare che Dodik possa godere di un numero considerevole di truppe in grado di sorreggere lo scontro armato (intendiamoci: quando nel 1992 cominciò la guerra in Bosnia ed Erzegovina, Radovan Karadžić vantava circa 250mila unità, composte prettamente da ex militari della Jna e membri della Forza di difesa territoriale, nota come Teritorijalna odbrana); infine, servono armi non solo leggere – che sarebbero comunque estremamente letali e pericolose – ma anche pesanti.
Simbolo della Forza di difesa territoriale (Wikipedia)
Merita aggiungere, inoltre, un quarto e ultimo (?) elemento decisivo: il consenso popolare. Da quello che pare di capire, in Republika Srpska non insiste alcun particolare afflato nei confronti della classe dirigente attuale, anzi sarebbe ragionevole credere che la popolazione locale sia assolutamente distante dalle velleità di Dodik, nonché disinteressata dal finire in uno scontro armato scatenato per questioni prettamente giudiziarie.
Sconfinamenti
Ciò detto, l’attuale presidente dell’entità a maggioranza serba prosegue nella sua campagna volta alla secessione e allo sconfinamento. Dopo la promulgazione di una serie di leggi, che già abbiamo raccontato, Milorad Dodik ha superato nuove linee di demarcazione, sia geografiche che politiche, tentando di allargare ancora di più il divario tra la Federazione di Bosnia e la Republika.
Partiamo dal fatto più recente. Poco tempo fa, in occasione delle celebrazioni per la Giornata della polizia, Milorad Dodik ha dichiarato di voler proporre l’adesione della Republika all’accordo militare e in materia di difesa stipulato fra l’Ungheria di Viktor Orbán e la Serbia di Aleksandar Vučić. Ed ecco dunque l’ultimo sconfinamento in linea temporale: per quanto gli Accordi di Dayton abbiamo svuotato le competenze statali a beneficio dell’autonomia delle due entità, la politica estera e militare non rientra nelle prerogative della Republika Srpska. Una dichiarazione del genere, quindi, non può che essere vista come l’ennesimo tentativo da parte del presidente volto a minare la tenuta dello Stato bosniaco.
Per l’occasione, Dodik non manca di complimentarsi su X con le forze dell’ordine locali, sempre più corteggiate perché strategiche:
Mi congratulo con tutti i membri della Polizia della Republika Srpska in occasione della Giornata della polizia, esprimendo profonda gratitudine e massimo rispetto per il vostro patriottismo e la vostra volontà di difendere la libertà, la giustizia e la pace. Sono orgoglioso del vostro impegno e della vostra lealtà nei confronti della Republika Srpska, in particolare nel processo di difesa della costituzione della Republika Srpska e della costituzione di Dayton, nonché della vostra leadership, sempre determinata e capace di affrontare tutte le sfide. La Polizia della Republika Srpska è l’agenzia di polizia più forte e organizzata della Bosnia-Erzegovina, incarnazione della professionalità e dell’impegno assoluto nella tutela dei diritti di tutti i suoi cittadini.
L’amicizia con Israele
Nelle ultime settimane, nonostante il mandato di arresto internazionale, Milorad Dodik non ha mancato di superare anche i confini geografici, in cerca di consenso e supporto fuori dai Balcani. A fine marzo il presidente della Republika è atterrato in Israele per partecipare a una conferenza sull’antisemitismo e per rinsaldare il legame con Tel Aviv.
Israele sta attraversando sfide impegnative, ma sta dimostrando una determinazione che mi ispira. Sono venuto per inviare un messaggio di sostegno alle persone che sanno cosa significa lottare per la propria libertà e per confermare che la Republika Srpska comprende e rispetta questa lotta, perché la guida essa stessa da tre decenni.
Una dichiarazione che strizza l’occhio a certa propaganda filoserba, incentrata sulla convinzione che serbi ed ebrei siano in qualche modo due popoli dal destino molto simile: entrambi feriti dalla diaspora, vittime del nazifascismo e ultimo baluardo contro il dilagare del fondamentalismo. Non a caso Dodik sostiene che a livello mondiale sia il popolo ebraico a soffrire di più, mentre nei Balcani sono i serbi.
Il 26 incontra il ministro della Finanza Zeev Elkin perché “oltre alla cooperazione politica, per noi è molto importante anche la cooperazione economica tra Israele e Republika Srpska” e Haim Bibas, presidente della Federazione delle autorità locali e sindaco di Modi’in-Maccabim-Re’ut.
Il giorno dopo è la volta della fotografia con il primo ministro Benjamin Netanyahu, sul quale pende un mandato di arresto internazionale:
Ho fornito pieno sostegno allo Stato di Israele e al suo primo ministro Benjamin Netanyahu nella lotta contro l’antisemitismo, il terrorismo e l’intolleranza politica. Il popolo serbo e quello ebraico sono uniti da una storia di sofferenza, ma anche di orgoglio, resistenza e sopravvivenza. Insieme sappiamo cosa si prova quando cercano di cancellarti perché sei te stesso.
E con Putin
Non manca infine di fotografarsi con Kinga Gall, europarlamentare per l’Ungheria e vicepresidente di Fidesz, e Ohad Thal, membro sionista della Knesset. Il 31 marzo annuncia il suo arrivo a Mosca e il giorno dopo viene ripreso mentre stringe la mano a Vladimir Putin:
La Russia è un paese molto importante per la Republika Srpska, all’interno del Consiglio di sicurezza, ed è sempre stata obiettiva. La Russia è il garante dell’accordo di pace e Putin lo ha affermato durante l’incontro. In questo contesto, la Russia sosterrà la fine e la cessazione del lavoro delle istituzioni internazionali, in particolare del falso Alto Rappresentante o, come lui stesso afferma, del rappresentante illegittimo. Era interessato ai dettagli, a cosa facciamo e come lo facciamo.
Ho detto al presidente russo Vladimir Putin che l’accordo di pace di Dayton è fallito, che la Repubblica Serba di Bosnia Erzegovina vuole trasformarsi in un guscio vuoto, Putin lo capisce e noi abbiamo una comprensione completa. Il fatto che Putin abbia trovato il tempo per l’incontro la dice lunga su quanto apprezzi i rapporti con la Republika Srpska, ma anche con la Serbia.
Quali saranno i prossimi passi, dunque? È difficile prevedere le mosse del presidente della Republika Srpska, anche se in questo momento è altrettanto difficile immaginare che la secessione possa effettivamente concretizzarsi. Non sarebbe però così improbabile ipotizzare che le parti in gioco, sia quelle nazionali che internazionali, trovino un accordo e che Dodik possa lasciare definitivamente la Bosnia ed Erzegovina, e magari ripiegare in qualche stato amico, come la Serbia, l’Ungheria o la Russia. Che poi sarebbe l’ennesimo e ultimo (?) sconfinamento.
Giornalista e dottore in Giurisprudenza, attualmente cura l’ufficio stampa del Comune di Capalbio e collabora il progetto divulgativo Frammenti di Storia. Nel 2019 è stato selezionato per partecipare, in Bosnia ed Erzegovina, all’International Summer School Rethinking the culture of tolerance, organizzata dai tre atenei di Sarajevo, Sarajevo Est e Milano-Bicocca. Autore del libro Stante così le cose, edito da Edizioni Creativa.