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A caccia di tesori ‘brutali’: storia, protagonisti e immagini del modernismo sovietico di Tbilisi

di Domenico Valenza*

Con edifici dalle forme avveniristiche e solitari paesaggi urbani che preconizzano la fine di un’epoca, nell’ultimo decennio l’architettura tipica del modernismo sovietico è stata oggetto di un crescente interesse tra addetti ai lavori e appassionati. Si tratta di una tendenza parallela al ritorno in voga del cosiddetto brutalismo (dal francese béton brut, inteso come cemento a vista), cui tali opere sono associate non tanto per vicinanza a quest’ultimo movimento – che possiede differenti origini geografiche e presupposti ideologici – ma per lo straniamento causato dalla visione di certi edifici, capaci di evocare un mondo ormai scomparso.

Al pari di altri paesi post-sovietici, in tempi recenti anche il settore turistico georgiano ha visto una proliferazione di tour operator e visite guidate a caccia di tesori ‘brutali’ nella capitale.

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La genesi di un fenomeno

La città di Tbilisi diventa protagonista indiscussa del modernismo all’indomani della morte di Iosif Stalin, nel 1953. Nel corso del trentennio staliniano, l’estetica sovietica si caratterizza per un rifiuto dell’avanguardia, l’attenzione a elementi figurativi e un marcato revival del Neoclassico e del Gotico per celebrare le conquiste socialiste.

Con l’ascesa al potere di Nikita Chruščëv e l’avvio della destalinizzazione, nella visione del nuovo Segretario Generale è necessario allontanarsi da ogni “decorazione superflua”, percorrendo un “cammino più progressista” e ricorrendo all’utilizzo di “strutture e parti prefabbricate in cemento armato” – afferma alla Conferenza nazionale dei costruttori del 1954. Un anno più tardi, la Risoluzione “sull’eliminazione degli eccessi nella progettazione e nella costruzione” darà avvio a una nuova era architettonica con la ricerca di “semplicità, rigore delle forme ed economia delle soluzioni”.

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Panorama urbano della periferia nord di Tbilisi (Adriana D’Auria)

In questa chiave, l’edilizia popolare rappresenta una priorità di intervento per far fronte all’emergenza abitativa che, seppure presente sin dalla fondazione dell’Unione Sovietica, è ora acuita non soltanto dalla distruzione del tessuto urbano causata dalla Seconda guerra mondiale ma anche dalla continua urbanizzazione frutto dell’industrializzazione.

Nei primi anni Sessanta, la cosiddetta chruščëvka – tipologia di edificio costruito con pannelli prefabbricati in calcestruzzo – fa la sua comparsa nelle città sovietiche. Costruita fino alla fine del decennio, la chruščëvka cederà poi il passo alla brežnevka, una versione esteriormente più imponente e dotata di maggiori comfort all’interno.

Nella guida architettonica di Tbilisi, edita da Dom Publishers, Levan Asabashvili e Rusudan Mirzikashvili sottolineano il divario tra le aspettative della popolazione e la di fatto standardizzazione sugli appartamenti, spesso di qualità scadente e talmente simili da non potersi distinguere l’uno dall’altro: sul tema, il regista Ėl’dar Rjazanov realizzerà il fortunato film L’ironia del destino, oppure Buona sauna!, in cui il protagonista – ubriaco e finito per errore su un aereo – confonde il quartiere e l’edificio della città di arrivo con quelli in cui risiede realmente.

L’edilizia popolare e l’infrastruttura metropolitana

A Tbilisi, l’area di Saburtalo, nel nord ovest della città, diventa il luogo prescelto per rispondere alla crisi edilizia, in alcuni casi non senza un certo eclettismo: è il caso, per esempio, degli appartamenti sulla Strada Shalva Nutsubidze, realizzati da Otar Kalandarishvili e Gizo Potskhishvili e oggi noti come ‘Skybridge’. La costruzione dell’edificio pone una sfida non indifferente per i due architetti, che si ritrovano ad adattare i principi e i materiali della standardizzazione forzata alla configurazione geografica di Tbilisi, fatta di colline e pendii a strapiombo.

I tre edifici sono uniti tra loro da un unico ponte fatto di montanti metallici che, oltre a rappresentare una via d’accesso per i residenti, collega anche i due lati del quartiere, separati dalla collina, tramite degli ascensori. Data la sua funzione pubblica, lo Skybridge è visitabile – ma con il dovuto rispetto trattandosi di un’area residenziale: non sono invece accessibili i tre edifici residenziali attraverso cui il ponte si snoda.

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Lo Skybridge unisce gli appartamenti sulla Strada Nutsubidze (Domenico Valenza)

Al pari dell’edilizia popolare, la costruzione di una rete metropolitana capace di trasformare Tbilisi in una città moderna rappresenta un’altra priorità d’azione. Dopo tredici anni di scavi, l’11 gennaio 1966 la metropolitana della capitale georgiana è ufficialmente inaugurata, divenendo la quarta esistente nell’Unione Sovietica (dopo Mosca, Leningrado e Kyiv), e soprattutto la prima a essere realizzata seguendo un’estetica modernista. Le sei stazioni costruite collegano le aree residenziali di Chugureti e Didube al centro della città. Tredici anni più tardi, nel 1979, prende corpo la linea ‘Saburtalo’, che attraversa l’omonimo distretto.

Tracce di modernismo sovietico

Accanto all’edilizia popolare e alla rete metropolitana, è con la realizzazione di alcune grandi opere che il modernismo sovietico si insedia definitivamente nel paesaggio di Tbilisi.

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L’intersezione delle torri e dei blocchi orizzontali nell’ex ministero dei Trasporti (Adriana D’Auria)

Primo in ordine di tempo è il Palazzo dello Sport, realizzato tra il 1956 e il 1961 dagli architetti Yuri Kasradze e Lado Alexi-Meskhishvili, quest’ultimo autore di altre opere in città (alla sua figura è dedicato un episodio del podcast Reimagining Soviet Georgia). La struttura, spiccatamente minimale e con una cupola in cemento, è inizialmente realizzata per ospitare le partite di pallacanestro. L’area verde in cui si innestava l’edificio al tempo della realizzazione è oggi purtroppo sfigurata dalla presenza di edifici e parcheggi. Dopo una ristrutturazione terminata nel 2007, il Palazzo è divenuto un’arena versatile per l’organizzazione di concerti ed eventi sportivi.

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La punta di diamante del modernismo sovietico è senz’altro la più nota delle sue creazioni, la cui travagliata storia post-sovietica ha a lungo offuscato il talento dei suoi architetti, Giorgi Chakhava e Zurab Jalaghania: la costruzione avveniristica pensata per ospitare il ministero dei Trasporti della Repubblica Sovietica Socialista Georgiana. La struttura, composta da due torri di diciassette piani interconnesse con cinque blocchi orizzontali, non è esente da influenze del contesto artistico internazionale, “a cominciare dal metabolismo giapponese da cui Chakhava era affascinato” – spiega Nini Palavandishvili, curatrice e ricercatrice. Con l’acquisizione del palazzo da parte della Bank of Georgia nel 2007, l’edificio ha conosciuto una nuova ragion d’essere, divenendo nel tempo un vero e proprio simbolo della città.

Forse meno visionario ma certamente di grande impatto visivo è il Palazzo dei Rituali, che svetta sulle rive del Mt’k’vari, il fiume che attraversa Tbilisi. Costruito nel 1984, in epoca tardo sovietica, rappresenta una soluzione socialista alla celebrazione fastosa dei matrimoni o, in altre parole, una sorta di cattedrale laica. Fortemente voluto da Eduard Shevardnadze, al tempo Primo Segretario del Partito Comunista Georgiano, e realizzato da Viktor Jorbenadze, l’alto campanile e i due padiglioni a spirale su cui lo stesso campanile si erge rappresentano i due apparati riproduttivi maschili e femminili, contribuendo a caricare l’opera di simbolismo.

Di incompiute, abbandoni e demolizioni

A stimolare la caccia ai tesori modernisti di Tbilisi non sono soltanto le opere realizzate e oggi parte integrante del tessuto urbano della capitale, ma anche alcuni edifici che, iniziati negli anni Ottanta, non hanno poi trovato compimento.

A proposito dell’ex museo di archeologia, sito su una collina del distretto Dighomi, nell’estrema periferia settentrionale della città, nella guida Dom Publishers Angela Wheeler definisce la mancata conclusione dell’opera “una delle grandi tragedie dell’architettura tardo-sovietica”.

Nella visione originale, il progetto di Shota Kavlashvili intendeva trasformare tre serbatoi circolari di stoccaggio dell’acqua, già esistenti nel sito, nelle aree di esposizione del museo. Sulla facciata dell’edificio un bassorilievo monumentale a cura di Tengiz Kikalishvili raffigura l’interno di una tomba. Seppur di proprietà del Museo Nazionale Georgiano, l’edificio oggi versa in stato di totale abbandono ed è oggetto di visite da parte di curiosi e appassionati nelle parti rimaste accessibili: tra le altre, una scaletta – da percorrere a proprio rischio e pericolo – permette di accedere all’interno di uno dei tre serbatoi.

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Ingresso dell’ex Museo di Archeologia (Adriana D’Auria)

Sulla collina dove sorge il museo è presente anche una statua di Santa Nino (fautrice della cristianizzazione dell’Iberia, parzialmente corrispondente all’odierna Georgia) realizzata nel 1994 dallo scultore georgiano-russo Zurab Tsereteli. Tsereteli, oggi novantenne e stabilmente residente in Russia, è stato spesso al centro dell’attenzione per la sua vicinanza al regime di Putin, pur mantenendo al contempo delle collaborazioni artistiche con il suo Paese d’origine. Tra le sue opere si ricordano la scultura di San Giorgio (2006), che oggi domina la Piazza della Libertà, e le maestose e tuttora incompiute Cronache della Georgia, costituite da 16 pilastri di oltre 30 metri che raffigurano figure chiave della storia georgiana, con l’immancabile presenza dei rappresentanti della Cristianità.

Se i monumenti descritti, al pari di altri, sono ancora oggi parte del panorama cittadino, altre strutture sono state invece abbattute.

Un esempio è Univermag (1975), un grande magazzino sul corso Rustaveli raso al suolo nel 2015 per la realizzazione della Galleria Tbilisi. Un altro caso è rappresentato dagli archi di cemento – comunemente noti come ‘orecchie di Andropov’ – dei già citati Kalandarishvili e Potskhishvili, autori dello Skybridge. La costruzione, realizzata nel 1983 in occasione della visita in Georgia dell’allora Segretario Generale del Partito Comunista Jurij Andropov, è stata demolita nel 2005 con una cerimonia alla presenza dell’ex presidente georgiano Mikheil Saakashvili, che della rimozione delle tracce del passato sovietico ha fatto un obiettivo del suo mandato.

Quanto agli edifici rimasti, tra gli anni Novanta e Duemila le istituzioni georgiane hanno scelto la strada della vendita o dell’affitto di lungo periodo a enti privati, senza tuttavia dettare – spiega Palavandishvili – “condizioni relative al loro utilizzo e alla salvaguardia dell’apparenza architettonica, dei loro aspetti decorativi, perfino del mobilio interno”. Si tratta di un vero e proprio paradosso che tuttora persiste: edifici pensati, progettati e realizzati per le masse oggi sono in mano a pochi privilegiati.

Sovietico a chi?

A oltre un decennio dalla presidenza Saakashvili, il dibattito odierno sulla gestione del patrimonio modernista sembra per lo più confinato a una ristretta cerchia di esperti e addetti ai lavori, salvo riacquisire centralità quando si parla del futuro geopolitico del Paese e dei complessi rapporti con la Russia, vicino ingombrante che strumentalizza, in Georgia e altrove, il comune passato sovietico.

Secondo Ana Chighitashvili, architetta, si tratta di un tema delicato e che evoca “sensazioni negative” nel paese, dato che la sua popolazione ha ripetutamente manifestato il desiderio di “distanziarsi dalla Russia e di mettere fine all’occupazione dei suoi territori”. Ma la demolizione rappresenta al contempo una scelta “troppo radicale: piuttosto, quando si riconosce il valore architettonico di un edificio – continua Chighitashvili – cambiarne la funzione è il miglior modo per cancellarne il passato”.

Secondo Palavandishvili, è la stessa etichetta ‘sovietica’ che andrebbe problematizzata: “dovremmo semmai parlare di opere del periodo sovietico anziché di opere sovietiche”: smettere dunque di associare questi edifici al sistema politico in cui sono stati realizzati, riconoscere le contaminazioni internazionali presenti e rivendicarli, infine, come “parte integrante del nostro patrimonio. Ma si tratta – confessa la curatrice – di un processo che richiede tempo: forse occorrono ancora anni per riconoscere e apprezzare il valore di queste opere”.

Tra una passeggiata tra le dense vie di Saburtalo e i tanti, irrefrenabili, scatti fotografici all’ex ministero dei Trasporti, l’eredità del modernismo di epoca sovietica sembra soltanto arricchire la già sublime cartolina che Tbilisi offre ai suoi visitatori.

Nell’immaginare un posto nel pantheon della creatività georgiana per gli artisti del modernismo, l’auspicio è che, in un futuro non troppo lontano, le loro opere avveniristiche – al pari dei balconi in legno del centro storico o dei volti smarriti di Pirosmani – possano essere riconosciute come vero e proprio patrimonio dell’umanità.

*Esperto di politica estera e funzionario dell’area della promozione culturale presso il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. Nel 2023 ha completato un dottorato in Scienze Politiche presso l’Università di Gand, con una tesi sulla diplomazia culturale dell’Unione Europea e della Russia in Europa orientale e nel Caucaso del Sud. È inoltre professore in visita presso il Collegio d’Europa di Bruges e l’Università di Maastricht.

Disclaimer: Le opinioni sono espresse a titolo personale e non sono riconducibili al Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale.

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