di Giulia Loda e Lorenzo Scalchi*
Sono passati trent’anni dalle guerre che hanno portato alla dissoluzione della Jugoslavia e il modo in cui le persone ricordano queste guerre, le migrazioni e le emozioni a esse legate plasmano ancora oggi vite, relazioni e politiche in molti territori.
Il progetto Moj Dom esplora le diverse interpretazioni delle guerre jugoslave, concentrandosi sulle sfide che derivano dalla cancellazione o dalla strumentalizzazione dei ricordi. L’obiettivo è quello di innescare riflessioni collettive su come un evento traumatico influenzi il senso di casa di coloro che sono costretti a migrare.
Proponiamo una traduzione di un articolo prodotto da Codici, capofila del progetto, sul tema della nostalgia.
Per approfondire, leggi anche i nostri articoli sulle guerre jugoslave.
1. Preludio: sulla nostalgia
C’è una parola che non ho ancora trovato in italiano e che vorrei esistesse: Tuđina. […] Significa tutto ciò che si attraversa nel processo di integrazione: ostilità, non essere compresi, non essere considerati, essere maltrattati… questa parola significa ‘lacrima che non cade mai’. È una parola triste che non ti abbandona mai. Significa non poter affondare nella nostalgia quando si lotta e si è in una situazione difficile.
Simonida
La nostalgia è una pianta molto velenosa, che tuttavia a volte può essere usata come tisana.
Božidar
Qual è il ruolo della nostalgia nel contesto di una traiettoria migratoria? Quando e come si sviluppa dal senso di perdita? Molte delle storie cui Moj Dom ha dato voce sono intrise di sentimenti nostalgici: per il sé passato, per la comunità disfatta, per un ideale frantumato, per la casa che fu e che non sarà mai più come prima. La nostalgia si configura, allora, come il ricordo di una perdita che ancora sanguina, che si nutre delle memorie di guerra e di emigrazione.
Tuttavia, la nostalgia opera anche come motore: da una parte, per identificare i propri bisogni, desideri e obiettivi, per riconoscere le relazioni importanti; dall’altra, generando esperienze di attivismo e solidarietà, umanitarie e di accoglienza, mosse da una spinta di carattere ideologico-politico.
La nostalgia appare importante per rinsaldare le fondamenta e ricostruire sulle macerie. Da qui, per molte persone scaturisce una riflessione sulla propria sopravvivenza: cos’è rimasto del me di prima? Come sono diventata dopo la guerra e la migrazione?
Parlare di sé, dopo tanti anni di silenzio, significa anche rispolverare e rinforzare quei dispositivi sociali che permettono di affrontare le spaccature, di rinsaldare le crepe e, in ultima analisi, di affrontare il viaggio della riscoperta e della riaffermazione della storia personale e collettiva: tra passato e presente, verso un’interpretazione del concetto di casa in senso relazionale.
2. Verso un nuovo senso di casa
Questo contributo e il successivo sono pensati consequenziali e complementari: si delinea un percorso dal passato al presente e al futuro, dalla perdita alla riconquista, dalla dissoluzione alla ricostituzione. Ci si orienta entro due piani semantici contrapposti dal punto di vista della connotazione emotiva: malinconia e speranza. Il perno dell’itinerario circolare, punto di partenza e di arrivo allo stesso tempo, è il senso di casa.
Questo percorso parte dai racconti di persone che si trasferirono in Italia durante gli anni Novanta e i primi anni Duemila e di persone che in quel contesto storico-geografico organizzarono aiuti umanitari e costituirono comunità di accoglienza a sostegno della popolazione rifugiata. Le loro sono esperienze diverse, ma spesso intrecciate e sotto alcuni aspetti sovrapponibili. Ad accomunarle ci sono vissuti di sradicamento e ri-radicamento, perdite – sostanziali o sul piano dell’immaginario collettivo – e ricuciture.
La riflessione in questo primo contributo parte dal concetto di perdita ed è pregna di rimandi al passato: alla rottura, al lutto, alla mancanza. Essi sono inquadrati sia sul piano individuale, con riferimento alla propria casa, alla propria famiglia, alle proprie relazioni; sia sul piano collettivo, della propria terra, della nazione cui appartenevano e che non esiste più, della stessa propria cittadinanza che cambia con la disgregazione dello Stato jugoslavo.
Qui si esplorano le componenti più desolate, dolorose, traumatiche addirittura, del ricordo. Si approfondisce, in particolare, il ruolo della perdita nella formazione della nostalgia, esplorando di quest’ultima l’etimologia e le sue molteplici accezioni. Della nostalgia si esplicita, inoltre, il suo carattere meno manifesto al senso comune, cioè quello costruttivo, generatore di cambiamento, che trova elaborazione ulteriore nell’approfondimento seguente.
3. Perdita e poi…
Sradicarsi comporta tagliarsi, estirparsi, recidersi, abbandonare, lasciare, perdere, forse abbandonarsi, lasciarsi, perdersi. Sradicandosi, sono molteplici e diverse le parti di sé che si perdono.
Si recide il proprio nome. C’è chi, arrivato in Italia, sperimenta la deformazione del proprio nome o del proprio cognome ad opera di chi non conosce la sua lingua madre: ne deriva la paura di non essere riconosciuti, il timore di non essere capiti.
Si abbandona la propria lingua, e con essa un vincolo di appartenenza viscerale, che veicola il sentire, il vivere, l’essere. Si perde la propria identità: la si nasconde, la si occulta, poiché non ha più un recinto accudente in cui esprimersi. Si lasciano le proprie origini, famigliari e territoriali: per un bambino, è l’anticipazione prematura di un vissuto ordinario, annunciato, prefigurato; per un adulto, è l’origine di un senso di colpa profondo, attanagliante.
3.1 Ricucirsi
Certi tagli si cicatrizzano. In questo senso, alcuni strumenti risultano particolarmente curativi. L’arte, ad esempio, aiuta a risanare le crepe dell’esistenza: sul piano collettivo, essa si configura come un modo di testimoniare che c’è la possibilità di riparare il corso degli eventi; su quello individuale, essa assume una funzione terapeutica, nella misura in cui rappresenta, di fatto, una medicina per l’anima.
In particolare, alcune delle persone intervistate sono entrate in contatto, nell’ambito della loro esperienza di displacement, con l’arte drammaturgica. Questa ha funzionato come un dispositivo di salvataggio: la commedia, infatti, ha il potere di ridimensionare la gravità degli eventi, così da rendere possibile il sopravvivervi.
Una seconda via, altrettanto sanatoria per le ferite aperte, è stata in certi casi quella di ridefinire il rapporto con le parole della propria lingua madre, rinegoziandone gli usi e riappropriandosene. C’è chi, di fronte al disorientamento dato dalla storpiatura del proprio cognome da parte di chi lo accoglie, scende a patti con una nuova pronuncia e si identifica in una nuova dimensione, diversa ma ugualmente legittimante. C’è chi, impossibilitato a utilizzare la propria lingua madre per esprimersi artisticamente, si fa traduttore da quest’ultima all’italiano, generando ponti e ampliando il proprio pubblico, così da avvicinarlo a un sé meno frantumato, ma più pieno.
3.2 Sanguinare ancora
Certi tagli, invece, sono vigliacchi, più profondi. Infatti, c’è un elemento che accomuna le perdite sperimentate nel contesto delle guerre jugoslave: il loro carattere improvviso, imprevedibile e, per questo, particolarmente violento. Quella dalla Jugoslavia verso l’Italia fu un’immigrazione impossibile da preparare con anticipo. Si espresse in strappi rapidi, che misero a dura prova la capacità di recuperare quei ricordi, che minò a sua volta quella di rielaborare l’accaduto.
Una perdita del genere, che ostacola una parte del sé, impedendone l’espressione, è comune tanto alla dimensione pragmatica di chi fu sovrastato dalla necessità di migrare, quanto alla dimensione ideologica degli attivisti e dei volontari che operarono, in territorio italiano o jugoslavo, in nome di diritti e ideali condivisi: la pace o il socialismo. Essi sperimentarono un’interruzione improvvisa dei propri progetti, delle proprie prospettive, e questo produsse una lacerazione nell’orizzonte delle possibilità che si prefiguravano e cui aspiravano.
Nondimeno, per chi affrontò il displacement, la perdita repentina è appesantita ulteriormente da un certo senso di tradimento, che scaturisce dall’auto-attribuzione di una colpa per l’abbandono di chi si è lasciato indietro.
3.3 Smarrirsi
Ciò nonostante, ci sono perdite che rimangono dolorose anche nel lungo periodo.
A livello individuale, per esempio, una perdita significativa è quella che deriva dalla modifica del proprio status. Essa è comune a molte storie di migrazione, anche astraendo dal contesto specifico della Jugoslavia, e mina un certo senso di stabilità personale. La transizione da una posizione relativamente agiata ad una di restrizioni e sacrifici è spiazzante, costringe in un limbo dove gli appigli cui aggrapparsi sono sfuggenti.
Spostandosi dalla dimensione privata a quella pubblica, invece, a dissolversi è il rimando a una patria cui non si può più appartenere. Alcune tra le persone che lasciarono la propria terra avvertirono che il concetto stesso di “essere jugoslavo” era improvvisamente venuto meno.
Specularmente, alcuni attivisti rammentano, ancora oggi, il rammarico per il sogno jugoslavo infranto: a sciogliersi qua furono i valori comuni, che costituivano il presupposto per una comunione di intenti, tra individui, tra associazioni, tra istituzioni: anche nei confronti di queste ultime si fece avanti un moto di sfiducia.
In entrambe le situazioni si ambisce a un ritorno, che sia al sé o al gruppo, per come questi si prefiguravano in un passato più integro. Non a caso, molte delle storie raccolte sono costellate da richiami nostalgici.
3.4 Ritrovarsi
La nostalgia sono i ricordi delle persone con cui ho trascorso la prima infanzia, con cui ho condiviso le basi della mia vita. Questi sono i ricordi dei mattoni fondamentali della casa.
Rada
La nostalgia è una gabbia che ti trattiene. Ma a volte è utile per la consapevolezza di sé, per apprezzare le relazioni umane; parlo della nostalgia per quella cura reciproca nei momenti difficili.
Emina
La teorica culturale Svetlana Boym (2001) definisce la nostalgia come il desiderio per qualcosa che non c’è più o che non è mai esistito. Inoltre, ne illustra due dimensioni: quella ristorativa, rivolta al passato e segnata dalla perdita e dalla volontà di ricostruzione del vecchio; e quella riflessiva, diretta al futuro, che concepisce la possibilità della trasformazione, intrisa di desiderio, speranza e pensiero critico.
La nostalgia può ingabbiare: il desiderio costringe quando è irrealizzabile perché soffocato in un tempo concluso. Eppure, l’atto di immobilizzarsi nel passato talvolta traduce un bisogno di sopravvivenza, che non trova espressione in altro modo. In questo senso, l’ancoraggio che caratterizza la nostalgia ristorativa può essere salvifico: è pur sempre pulsione, una forma insaziabile di recupero.
Infatti, messi di fronte allo smarrimento, ci si rapporta con le rispettive identità collettive, da cui si rifugge o in cui si cerca rifugio. C’è chi scappa, in uno sforzo di evasione che è il contrario di una resa: si tratta, piuttosto, di un tentativo di recuperare la ricchezza della propria vita, slacciandola dai connotati esterni che furono scalfiti.
Dall’altra parte, la nostalgia riflessiva può diventare una risorsa per la costruzione di una nuova comunità, di un’identità collettiva. Possiamo parlare allora di una nostalgia “attiva”, che in modalità diverse accomunerebbe attivisti/volontari e migranti: entrambi, mossi da un sentimento nostalgico, si sono attivati per la (ri)costruzione di reti identitarie, e quindi, di un’idea, o di un luogo, che possa essere casa, concretamente o metaforicamente.
Senza un senso di appartenenza, l’identità individuale rimarrebbe sfibrata. Sentirsi a casa, allora, ricompone i propri pezzi. In particolare, si rafforzano e si rinnovano certe appartenenze specifiche, mentre altre che furono più inglobanti hanno perso la consistenza originaria. Ad esempio, il rifacimento all’identità nazionale singolare, laddove quella jugoslava non è più applicabile, sana un certo senso di frammentazione.
3.5 Ricostruire
Come già anticipato, anche la nostalgia esperita e narrata dai volontari e dagli attivisti italiani nei confronti dell’ex Jugoslavia può essere considerata da due punti di osservazione, che differiscono da un punto di vista di prospettiva temporale.
In primo luogo, l’esperienza degli intervistati ci parla della nostalgia di un passato non vissuto in prima persona, ma che, prima di scomparire, rappresentava un ideale. Si tratta della nostalgia per il socialismo reale, cioè il sistema politico ed economico che vigeva nella Repubblica Federale di Jugoslavia.
Il sentimento nostalgico si rivolge allora alla Jugoslavia in quanto essa ne incarnava, nella Storia, non solo la possibilità di esistenza, ma anche un esempio ritenuto virtuoso – perlomeno nelle narrazioni “alternative” promosse da volontari e attivisti. Si aprono le porte, qua, a una dimensione traumatica della presa di coscienza della fine di un sogno condiviso.
Non si tratta solo di un legame generazionale, infatti, anche in volontari più giovani – che si riconoscono negli stessi valori politici – il ricordo è simile: meno legato a una realtà di cui si è fatta esperienza “in diretta” dal punto di vista della collocazione temporale, seppur a distanza, ma più associato a una conoscenza acquisita attraverso lo studio, l’informazione e lo scambio.
La nostalgia per la Jugoslavia assume, in particolare per coloro che si riconoscevano nei valori della sinistra politica, una dimensione identitaria, nella misura in cui è ideologica. Il rimpianto per l’ideale socialista diventa, allora, motore dell’azione: ci si attiva per la ex Jugoslavia anche per tentare di salvare quello che era stato un mondo possibile, per salvaguardare la speranza nella possibilità che quella realtà non fosse destinata a scomparire, ma che si sarebbe potuta ricostituire.
Negli anni ‘90 lavoravo nell’istituto di cultura di Belgrado, dove avevo trovato un socialismo che mi faceva pensare all’Europa come la intendevo io: libera, istruita, giusta, con un ottimo sistema socio-sanitario e un sistema egualitario di assegnazione degli alloggi. Quando il governo italiano ha bombardato la Jugoslavia ho rassegnato le dimissioni e sono rimasta vicina ai miei amici e colleghi jugoslavi: era meglio rimanere con la schiena dritta.
Adele
In secondo luogo, nei volontari e negli attivisti si produce un sentimento nostalgico contestualmente alla mancanza di un luogo che, vivendoci, si era fatto familiare. Esso coincide con un vissuto che sopraggiunse nel momento in cui le esperienze di mobilitazione si conclusero e i protagonisti fecero ritorno alle vite precedenti, segnati irrimediabilmente dalle esperienze vissute sul campo.
Questo tipo di nostalgia si affranca da elementi ideologici, ma è ricca di un portato emotivo, legato in gran parte alle relazioni che i volontari e gli attivisti avevano intessuto durante i propri viaggi in terra jugoslava, che diventa una patria acquisita per queste persone. Anche in questo caso, la nostalgia è determinante per le loro traiettorie di vita, nella misura in cui – rimandando, tra l’altro, a esperienze vissute in anni particolarmente delicati dal punto di vista formativo – li ha spinti a lavorare in ambiti che permettessero loro di averci ancora a che fare, o addirittura a viverci per periodi di tempo più o meno lunghi.
[…] Avevo continuato a tenere i contatti con l’ex Jugoslavia perché ormai era una malattia conclamata per me. Ecco, si parla tanto del mal d’Africa, ma c’è anche il mal di Balcani […] Adesso… mi piacerebbe andare a mangiarmi in Croazia i ćevapčići… beh, se ci penso mi viene la nostalgia…
Fabrizio
Comprendiamo, così, che anche quelli di attivisti e volontari sono tagli che per rimarginarsi hanno – o avrebbero – (avuto) bisogno dell’incontro con altri tagli, di origini e forme assimilabili, di essere messi in comunicazione e di essere narrati, di uno spazio che restituisse il valore dovuto a una tale esperienza personale e collettiva.
4. Conclusione
La nostalgia è, contemporaneamente, sintomo e antidoto della perdita. È acqua, che ravviva una ferita aperta, ma è anche punto di sutura, che prepara la pelle a una nuova corsa, forse a nuove cadute. Mantenere vivo il ricordo di quella corsa – e di quelle cadute – e accudirlo insieme a quelli delle corse e delle cadute altrui è ciò che produce il processo di guarigione e che coltiva quello di ricostruzione, individualmente e collettivamente.
Ricostruire il sé nell’individualità e nell’appartenenza, ricostruire la comunità ideale o reale, passa per il ricordo, ma solo se messo in dialogo, in uno spazio protetto, comprensivo, accogliente, relazionale, dove il senso di casa, sradicato e ri-radicato, possa riprodursi.
* Giulia Loda è una ricercatrice sociale e collaboratrice di Codici. Ha condotto diverse interviste per Moj Dom e, più in generale, esplora temi come migrazione, memoria, attivismo e narrazione comunitaria.
Lorenzo Scalchi è un ricercatore sociale presso Codici, dove studio vari temi, tra cui migrazioni internazionali, memorie e disuguaglianze. È il coordinatore del progetto Moj Dom.